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| << | < | > | >> |IndicePrologo Una straniera arriva in paese 7 Capitolo 1 La versione femminile di James Dean 19 Capitolo 2 Si può sempre stare meglio 40 Capitolo 3 Gli esploratori dell'amore 71 Capitolo 4 Il mercato del desiderio 107 Capitolo 5 La ragazza all'altro capo del telefono 139 Capitolo 6 Specchio, specchio 175 Capitolo 7 La cultura del consenso 197 Capitolo 8 L'ultima domanda 226 Epilogo Ricominciare 246 Note 251 |
| << | < | > | >> |Pagina 17Un chiarimento necessario: questo libro investiga fondamentalmente la specificità del legame eterosessuale. Credo che le relazioni queer abbiano una storia a parte, dibattiti specifici e problemi teorici; non basta cambiare i pronomi per parlare di "tutti i legami". Utilizzo, in molti casi, bibliografia e concetti queer, mi avvalgo anche di quanto appreso dalla comunità LGTTBI grazie alle storie che hanno costruito al margine della norma. Credo che molte delle cose che scrivo possano servire anche a pensare relazioni di altro genere, ma credo che ci sia qualcosa di peculiare nell'eterosessualità, vale a dire la sua relazione con la norma e con un tipo specifico (non biologico, ma sociale e storico) di asimmetria. Tale assimetria ha effetti che probabilmente non vengono vissuti allo stesso modo in altre relazioni e non penso che quel che dico in questo libro sia applicabile così com'è a tali relazioni.L'altro limite per cui sento il bisogno di chiedere scusa, anche se è proprio di ogni costruzione filosofica, non è mai scontato: inevitabilmente, in un libro come questo appaiono frasi come "le donne", "gli uomini", "le ragazze della mia generazione" e altri esempi e formulazioni simili. Le generalizzazioni sono un problema, ma sono necessarie se vogliamo trascendere l'individualità e parlare di ciò che abbiamo in comune con persone del nostro stesso genere, della stessa provenienza, età o classe sociale. Non suppongo mai che ciò che scrivo possa essere applicato a tutti i casi dal primo all'ultimo e, cosa ancora più importante, in nessun passaggio del libro parlo di destini immodificabili, determinismi biologici o entelechie atemporali. Uso il termine "donna" (e anche "uomo") come rivendicato dalla femminista marxista Silvia Federici nel libro Calibano e la strega: una categoria culturale ma anche economica. Intesa, insomma, come una classe storica che indica una posizione sociale, invece di un'identità immutabile o legata a una qualche costante biologica. Ho voluto usare la mia storia come punto di partenza perché, anche se può sembrare particolare, è in realtà la storia di tutte e tutti: arriviamo come stranieri nel mondo del desiderio e sentiamo che non impareremo mai del tutto l'idioma. Questo libro non è né un dizionario né un manuale di comportamento come quelli che davano alle nostre nonne le loro madri, ma forse, o almeno lo spero, può servire come una specie di blog di viaggio. | << | < | > | >> |Pagina 21Poco a poco anch'io mi sono convertita alla religione dell'amore, ma all'inizio, anche se non riuscivo a tradurlo in parole, era una visione del mondo che mi causava molto sconcerto. Non che io fossi Simone de Beauvoir, però nell'ebraismo ortodosso la coppia come entità indipendente dalla famiglia non esiste. Quando con un approccio femminista parliamo della necessità di decostruire l'"amore romantico" e la "famiglia tradizionale", potrebbe sembrare che stiamo parlando della stessa cosa, ma la storia di queste due istituzioni è più complessa: studiarla mi ha fatto capire un po' di più non solo del mio cammino personale, ma anche del perché, per noi donne del ventunesimo secolo, è più difficile scrollarci di dosso il primo che la seconda.Quello che oggi chiamiamo amore di coppia o amore romantico (l'idea che una coppia debba fondarsi solamente sull'attrazione libera e reciproca fra due persone che sono, l'una per l'altra, le più importanti del mondo, o quasi, se consideriamo i figli) è una istituzione giovanissima se comparata con la sua istituzione madre, nonna o bisnonna: il matrimonio. Naturalmente queste due formazioni sociali sono strettamente legate e l'una non sarebbe potuta apparire senza l'altra; tuttavia, quella che per noi oggi è la caratteristica che definisce la coppia, ossia l'amore fra due persone, è stata per molti secoli una specie di simpatico accessorio del matrimonio, niente affatto centrale. Nel libro Marriage, A History. From Obedience to Intimacy, or How Love Conquered Marriage, Stephanie Coontz ricostruisce l'evoluzione dell'istituto matrimoniale in ogni momento e in ogni luogo. Il percorso ha un filo conduttore, e anche un obiettivo: dimostrare fino a che punto l'idea di sposarsi "per amore" sia una novità storica. Coontz lo spiega benissimo nel primo capitolo: l'amore non è necessariamente, come si vuole spesso credere, un'invenzione nuova. In diverse società, molto distanti dalla nostra nello spazio e nel tempo, si parla di amore in termini simili ai nostri; tuttavia, l'idea che un sentimento così mutevole e capriccioso sia una buona ragione per sposarsi, se non la ragione per sposarsi, era, per i membri di queste società, una ridicolaggine. Per molto tempo il matrimonio era ritenuto, più che l'unione di due persone, l'unione di due famiglie che si associavano per produrre reddito comune e mutuo sostegno. Il modo in cui è avvenuto il processo che culmina nella coppia contemporanea non è stato lineare: come spiega Coontz, man mano che gli esseri umani diventavano sedentari e accumulavano sempre più eccedenze produttive, le differenze economiche tra le famiglie si accentuavano e così i giovani (donne, ma anche uomini) persero la facoltà di decidere con chi fare coppia, una possibilità che era stata maggiore per i giovani delle generazioni precedenti all'affermazione della sedentarietà. La facoltà di cui sopra ricadde sulle autorità familiari, che decidevano quale matrimonio fosse migliore per la collettività. Le donne erano considerate merci di scambio o rami d'ulivo: per siglare un'alleanza commerciale o marcare un'inimicizia con un'altra famiglia, niente di meglio delle nostre figlie. | << | < | > | >> |Pagina 29L'amore vero, dicono, e ancora diciamo, non ha niente a che vedere con i soldi: è una delle finzioni più potenti dell'amore romantico. Se si afferma che l'amore non sa nulla di affitti e budget (in contrasto con l'immagine della casalinga frigida che fa i conti per alimentare tutta la famiglia) si nasconde quello che le madri dell'Once sanno bene: che una figlia bisogna farla sposare non perché non possa essere felice da sola, ma perché qualcuno deve mantenerla. Parte del lavoro di decostruzione che bisogna fare sull'amore romantico è rendere visibile che la dissociazione fra amore ed economia, e fra amore e politica, è una finzione ideologica nel senso più letteralmente marxista del termine: una finzione che nasconde i rapporti di potere soggiacenti.Quando le economiste femministe dicono che "quel che chiamano amore è lavoro non pagato", in riferimento alle faccende domestiche che ricadono su tutte le donne (che siano mogli annoiate o amanti appassionate), parlano proprio di questo. La donna che si sacrifica per amore non lo fa nel vuoto: lo fa in un contesto in cui, apparentemente, l'amore è l'unico cammino possibile per una vita che abbia un senso, che punti alla trascendenza. L'uomo può trascendere attraverso la creazione, il lavoro produttivo, il potere di conquista; la donna, invece, può al massimo vivere un grande amore: essere "la grande donna dietro il grande uomo", quella che bada ai figli dell'autore della storia. Una donna può fare infinite cose, ma se non ha un amore sarà socialmente riconosciuta come vuota, come soggetto incompleto. Come se non bastasse, l'amore romantico prevede che la donna, se vuole essere effettivamente amata, non può risparmiarsi mai niente. Deve dare tutto - il suo tempo, la sua forza lavoro, la sua disponibilità emotiva - perché qualsiasi cosa che sia un po' meno di tutto allora è niente. Dall'uomo non si esige la stessa dedizione: per lui non è obbligatorio (né auspicabile, perché un uomo che dà tutto non è un innamorato: è un debole, un castrato) sfiancarsi per dimostrare il proprio amore. Noi che ci annullavamo per amore immaginavamo che dando a un uomo tutta la nostra energia e il nostro tempo, abbandonando le nostre amiche e le nostre passioni per uno che ci faceva venire un nodo alla gola, stavamo facendo qualcosa di totalmente diverso da quello che facevano le donne che si sposavano per convenienza o per forza. Pensavamo che si trattasse solo di donare qualcosa di immateriale, etereo e inafferrabile: gli scambi materiali, economici e politici sono nascosti da un artificio del linguaggio, da una specie di gioco di prestigio. | << | < | > | >> |Pagina 50[...] Ho una notizia buona e una cattiva: 1) non sei sola, se pensi che tutto questo non sia colpa tua e non sia sotto il tuo controllo (al di là delle apparenze); 2) il "problema" non si risolve con un "cambio di mentalità": quel che bisogna cambiare è il mondo.Che nessuno ci minacci con un'arma per farci fidanzare con lui non significa che certi meccanismi non ci condizionino; meccanismi che non proibiscono ma che rendono una scelta molto più costosa dell'altra, in termini che possono essere economici ma anche simbolici o emotivi. Anche se le leggi che regolano, per esempio, i permessi di maternità e paternità favoriscono una distribuzione disuguale delle responsabilità nei confronti dei figli, è difficile sostenere che siano le norme scritte a determinarlo; in realtà, non c'è nessuna legge che dice che le donne devono dedicarsi di più ai servizi domestici come la pulizia o la cucina, eppure questa è la norma in tutto il mondo. Le costruzioni simboliche sulla donna non sono solamente nella nostra immaginazione: sono concetti che hanno al contrario conseguenze reali e materiali. Ne La mistica della femminilità , il classico del 1963 che secondo molti ha inaugurato la seconda ondata femminista, Betty Friedan chiama mistica della femminilità la costruzione di un ideale di donna che limita le possibilità per le donne reali. Con questo libro, il femminismo inaugura un procedimento che oggi è imprescindibile ricordare e aggiornare: denunciare il modo in cui il patriarcato non solo proibisce, ma seduce. Le femministe di prima generazione avevano messo l'accento sulle restrizioni esplicite affrontate dalle donne: invece Friedan e le sue colleghe evidenziavano che le diverse forme in cui il patriarcato propone modelli di identificazione e felicità (per esempio, l'idea che essere moglie e madre sia l'unico cammino per una buona vita, e che qualsiasi altro proposito sia per una donna una distrazione di poco valore) sono tanto importanti nel pensare alla libertà delle donne quanto le proibizioni scritte, anche se a volte sono difficili da vedere e, proprio per questo, da smontare. Il patriarcato non si insinua solo nei nostri comportamenti; si insinua anche nei nostri desideri, nei nostri sogni e nelle nostre aspirazioni. Così facendo, spiega la filosofa del diritto Silvina Àlvarez, sgretola la nostra autonomia: la forma in cui veniamo educate e spinte a socializzare condiziona le opzioni che ci sembrano percorribili. | << | < | > | >> |Pagina 58La concezione della coppia come lavoro è ovunque e tocca in modo differente donne con posizioni socioeconomiche molto diverse. Una coppia non è più una cosa scontata che si crea e si regge da sola: bisogna mantenere la passione, bisogna comunicare, bisogna condividere, bisogna trovare il tempo anche se sei stanca o impegnata in altre attività (imposte e il più delle volte necessarie per la sopravvivenza), che si tratti di badare ai figli, di obblighi lavorativi o di entrambe le cose (questioni come le amicizie o il tempo libero non rientrano nemmeno nell'equazione, contano poco per essere una donna "completa"). C'è qualcosa in questa concezione che è valido, che implica maggiore trasparenza e che è frutto dell'esperienza della prima generazione che ha divorziato su larga scala: in effetti, far funzionare una coppia non è facile. Ma dietro questa visione c'è un presupposto raramente esplicitato: l'idea che la nostra felicità sia sotto il nostro controllo e dipenda dalla nostra volontà e dalle nostre decisioni. Se ti metti il costume da coniglietta due volte al mese e investi in palestra dodici ore settimanali della tua vita e un 20% dello stipendio in trattamenti o trucchi per "non lasciarti andare", se ti rompi la schiena per pagare la fuga romantica del fine settimana e leggi abbastanza libri sull'intelligenza emotiva, insomma, se "fai i compiti", la coppia non può certo non funzionare. Il capitalismo, dunque, non ci parla più dell'idea cristiana del sacrificio femminile per la famiglia o addirittura per l'amore (naturalmente esistono ancora enclavi in cui circolano questi discorsi, ma su scala epocale non hanno più molta rilevanza); ci parla invece dello sforzo, del lavoro e anche del merito. Far funzionare una coppia nel ventunesimo secolo è un merito, e ci riescono "le migliori" fra noi. Ovviamente, come un po' tutto nel cammino della meritocrazia, ci vogliono tempo e denaro; si parla anche di "investire": tenere accesa la fiamma nella coppia è un investimento, come se si trattasse della borsa. Ogni due, tre mesi un articolo ci racconta che noi millennials facciamo meno sesso della generazione precedente, che i nostri legami sono freddi e che moriremo tutti soli: la colpa è di Internet, della postmodernità o della crisi morale, a seconda di chi scrive. Non ricordo di aver letto niente sulla difficoltà di alimentare la libido nel contesto di precarietà lavorativa in cui viviamo, tra mille milioni di lavoretti, affitti da pagare, nessuna garanzia di poter dormire e, oltretutto, desiderare tranquille. E nemmeno su come la scomposizione dei vecchi lacci familiari e comunitari (oppressivi, non c'è dubbio, ma anche protettivi) metta una pressione enorme sulla coppia, uno dei pochi punti d'appoggio che restano in piedi, in un contesto in cui l' ethos competitivo e crudele che il capitalismo contemporaneo ci insegna non incoraggia la costruzione di nuove reti di cura.| << | < | > | >> |Pagina 80La dominazione dell'uomo sulla donna, come hanno via via ricostruito le ricercatrici femministe, non era né una verità universale né il prodotto di una storia lineare: si presume, infatti, che in alcune società nomadi di cacciatori-raccoglitori del Neolitico la caccia di animali piccoli e la raccolta, compiti che in genere spettavano alle donne, era importante per la sopravvivenza della tribù tanto quanto o forse più della caccia agli animali grandi, compito esclusivamente maschile ed eccezionale. In molte di queste società c'era una divisione sessuale del lavoro, ma senza una gerarchia marcata che indicasse chi aveva i compiti più importanti: i vincoli tra sessi in questi contesti appaiono complementari o, in altre parole, "diversi ma uguali". Non è un caso se le relazioni sessoaffettive in queste società erano lontane dalle convenzioni della monogamia: i nostri antenati nomadi, con i loro rapporti che si facevano e disfacevano senza contratti, ai margini di qualsiasi idea di coppia o famiglia nucleare, furono forse quanto di più vicino all'idea di "amore libero" abbia conosciuto l'umanità.La comparsa della monogamia è legata all'agricoltura, al sedentarismo, a una divisione sessuale del lavoro molto più marcata (in cui il lavoro domestico, affettivo e sessuale realizzato da una donna in casa non è neanche riconosciuto come tale) e alla subordinazione economica, politica e sessuale delle donne rispetto agli uomini, gli unici che possono essere padroni della terra. La monogamia impose restrizioni: le pretese di verginità prima del matrimonio, l'esclusività una volta contratto e la disposizione permanente a compiacere il desiderio altrui. Ma solo per le donne. Gli uomini sono sempre stati liberi di gestire i propri bisogni sessoaffettivi fuori dal ferreo contratto matrimoniale: già Engels parlava del ruolo chiave della prostituzione nella formazione della famiglia. Se gli uomini hanno imparato la disciplina nel lavoro salariato, le donne l'hanno fatto in cucina e a letto. Il controllo della sessualità non è un accessorio, o una casualità, e neppure una conseguenza qualsiasi. Non riflette nemmeno un bisogno biologico o naturale, come sostenevano e sostengono alcune religioni, ma è anzi una condizione storica e politica che è stata strumentale per erigere il dominio politico ed economico degli uomini sulle donne. La donna che conosce altri corpi conosce il mondo. Circola, sperimenta, sa cos'ha e cosa può avere. Impara a desiderare, a ricercare, a interrogarsi sulle proprie condizioni di vita, a metterle in discussione, a non considerarle scontate e irreversibili. La libertà sessuale delle donne attenta alla capacità degli uomini di soggiogarle. Il riconoscimento della donna come soggetto desiderante è una minaccia per il sistema che si regge sulla sua subordinazione, sul suo lavoro non pagato e sulla sua condotta prevedibile e ordinata. Quella che a lungo è stata chiamata virtù non è solamente un concetto morale e religioso: è anche un concetto politico ed economico. Questa scala di valori si è manifestata con tutta la sua potenza in fenomeni storici documentati e analizzati. In Calibano e la strega, la storica Silvia Federici sostiene che la persecuzione delle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo fu un fattore chiave nella costruzione del capitalismo moderno. Le streghe rappresentavano donne libere, desideranti e pericolose che in molti casi non servivano a un uomo né in casa né a letto, condividevano saperi al di fuori delle istituzioni patriarcali di circolazione e legittimazione della conoscenza (chiostri universitari, ma anche conventuali), costruivano comunità invece di restarsene ognuna sola in casa e, quindi, erano mine vaganti pericolose per la famiglia patriarcale, i buoni costumi e il neonato matrimonio borghese. Ovviamente, la regolazione sociale della sessualità femminile non è stata l'unica cosa che si è interposta nel nostro cammino di liberazione: fra tante altre cose, c'erano gli ostacoli alla partecipazione politica e al lavoro salariato. Con l'avanzare della modernità, le donne hanno iniziato a infrangere le restrizioni esplicite: hanno avuto accesso alla possibilità di lavorare fuori casa (anche se, come afferma anche Federici, da un punto di vista marxista è discutibile l'idea che essere sfruttate sul lavoro sia "liberatorio"), di avere soldi propri, di andare all'università, votare, organizzarsi. Le trasformazioni strutturali, però, sono state molto più lente, e il modo in cui funziona generalmente la coppia eterosessuale ne è una dimostrazione evidente. Una parte importante, per esempio, del divario salariale che ancora esiste fra uomini e donne si spiega con la differenza di tempo dedicato ai lavori di casa. Un uomo disoccupato dedica ancora adesso molte meno ore al lavoro riproduttivo e domestico rispetto a una donna che lavora a tempo pieno. | << | < | > | >> |Pagina 117[...] Essere una "ragazza facile" non è più un problema; non lo era nemmeno quand'ero piccola io. Al contrario, vogliamo tutte dare quest'immagine: essere facili significa non creare problemi, arrivare all'orgasmo con la penetrazione, e sempre al momento giusto. Ma il desiderio non funziona così: il desiderio non può essere perfettamente simmetrico tutte le volte, anzi, direi che non lo è mai. È una forza d'arresto, un costante non incontrarsi; per questo le scintille di quando avviene l'incontro con l'altro sono così esplosive, perché sono rare, perché sono poche, perché sono sempre insufficienti. In quest'insufficienza è radicata la potenza di una ricerca senza fine. Se noi donne ci limitiamo ad adattarci a quel che vogliono gli uomini, provando a indovinare il loro desiderio e a rifletterlo, il nostro resta sepolto dall'oblio e, in un certo senso, anche il loro. Senza una resistenza, senza richieste dall'altro lato, senza un soggetto con identità propria, scopare diventa masturbarsi con una bambola gonfiabile. Non mi sorprende che esistano moltissime donne che fanno sesso per anni senza raggiungere l'orgasmo: donne a cui mai e poi mai un uomo ha fatto un cunnilingus, e che non hanno mai pensato di chiederlo. Impariamo a far discendere il nostro piacere dal fatto di compiacere l'altro. È un aspetto importantissimo del sesso (la metà, forse), ma non può esserne la totalità. Nel tentativo di non fare niente di strano, di non chiedere, di non disturbare, il tuo corpo diventa uno strumento, non solo per gli altri ma anche per te stessa: una cosa che ti serve, che usi, ma che non vivi. Inizi a separartene, a dissociartene. Ma meglio questo che essere una ragazza difficile. Una ragazza esigente, che si arrabbia, che dice questo sì, questo no, questo mi fa male, questo mi piace. E non si tratta solo di sesso, perché, ovviamente, il desiderio non è solo sesso.| << | < | > | >> |Pagina 248Credo che quel che noi femministe stiamo provando a fare è inventare una terza opzione: un'etica dell'alterità che non sia un'etica del sacrificio, un'idea di felicità che sia collettiva senza essere oppressiva. In questo consiste la sorellanza, molto più che in una solidarietà teorica tra identità femminilizzate: consiste nel pensare a comunità scelte, relazioni basate sulla possibilità di condivisione piuttosto che di negoziazione. Abbiamo un modello, e questo modello è l'amicizia: un vincolo che si sceglie ma che, una volta scelto, crea anche doveri, ci mette anche in un rapporto di vulnerabilità con gli altri.Nell'ortodossia ebraica, se le amicizie esistono, stanno ai margini, ai bordi di ciò che non si dice, non si nomina e non importa: i lacci fondamentali sono quelli di sangue e di comunità, quelli di chi appartiene ai gruppi "corretti". Non c'è nessuna ragione per aiutare chi non è della tua famiglia o non è nemmeno ebreo; ancor meno per aspettarsi che viceversa qualcuno ti aiuti. In questo senso, il mondo laico ha significato per me apprendere la possibilità dell'amicizia: ho verso di essa la fede dei convertiti. Credo che l'amicizia, intesa in un senso personale ma anche politico, può trasformare tutto, anche se non sappiamo ancora esattamente come: è un modello, una cosa da avere sempre in testa. Le comunità queer lo sanno: è la forma libera di tribalismo in cui vivono. Non so, insomma, che aspetto avrà il futuro; mi è difficile persino scandagliare quello del presente. Per adesso, tuttavia, seguendo Judith Butler , quel che propongo è la resistenza: resistere a scegliere fra strutture ereditate e individualismo selvaggio, e non accettare che siano queste due le uniche opzioni. È una posizione scomoda, marginale, nel senso più letterale del termine. Lo sa chiunque abbia provato a mettere in discussione i rapporti all'interno della comunità o della famiglia: osare combattere per il proprio desiderio al di là di quanto ti è stato insegnato ti spinge al margine, quasi fuori dalla mappa, soprattutto se non abbracci la religione del mercato o l'industria dell'empowerment "imprenditoriale". Oltre a queste sceneggiature, è ancora tutto da scrivere. È logico che faccia paura. Ciononostante, costruiremo forme di comunità in cui i nostri affetti possano coesistere in libertà. Sfrutteremo la marginalità per guardare da vicino le forme di oppressione, quelle che abbiamo ereditato e quelle che provano a venderci come novità. Rivendicheremo il desiderio ma anche i legami di cura, esigendo politiche pubbliche che ci permettano di organizzare i nostri vincoli senza pensare a chi ci dovrà mantenere quando avremo bisogno di aiuto. Genereremo le condizioni materiali per poter avvicinarci agli altri con un approccio che non sia la competizione. Creeremo le condizioni simboliche per nominare quel che ci violenta e fermarlo prima che sia troppo tardi, prima che l'unica richiesta possibile sia la richiesta di castigo.
Ci proveremo.
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