Copertina
Autore Jun'ichirò Tanizaki
Titolo Yoshino
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006 [1998], Letteratura universale , pag. 144, cop.fle., dim. 120x182x10 mm , Isbn 978-88-317-6897-9
OriginaleYoshino kuzu
EdizioneChuokoron-Sha, Tokyo, 1931
TraduttoreAdriana Boscaro
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa giapponese
PrimaPagina


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Indice

 11 Lo specchio della memoria
    di Adriana Boscaro

 37 Tanizaki Jun'ichirò: la vita, le opere
    di Luisa Bienati

 55 YOSHINO


121 Note

127 Testi citati dall'autore

135 Glossario


 

 

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Pagina 11

LO SPECCHIO DELLA MEMORIA



Al lettore che già conosce Tanizaki anche solo per la notorietà di opere come Gli insetti preferiscono le ortiche, La chiave o Diario di un vecchio pazzo, o ancor più all'appassionato che si è spinto oltre lasciandosi coinvolgere da altri titoli — e per fortuna sono tanti quelli reperibili in italiano — non sarà di certo sfuggito il profondo legame che lo scrittore ha con la cultura del passato del suo paese. Non un nostalgico e sterile rimpianto per i «bei tempi andati», bensì un ripercorrere l'invisibile ma onnipresente rete di richiami che il potere evocativo della poesia ha steso attraverso i secoli. Ciò è quanto avviene nel testo qui presentato dove un suono, il nome di un luogo, una sensazione tattile sono sufficienti a suscitare nello scrittore un'onda di ricordi che si tramutano in citazioni talvolta erudite talvolta solo apparentemente casuali.

Yoshino kuzu (questo il titolo originale sul cui significato ritorneremo) si situa in un momento della vita artistica dell'autore — siamo nel 1930 — piuttosto travagliato sul versante personale e durante il quale Tanizaki trova spesso rifugio in zone del Giappone centrale, lontano quindi dalla capitale lasciata dopo il disastroso terremoto del 1923. Sono gli anni che vedono anche nascere Racconto d'un cieco, Vita segreta del signore di Bushú e I canneti: tutte opere situate in un passato reale o di sogno. Ma solo Yoshino kuzu è un vero e proprio percorso della memoria, un vagabondaggio sentimentale che si ammanta di erudizione. Tanto più stimolante quindi, ancorché talvolta arduo, afferrare sino in fondo accenni e richiami: quanto segue è un tentativo di fornire al lettore i mezzi per addentrarsi in alcuni di questi percorsi. Gli echi che il nome della regione di Yoshino evoca; l'evento traumatico della scissione della linea imperiale negli anni 1272-1392 con gli scontri armati e le conseguenti laceranti scelte di campo; la storia d'amore di Yoshitsune, l'eroe più caro al cuore dei giapponesi, con la bella Shizuka; la presenza familiare e inquietante al tempo stesso della volpe, con le sue capacità di assumere sembianze umane; la nostalgia per la madre che si coagula nella lenta ricerca di Tsumura e nelle emozioni espresse da Genkurò-la-volpe. Tutto ciò – e altro – si intreccia nelle pagine del testo e se è ovvio che conoscere nei dettagli la funzione di ogni componente è di aiuto, il suggerimento è di lasciarsi piuttosto coinvolgere dall'atmosfera e dall'incanto delle parole e di godere appieno delle sensazioni sonore, tattili e visive ricreate dall'autore.

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Pagina 24

Il testo
Dopo aver toccato gran parte degli argomenti, è giunto il momento di parlare della trama: che pare non esserci; di quello che succede: che a prima vista sembra poco o nulla; di quello che il testo significa per Tanizaki, che è molto.

Nella sua apparente semplicità strutturale, o meglio ancora nell'accentuata svagatezza del procedere del discorso, il testo offre tuttavia plurimi piani di lettura. La storia ruota attorno a due personaggi, l'io-narrante, uno scrittore di Tokyo, e un suo amico di Osaka, Tsumura. Siamo nel 1912: Tsumura ha deciso di recarsi a Yoshino per ricercare le proprie radici, e lo scrittore gli si accompagna per raccogliere materiale per un libro che sta scrivendo sugli ultimi discendenti della «corte del Sud». Lungo il viaggio, il coinvolgimento di Tsumura è tale che a poco a poco lo scrittore si dimentica della sua ricerca e si appassiona a quella dell'amico. Ma si procede lentamente, attraverso divagazioni e reticenze. Ogni occasione è buona per parlare d'altro, per dare la stura al magazzino dei ricordi, per ricollegarsi a testi antichi, mentre i due si immergono nell'atmosfera incantata di uno dei paesaggi del Giappone più carichi di storia. Procedono lungo il fiume Yoshino verso Kuzu, che è il villaggio dove è nata la madre di Tsumura, e ne approfittano per fermarsi a Natsumi, località dove presso una famiglia dovrebbe essere custodito il famoso tamburo Hatsune appartenuto a Shizuka. Il capofamiglia mostra loro non solo il tamburo ma anche altri oggetti del tempo di Yoshitsune, nonché un documento storico del villaggio. Mentre lo scrittore si dimostra piuttosto deluso da tutto ciò, e volge la sua attenzione alla natura intorno e in particolare a dei succulenti cachi che gli vengono serviti dal padrone di casa, e sui quali ritorneremo, per il sognatore Tsumura ancora una volta non importa se il koto non è quello suonato dalla madre, se della volpe venerata dal bisnonno non esiste più che un buco a indicare l'entrata di una tana ormai disabitata, se il ricordo della donna sembra sbiadito: tutto serve ad alimentare il fuoco bruciante del suo mondo di ricordi.

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Pagina 55

YOSHINO
YOSHINO KUZU



1.
JITENNO



Sono trascorsi circa vent'anni da quando mi sono addentrato nei recessi di Yoshino nella provincia di Yamato. Si era alla fine del periodo Meiji o agli inizi del Taishò, intorno al 1912, quando non possedevamo ancora i trasporti che abbiamo adesso. Devo quindi dare inizio alla mia storia spiegando come avvenne che mi decisi a spingermi nel profondo di quelle montagne che di recente sono state chiamate «Alpi di Yamato».

Come alcuni dei miei lettori senza dubbio sanno, nel distretto dove si trovano il fiume Totsu, il Kitayama, e il villaggio di Kawakami, sopravvivono delle leggende sull'erede della corte del Sud che ancora oggi i locali chiamano il «Signore della corte del Sud» o «Re celeste», il Jitenno. Questo «Re celeste», cioè il principe Kitayama, era un bis-bis-nipote dell'imperatore Gokameyama. Gli storici specialisti del periodo confermano che ci è venuto davvero, quindi non è una leggenda. A grandi linee, la maggior parte dei testi delle scuole primarie e secondarie spiegano che nell'anno nono dell'era Genchù, per la corte del Sud, e nel terzo dell'era Meitoku, stando allo shogunato retto da Yoshimitsu [cioè il 1392], le due Corti rivali giunsero a un accordo e si fusero ponendo così fine alla corte di Yoshino, una cinquantina di anni dopo che l'imperatore Godaigo vi aveva dato inizio nell'anno primo dell'era Engen. Ma il ventitreesimo giorno della nona luna del terzo anno dell'era Kakitsu [1443], a notte fonda, Kusunoki Jirò Masahide, seguace del principe Manjuji della linea imperiale del Daikakuji, sferrò un attacco improvviso al palazzo Tsuchimikado, sottrasse le tre sacre insegne imperiali, e si rifugiò con i suoi uomini sul monte Hiei. Si dice che, inseguiti dai nemici, il principe si tolse la vita, che due delle insegne, la spada e lo specchio, furono recuperate, ma che il gioiello restò nelle mani dei seguaci della corte del Sud. Al che le casate dei Kusunoki e degli Ochi, fedeli ai due figli del principe Manjuji, raccolto un esercito lealista fuggirono a Ise, e poi nel Kii e nello Yamato, per rifugiarsi infine nelle remote montagne di Yoshino, fuori della portata dell'armata della corte del Nord. Lì onorarono il principe maggiore come Jitenno e il minore come «generalissimo inviato a soggiogare i barbari», e diedero all'era il nome di Tensei. Per più di sessant'anni protessero il sacro gioiello in una gola profonda, difficile da scovare per il nemico. Poi, traditi da seguaci della casata Akamatsu, i due principi furono uccisi e fu così posto fine alla linea del Daikakuji. Dato che ciò avvenne nella dodicesima luna del primo anno dell'era Chòroku [1457], facendo un conteggio puntuale si evince che dal primo anno Engen [1336] fino al nono Genchù [1392], vale a dire per cinquantasette anni, e poi, a partire da lì sino al primo Choroku, cioè per altri sessantacinque, quindi per un lungo periodo di centoventidue anni, dei personaggi facenti parte della linea della corte del Sud avevano risieduto a Yoshino opponendosi al partito della capitale.

La gente del luogo ha ereditato una tradizione di lealtà nei confronti della corte del Sud, ed è quindi naturale che conti il suo corso sul tempo di Jitenno. Infatti insiste nel dire che durò: «non cinquanta e passa anni, ma per ben più di cento». Anch'io mi ero appassionato alla storia segreta della corte del Sud sin da ragazzo quando lessi il Taiheiki, e da tempo volevo redigere un racconto storico sulle tracce ancora esistenti.

Stando a una raccolta di tradizioni orali del feudo di Kawakami, paventando un attacco dalla corte del Nord i fedeli sopravvissuti della corte del Sud si trasferirono in una gola, senza uscita e poco frequentata, chiamata Sannoko dove si arriva partendo da Shionoha, ai piedi dell'attuale monte Odaigahara, dirigendosi verso Osugi sul confine della provincia di Ise. Lì avrebbero costruito un palazzo per il loro signore e nascosto il gioiello in una caverna. Le cronache Kotsukiki e Akamatsuki riportano che trenta esuli del clan di Akamatsu con a capo Majima Hikotarò, infiltrati da tempo nella corte del Sud, il secondo giorno della dodicesima luna del primo anno Choroku [1457] avrebbero approfittato di una forte nevicata per un attacco di sorpresa. Un gruppo assalì il palazzo del principe a Okochi, mentre un altro si diresse verso quello del «generalissimo» nella vallata Kono. Il Jitenno si difese brandendo la spada, ma alla fine fu colpito a morte dai traditori, che s'involarono con la sua testa e il gioiello sacro. Ostacolati dalla neve, era già notte quando giunsero al passo Obagamine. Lì seppellirono la testa del principe sotto la neve e vi passarono la notte. La mattina dopo però subirono l'attacco delle truppe degli intendenti dei diciotto villaggi di Yoshino. Durante il combattimento, si dice che la testa del sovrano sputò sangue attraverso la coltre bianca così che i suoi fedeli poterono recuperarla.

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Pagina 95

5.
KUZU



Da qui in avanti riporterò il racconto di Tsumura in maniera indiretta.

La particolare attrattiva che sentiva per Yoshino era quindi dovuta all'influsso di Mille ciliegi, ma c'era anche un'altra ragione: il fatto che sua madre era originaria proprio di quelle parti. Da dove con precisione e se la sua casa paterna stava ancora lì erano interrogativi rimasti a lungo avvolti nel mistero. L'aveva chiesto alla nonna, ripetutamente, per cercare di saperne quanto più possibile mentre essa era ancora in vita, ma non aveva avuto risposte soddisfacenti. Tutto quello che aveva ottenuto era di sentirsi dire che non riusciva a ricordare nulla. Era strano inoltre che gli zii e le zie, e gli altri parenti, non sapessero dirgli niente sulla famiglia di sua madre. Dato che gli Tsumura esistevano da molto sembrava cosa naturale che i rapporti risalenti a due-tre generazioni prima fossero stati mantenuti, ma il fatto era che la giovane donna non era giunta direttamente da Yoshino per sposare il padre di Tsumura. Da bambina era stata venduta a un quartiere di piacere di Osaka, e prima del matrimonio era stata adottata da un uomo rispettabile. Stando al registro dello stato civile era nata in Bunkyu 3 [1863], aveva lasciato la casa del padre adottivo Urakado Kijuro a Imabashi 3- chome all'età di quindici anni, quando si era in Meiji 10 [1877], per andare sposa in casa Tsumura, dove era morta in Meiji 24 [1891] a ventinove anni. Questo era tutto quanto il mio amico era stato capace di venire a sapere di lei all'epoca in cui aveva finito la scuola media. Più avanti si rese conto che forse la nonna e gli altri non parlavano chiaro perché non amavano ricordare il suo passato. Ma per lui, il fatto che fosse cresciuta in un quartiere di piacere non era né disonorevole né sgradito, anzi gliela rendeva ancora più cara. Tanto più che era andata sposa a quindici anni, e persino in un'epoca in cui ci si sposava presto, era probabile fosse rimasta una fanciulla innocente, appena sfiorata dallo squallore di quel mondo. Senza dubbio proprio per questo aveva avuto tre figli. Giunta nella casa del marito senza una cultura, doveva essere stata istruita in tutte le arti confacenti alla padrona di casa di un'antica famiglia. Una volta aveva trovato degli esercizi per il koto che lei aveva ricopiato quando aveva diciassette o diciotto anni. Su dei fogli hanshi, piegati in quattro a mo' di quaderno, aveva scritto i versi in orizzontale e, tra le righe, aveva con cura annotato la musica in inchiostro rosso. Era una calligrafia bellissima, nello stile della scuola Oie.

Negli anni successivi se ne andò a proseguire gli studi a Tokyo e crebbe lontano dalla famiglia, ma il desiderio di trovare il luogo natio della madre si accrebbe sempre più. In realtà, non è esagerato affermare che passò la giovinezza struggendosi per lei. Era sì incline a provare interesse per le passeggiatrici, le giovani signorine, le geisha, le attrici che incrociava per strada, ma le uniche donne che davvero attiravano la sua attenzione erano quelle che nei lineamenti assomigliavano alla madre che conosceva dalle fotografie. Quando decise di lasciare gli studi e tornare a Osaka, non lo fece solo perché la nonna glielo chiese ma soprattutto perché si sentiva attratto da quella zona – un posto un po' più vicino a dove era nata la madre, e alla casa di Shimanouchi dove aveva passato metà della sua breve vita. Un'altra ragione era che la madre era una donna del Kansai. A Tokyo era raro imbattersi in qualcuno che le somigliasse, mentre talvolta ciò poteva accadere a Osaka. Sapeva che era cresciuta in un quartiere di piacere: purtroppo non aveva mai saputo quale, ma per farsene un'idea e catturarne la visione passava il suo tempo con le donne del «mondo dei fiori e dei salici» e a far conoscenza col sake nelle case da tè. Di tanto in tanto gli accadde di innamorarsi di donne d'altri, e si fece la fama di uno che amava «divertirsi». Tuttavia, dato che la molla era questa sua ricerca, non si era mai spinto troppo in là e si era mantenuto casto. Due o tre anni dopo, la nonna era mancata.

Accadde mentre stava mettendo in ordine le sue cose. Frugava tra le carte in un cassettone del deposito: mescolati ai documenti che sembravano di mano della nonna, c'erano anche vecchi appunti e delle lettere che non aveva mai visto. Tra queste, lettere d'amore dei suoi genitori all'epoca in cui sua madre era ancora legata a contratto; una indirizzata a lei da parte, a quanto pareva, di sua madre dalla provincia di Yamato; e inoltre certificati dei suoi insegnanti di koto, shamisen, ikebana e cerimonia del tè. Le lettere d'amore – tre del padre e due della madre – non erano che le ingenue intimità di due giovani alla loro prima esperienza, ma dicevano tutto sulla precocità dei ragazzi di quei tempi: a quanto pare i due si incontravano in segreto e benché la calligrafia fosse ancora immatura, il linguaggio delle lettere della madre non sembrava di una ragazza di quattordici anni. Per esempio: «...Cedo a un sentimento incontrollabile nel vergare questa lettera. Cercate di capire le ragioni del mio cuore...», e poi: «Quale felicità straordinaria mi pervade nel leggere i vostri pensieri per me. Ciò mi porta a svelarvi una parte di me stessa di cui arrossisco...» C'era una sola lettera dai suoi di casa, indirizzata: «Osaka, Shinmachi 9, presso Kokawa, Signorina Sumi», e come mittente: «Provincia di Yamato, distretto di Yoshino, villaggio Kuzu, località Kubokaito, moglie di Konbu Sukezaemon». Incominciava così: «Ti scrivo per dirti quanto ti siamo riconoscenti che tu sia una figlia così devota. Ogni giorno fa un po' più freddo, ma nonostante ciò, visto che stai bene, siamo tranquilli. Tuo padre e tua madre ti sono veramente grati...» Seguiva una lunga lista di ammonizioni: doveva considerare i padroni della casa come suoi genitori ed esser loro devota; doveva applicarsi durante le lezioni; non invidiare le cose altrui; aver fede negli dei e nei buddha, e così via.

Seduto sul pavimento polveroso del magazzino, la lesse e la rilesse nella luce che si affievoliva. Alla fine, resosi conto che il sole era tramontato, si rifugiò nel suo studio e spiegò la lettera sotto la luce di una lampada elettrica. Sulla carta – era un rotolo lungo più di tre metri – aleggiava la presenza della vecchia donna che, ormai saranno passati trenta o quarant'anni, curva al fioco lume di una lampada a olio in una casa di campagna di Kuzu, si strofinava via la cispa dagli occhi mentre con cura componeva questa lettera per la figlia. L'ortografia e lo stile erano qua e là zoppicanti, come ci si poteva aspettare da una lettera di una vecchia di campagna, ma i caratteri usavano il corretto stile corsivo Oie: era di una buona mano, non di una semplice campagnola. Tuttavia era chiaro che qualcosa era accaduto e che i genitori erano stati obbligati a cedere la loro figlia per denaro. Purtroppo come data c'era solo settimo giorno del dodicesimo mese, senza indicazione dell'anno, ma si poteva supporre che fosse la prima lettera scritta alla figlia dopo la sua partenza per Osaka. In certi passaggi si sentiva la malinconia di chi sa che ha ancora poco da vivere: «Queste sono le ultime raccomandazioni della tua mamma», e «Anche quando non ci sarò più, ti sarò sempre vicina per aiutarti ad avere successo». Di notevole interesse, tra tutte le raccomandazioni «devi far questo, non devi far quello», c'era una lunga esortazione a non sciupare la carta. «Questa carta è stata fatta dalla tua mamma e da Orito. Tienla sempre presso di te e abbine gran cura. Anche se vivrai nella ricchezza e non avrai bisogno di nulla, non devi sciupare la carta. Per fare questa carta la tua mamma e Orito lavorano così sodo che non sentono nemmeno più la punta delle dita, tanto sono screpolate e ulcerate dal gelo». Ben venti righe di consigli su questo solo argomento, dalle quali Tsumura apprese che i parenti di sua madre erano fabbricanti di carta e seppe dell'esistenza di una donna di nome Orito, forse una sorella di sua madre. Era nominata anche un'altra donna, Oei. «Oei se ne va ogni giorno sulla montagna, dove ora la neve è alta, alla ricerca di radici di kuzu. Lavoriamo tutti per mettere qualcosa da parte e quando avremo denaro bastante per il viaggio verremo a trovarti. Te lo prometto». La lettera finiva con una poesia:

    L'amore per i figli
    rende cieco
    il cuore delle madri,
    provo nostalgia quindi
    del Valico delle tenebre

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