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| << | < | > | >> |IndicePREMESSA ESTETICO POLITICA 9 INTRODUZIONE 13 1. LE 'IDEE ESTETICHE' DELLA VITA ACTIVA 19 1. All'incrocio di quattro idee 2. Aisthesis: tutto ciò che è, appare. 3. La forma 4. Il particolare 5. Il nuovo 6. Lavoro, opera, azione 2. LA SCENA DEL MONDO 33 1. Mondo-dimora e mondo-teatro 2. Costruire il mondo 3. Mondi paralleli: Heidegger e Arendt sul mondo 4. L'abitare e il sentirsi a casa 5. Terra e mondo 6. Conservazione e innovazione 7. L'essere e l'apparire. Cosa fa del mondo uno scenario? 8. Esse est percipi 9. La "realtà dell'apparenza" 10. Un senso comune per la conoscenza 11. L"apparenza della realtà" e le forme di vita 12. Il mondo come teatro 3. MODERNITÀ, ARTE, POLITICA 69 1. L'opera d'arte come monumento 2. Arte e politica 3. Arte moderna 4. DOXA. UN'ONTOLOGIA PROSPETTICA 87 1. La doxa e il posto dello spettatore 2. Il luogo e la prospettiva 3. L'essere e il sapere della doxa 4. Il baratro e il frammezzo 5. Lo stupore in nero 6. La questione metafisica e la scelta a favore del finito 7. Il labirinto delle domande 8. L'opzione estetico-politica 9. "Dove siamo quando giudichiamo?" 10. Prospettivismo e ontologia. Nietzsche e Merleau-Ponty 11. Lo spazio politico 12. Mercurio in politica: la prospettiva attiva 13. Paragoni, immagini, bugie 14. Conflitti 15. Apolidi 5. Lo SPETTATORE 129 1. Postazioni 2. Spettatori di sorvolo 3. Imparzialità e disinteresse 4. L'occhio e lo sguardo. 5. Il posto assegnato. 6. Spostamenti freudiani 7. La prospettiva rovesciata 8. Socrate e la performance dello spettatore 9. Alla conquista di luoghi 6. GIUDICARE 147 1. Verso la condizione del politico 2. Una lettura antimorale 3. Entusiasmi 4. Una antinomia del giudizio 5. Le conseguenze del giudicare 6. "Pubblicità" e essere-plurale 7. Pregiudizi e giudizi 8. La decisione imparziale. 9. I due spettatori 10. Giudizio estetico, giudizio politico 11. Il giudizio, la legge, l'esempio 12. Schemi ed esempi 13. Il ragionevole e l'esemplare 14. Modelli 7. L'ATTORE E LA VITA IN AZIONE 197 1. Il senso della vita 2. Lavorare per vivere 3. Vita attiva e vita in azione 4. In gara con la vita 5. Alcune mosse nel gioco della vita attiva 8. LA QUESTIONE DELL'UMANISMO 213 1. L'uomo apolitico di filosofia e teologia 2. "Poeticamente abita l'uomo": il disumanismo di Heidegger 3. Alcune questioni heideggeriane 4. Tra storicità e libertà 5. Il "riferimento" come incontro 6. Pensanti, dunque animali 7. "Politicamente abita l'uomo" 8. Tecnica e politica 9. Che senso dare alla parola 'umanità'? 9. VITA, POLITICA, BIOPOLITICA 253 1. Vita e biopolitica 2. La vita nuda 3. Biopolitica dell'eccezione 4. Sordità alla biopolitica 5. Biopolitica della nascita 6. Le 'forze' e il collettivo CONCLUSIONE 273 BIBLIOGRAFIA 278 INDICE DEI NOMI 301 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Prigionieri del 'meramente'. Non di rado capita di imbattersi, in occasione della presa in esame o della valutazione di un oggetto, un edificio, un libro, un evento, nella rapida liquidazione di quanto appare riconducibile sotto il titolo del "meramente estetico". L'estetico messo a nudo, con quel 'meramente' che ne rafforza l'isolamento, risulta essere semplice involucro inessenziale, forma e non contenuto, simulacro, apparenza ingannevole, forse protesi, immagine di superficie che svuota o perlomeno riduce il valore e la realtà vera dell'oggetto. Tanto potente è ancora la distinzione tra verità e apparenza, che lo stesso aspetto esteticamente attraente di qualcosa o di qualcuno fa sorgere, che lo vogliamo o meno, un sospetto di mancanza di sostanza. A complicare le cose, almeno per chi si occupa di filosofia, sta poi la circostanza che il termine 'estetico' evoca tutte prospettive tendenzialmente soggettive, legate alle emozioni e in genere al sentire di un soggetto posto di fronte alla realtà secondo modalità che non sempre entrano davvero in commercio con il mondo, il che ha favorito l'idea che una riflessione su questo genere di esperienze desse vita all'estetica come ambito 'autonomo' e separato, un orizzonte differenziato di esperienza, legato al valore di verità della bellezza e dell'attività creativa umana. La deriva, potremmo dire, 'riduzionista' collegabile e di frequente collegata all'estetico, riguarda insomma le sue due principali accezioni: il carattere (solo) apparente e non sostanziale e il carattere (solo) soggettivo e non oggettivo, reale, vero. L'estetico, schiacciato tra due metafisiche. Gli fa eco, partecipando in fondo del medesimo carattere di esteriorità e apparenza, il "meramente politico". In questo caso sono in gioco l'opinione priva di convinzione, il patto effimero, la presa di posizione opportunistica, l'accordo strumentale in assenza di una autentica condivisione. Il 'meramente politico', soprattutto, è cinico. Fa aggio su valori e principi etico-politici autentici, millantando un interesse comune di ampio respiro ma di fatto angusto, miope e fazioso. Già virtù politica di principi e cortigiani, è il vizio di una politica autoreferenziale, corporativa e disinteressata alle sorti del mondo. Questa breve incursione nel 'meramente', che alleggerisce sia l'estetico che il politico di ingombranti contenuti, può tornare utile per due ragioni. Perché fornisce, sia pure e contrario, una chiave per comprendere l'effettivo terreno di incontro di politico e estetico nel pensiero di Hannah Arendt. Si tratta, detto in forma del tutto abbreviata, proprio del terreno dell'apparenza e dell'apparire, del mondo come luogo di esibizioni, azioni e scambio di opinioni e del valore che il mondo riveste agli occhi di spettatori e attori esteticamente oltre che politicamente attivi. Ma Hannah Arendt si inoltra in un terreno che per molti resta insidioso. Ciò che ostacola l'ammissione della possibilità di un proficuo incontro di estetico e politico, è infatti anche un certo diffuso imbarazzo o difficoltà nel definire non tanto cosa implichi il 'politico', per lo più assimilato all'ordine dell'ovvio, quanto che cosa significhi 'estetico', e di cosa, in fin dei conti, si occupi una disciplina come l'estetica – se sia un ambito della filosofia (filosofia dell'arte o della percezione), oppure una riflessione a tutto campo, "non speciale", una indagine sull'esperienza e il suo senso. O ancora solo un "bizzarro" settore dove a lungo si sono dati convegno filosofi, critici e artisti a caccia della farfalla della bellezza. Questi nostri rapidi cenni sul 'meramente' dell'estetico e del politico servono però anche a individuare la base, per così dire, pregiudiziale, per inquadrare il significato di espressioni, ancora una volta di tipo liquidatorio, che mirano a dare conto del rapporto, reale o possibile, del politico con l'estetico e viceversa, evidenziando però l'effetto di un sostanziale stravolgimento della vocazione originaria di quanto viene vampirizzato, a seconda dei casi, dall'estetico o dal politico – al punto che il 'meramente' sembra un destino degenerativo iscritto nel DNA stesso dell'estetico e del politico. È il caso della 'estetizzazione della politica', che nella messa in parallelo con una 'politicizzazione dell'estetica' intreccia lo svuotamento di contenuti e il trionfo della confezione con una utilizzazione o strumentalizzazione a fini politici di ogni manifestazione o espressione, culturale, vitale, ecc. Due fenomeni che ideologicamente sono stati spesso contrapposti, e che quando si sono fusi, come nei regimi autoritari di ogni epoca ma soprattutto nei totalitarismi del '900 (di cui proprio Hannah Arendt ha contribuito a comprendere i fondamenti teorici), hanno prodotto miscele esplosive. I pregiudizi riguardano dunque, in misura quasi identica, i pericoli di estetizzazione e di politicizzazione che vanno a interessare rispettivamente l'estetica che entra in politica e la politica che entra nell'estetica, invadendo tutti gli ambiti del sentire e dell'apparire. E il primo ostacolo, il più appariscente, sembra proprio essere l'utilizzo, da parte della politica, dei media della comunicazione come veicolo prioritario della ricerca di consenso. Con il doppio risultato che la scena della comunicazione contemporanea ne esce fortemente polarizzata e politicizzata e la politica estetizzata soprattutto nel senso dell'eccesso: la fabbrica dei discorsi e dei gesti conosce a fondo le strategie pubblicitarie e le tattiche di drammatizzazione. La preminenza che l'estetica viene qui ad assumere riguarda il potere collegabile alla conquista della scena, esterna e interna, della sensazione e della rappresentazione. Merita una breve menzione il caso di Walter Benjamin. Egli pensa che una politicizzazione dell'arte possa essere usata come arma contro l'estetizzazione della politica praticata dal fascismo. Che i film di Ejzenstejn, il teatro didattico di Brecht e le messe in scena di Mejerchol'd possano attaccare battaglia contro le sirene del futurismo italiano inneggianti alla velocità, alle macchine, alla guerra. La posta in palio è il ruolo delle masse, che diventano protagoniste nell'arte politicizzata, e viceversa autoestraniate e annichilite nella politica estetizzata (Benjamin 1936). Il fatto è che la politica estetizzata risulta anestetizzante, mentre l'arte politicizzata (in senso buono, evidentemente per Benjamin) può ricevere dalla politica, nonché restituirle di rimando, un nuovo modo di sentire e infine di modificare l'esperienza riformando il reale. Così lo stesso ragionare sul confronto delle masse con la più recente cultura visiva, con le tecniche e i nuovi linguaggi artistici di fotografia e cinema, diventa occasione per una esplorazione di nuovi modi della percezione – si ricordi la "percezione nella distrazione" indotta dalla sequenza delle inquadrature cinematografiche (Benjamin 1936). Si tratta di nuove forme percettive che in modo perentorio non solo mutano i destini e lo stesso concetto dell'arte, ma avanzano la richiesta di una riforma del sentire che diventa un altro modo di vedere e di pensare, in grado di avere ricadute salutari sulla stessa politica, disincagliandola dall'inaridimento estetico indotto dalla fabbricazione di immagini totalizzanti e autoritarie. Benjamin ha creduto che tale circostanza innescasse una sorta di circolo virtuoso tra estetico e politico. Un criterio di valutazione forse datato in qualche punto dell'analisi dedicata all'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, ma ancora, mi pare, non privo di validità. Verificato, in particolare e questa volta in forma difettiva, dall'andare di pari passo di apoliticità e anestetizzazione, ampiamente sintomatico delle nostre società: il che rivela quanto forte sia il nesso che informa il 'politico' di un sentire comune e l''estetico' di un comunicare e stare in relazione. Quanto poco, in definitiva, l'estetico e il politico, considerati singolarmente o presi nella loro congiunzione, possano essere esautorati da un 'meramente'. | << | < | > | >> |Pagina 13La tesi centrale di questo lavoro è che la teoria politica di Hannah Arendt diventa anche e non marginalmente una teoria dell'estetico proprio a seguito della critica radicale che rivolge all'indirizzo "dispotico" della filosofia, e cioè alle spiegazioni intorno alla natura dell'uomo e intorno alla verità che riducono il molteplice a unità, ignorando le ragioni dell'esperienza particolare e contingente. In via preliminare si tratterà quindi di chiarire e circoscrivere l'ambito di definizione dell''estetico' che viene chiamato in causa nelle riflessioni teorico politiche arendtiane. Dimostrando che non delimita un luogo separato o circoscrivibile dell'esperienza né riveste il ruolo di una risorsa residuale o di un farmaco da somministrare come cura ricostituente per il politico, ma traccia piuttosto un piano di comunicazione e di condivisione che riguardando, kantianamente, "la più comune esperienza", non può non attraversare i luoghi del politico e contribuire a definire il senso dell'esperienza umana. La nostra attenzione si concentrerà quindi in prevalenza sul nodo che nella riflessione di Arendt si stringe tra l'estetico e il politico e che farà da filo conduttore delle principali coordinate di un pensiero che, attraverso l'analitica della Vita activa, i saggi filosofico-letterari, le lezioni su Kant, gli assestamenti teorici della Vita della mente, ma anche gli scritti di interesse più storico-politico e l'ampio materiale fornito dai quaderni di lavoro, si propone infine nei termini di una fenomenologia e di una ontologia estetico-politica, prospettica e plurale. Ma l'obiettivo principale non è ricostruttivo. La ricognizione dei riferimenti e delle scelte teoriche risultate decisive per l'assetto complessivo del discorso arendtiano mira piuttosto a convogliare i diversi motivi raccolti al punto di confluenza di una domanda. Una domanda elementare, che credo dovrebbe sempre guidare una lettura filosofica: Hannah Arendt ha qualcosa da dirci? Qual è, se c'è, la forza di provocazione del suo pensiero? Partiremo dunque seguendo il personalissimo percorso di smontaggio della "fallacia metafisica" (la distinzione di essere e apparire), che conduce Arendt a sostenere un fenomenismo non solo radicale ma 'spettacolare': non apparenze che celano un essere o una sostanza sconosciuti, ma esposizione singolare o collettiva sulla scena del mondo, con un'opinione da comunicare o un gesto da compiere. Non libertà interiore, ma libertà pubblica. Un fattore estetico dunque attraversa e innerva i percorsi tracciati da Arendt già nell'analitica della "condizione umana", per andare poi a interessare la percezione spettatoriale, come apprensione diretta di tutto ciò che appare, a partire dal vivente e dal simile, e poi l'"esecuzione" attoriale dell'agente e la pronuncia del giudizio dello spettatore. Con un ruolo cardine affidato all'immaginazione in quanto si rappresenta l'assente (l'altrui posizione e l'altrimenti) e permette la formazione dell'opinione. Infine, l'estetico impegnato da Arendt nella definizione del politico rimanderà al principio che nella Critica della facoltà di giudizio di Kant legittima, come "senso comune", l'attività del giudicare. La centralità della doxa risolve a favore del politico il conflitto tra verità e politica, ma anche tra vita contemplativa e vita attiva, sciogliendo la seconda dall'obbligo di essere giudicata non in base ai suoi propri principi (poter fare, verità mutevole), ma in base ai principi di una 'verità' indifferente al contingente. Arendt entra nell'agone per rivendicare al politico, attraverso il giudizio, una diversa legalità. E per delineare un'ontologia prospettica, oltre che una fenomenologia della doxa. Un'altra tesi del libro è che il nesso di estetico e politico viene sostenuto, all'interno del pensiero di Arendt, da un chiasma di azione e giudizio che si attiva in particolare sui temi dell'apparenza dell'azione e dell'azione del giudizio. Per il suo valore di 'inizialità' l'azione, non solo politica, è pensata da Arendt sia come insorgenza e innovazione, sia come artificio che inaugura "opere", che edifica monumenti al pensiero e al modo umano di abitare il mondo. In ogni caso un fenomeno osservabile e sottoposto al giudizio, il quale, da parte sua, è chiamato a esporsi pubblicamente e a prodursi attivamente nella forma della comunicazione e della condivisione. Non solo la figura dell'attore, ma anche la figura dello spettatore che giudica e opina in merito a azioni e fatti concreti viene così ad assumere un ruolo centrale rispetto all'interrogativo portante del discorso arendtiano: come dare "alle opinioni un peso e alle azioni un effetto?". Lo spettatore che giudica le contingenze o che cerca di trarne un racconto testimoniale o storico ha un ruolo cardine proprio nell'allontanare il fantasma della "superfluità" dei singoli viventi umani, evocato e praticato in senso storico politica (i totalitarismi) ma anche in forma teoretica (il dispotismo delle verità di ragione). Ciascuno è chiamato a testimoniare e a giudicare a partire da un diverso punto di vista. Il giudizio stesso è azione nel momento in cui rompe gli schemi del pregiudizio, sa rispondere agli eventi – e allo 'stupore' provocato da contingenze inattese – con giudizi e prese di posizione potenzialmente innovativi e suscettibili di diventare 'esemplari'. I diversi tracciati del pensiero politico di Hannah Arendt seguiti all'interno di questo lavoro finiscono tutti per confluire in un problema centrale, per domandarsi, in vario modo, cosa significhi 'abitare il mondo'. Lo sguardo che Arendt ci invita a rivolgere alla sfera pubblica e alle pratiche che la alimentano riesce a ritagliare un territorio distinto sia rispetto a visioni tipiche di un umanismo tradizionale, sia rispetto a visioni riduzionistiche o solo naturalistiche dell'esistenza. Abitare il mondo significa qui, innanzitutto, trovare condizioni, sufficienti e necessarie, perché ciascuno possa esistere pubblicamente e politicamente. Ma questo presuppone che non sussistano inibizioni al singolo apparire e che la singola opinione possa formarsi e essere comunicabile. È in questo terreno di origine del giudizio politico che entrano in gioco nozioni ("percezione politica", "mentalità allargata", "carattere rappresentativo" del pensiero politico) che nel loro insieme portano Hannah Arendt alla scoperta di una sorta di aria di famiglia tra giudizio politico e giudizio estetico, all'insegna di un condiviso sentirsi a casa (occupare un posto) nel mondo e di un comune disporsi a scegliere tra alternative, accordando il proprio plauso o dichiarando la propria disapprovazione su qualcosa che è, in forma reale o virtuale, sotto gli occhi di tutti. Come dare "alle opinioni un peso e alle azioni un effetto"? Lo sforzo affidato da Arendt a questo interrogativo si chiarisce insomma, lungo il percorso, come un tentativo di focalizzare l'attenzione sulla condizione umana in quanto capace di "giudizio" e capace di "azione". Con l'effetto principale di inserirsi nella discussione sull'attualità o meno dell'umanismo presentando, come possibile via d'uscita nei confronti dell'impronta unitaria per lo più conferita alla riflessione tradizionale sulla natura dell'uomo e dell'umano, ma anche alle sue più recenti soluzioni biopolitiche, un provocatorio armamentario categoriale di carattere estetico-politico, che riabilita apparenza, opinione, spettacolo, performance. Il tema della spettacolarità del mondo si impone come questione non solo non marginale o accessoria, ma radicata nell'idea di un fondamento estetico dell'esperienza. Un fondamento affiorante prima sotto il titolo delle 'idee estetiche' di percezione e apparenza, e poi ripensato, grazie all'apporto decisivo della lettura della terza Critica di Kant, sotto il segno di una fondamentale esteticità del giudicare – risultando, alla disamina fatta da Arendt, il giudizio estetico kantiano l'esito proprio di un modo politico di pensare: portatore cioè di un tipo di universalità e di necessità che nel rispondere a un bisogno di comunicazione e di condivisione dei giudizi, non mortifica e anzi riconosce l'indispensabile 'presa diretta' dell'esperienza particolare e contingente. "La nostra apprensione della realtà dipende dalla nostra condivisione del mondo con gli altri" (Arendt 1967, p. 65). In questa affermazione, in apparenza piuttosto ovvia e inoffensiva, Hannah Arendt dà un preciso indirizzo alla riflessione sulla condizione umana. Indica in sostanza la direzione da prendere in vista di una riflessione senza pregiudizi (e forse, almeno in questo, non rimandabile) sui rapporti che intercorrono tra l'estetica come pensiero del sentire, percepire e immaginare 'comune', e la teoria della politica come luogo di decantazione e di rilancio di quanto accade nella dimensione pubblica degli "affari umani". Una simile impostazione non poteva non attirare l'attenzione e la diffidenza di chi tende ad associare l'accusa di estetizzazione al carattere 'elusivo' attribuito a una teoria a un certo punto del suo argomentare, quando il ricorso teorico a fattori di matrice estetica suona come un escamotage (apparente, di superficie), un'invenzione o uno stratagemma, che trova soluzioni improprie a questioni e problemi non si lasciano risolvere con lo stretto utilizzo degli strumenti in dotazione alla teoria stessa. Ed è questo dunque anche il caso delle letture della filosofia di Hannah Arendt che parlano di estetizzazione del politico (Mongin 1980, Jay 1993, Kateb 1999, Brunkhorst 1999). Interpretazioni che ci mettono in guardia da pericolose deviazioni in direzione dell'estetico, per lo più foriere di un oscuramento della strada maestra, quella del paradigma logico-razionale. Che ci avvertono, per entrare nel merito, che il mito della grandezza greco-antica e della polis, riesumato inopinatamente dalla filosofa, impedisce di vedere l'autentica grammatica del politico, e che prospettare, come fa Arendt, una natura estetico-politica del giudizio penalizza, assieme al nesso di politica e morale, anche una corretta lettura e interpretazione del Kant politico (Kateb 1999). C'è qualcosa, evidentemente, nel pensiero dell'estetico, che disturba ancora radicati convincimenti sulle prerogative del pensiero filosofico. Hannah Arendt si imbatte nell'estetico nella sua indagine sul mondo e sul giudizio. E scopre il fondamentale valore politico dell'estetico che entra nella definizione dei titoli di "spazio pubblico" e "senso comune".
In gioco è, al fondo, la
pubblicità come radice comune di estetico e politico,
una radice comune che nell'estetico trova meglio esplicitati i fattori
dell'apparenza, del sentire comune e del giudizio, e nel politico i fattori
dell'azione e della decisione.
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