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| << | < | > | >> |IndicePrologo Mario, l'allenatore 9 1 Osvaldo, il portiere 19 2 Matteo, il terzino destro 37 3 Giacomo, il terzino sinistro 53 4 Flavio, il mediano 71 5 Arturo, lo stopper 89 6 Rocco, il libero 109 7 Giovanni, l'ala destra 125 8 Sebastiano, la mezzala destra 139 9 Simone, il centravanti 153 10 Pietro, il regista 169 11 Carlo detto Dedè, l'ala sinistra 185 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Inverno 1998, un sabato pomeriggio come tanti altri. L'aria, umida di nebbiolina quasi invisibile, sapeva di terra e fango. "Non è il solito odore", pensò. Camminava a cavallo della linea laterale, segnata di fresco ma incerta e discontinua. "E non è neppure il solito campo", rimbalzò il suo pensiero. Già, niente gradinate e tribunetta coperta, niente erba rasata di fresco. Quell'erba soffice come un tappeto, dove i sei tacchetti affondavano morbidi, il cui taglio creava disegni geometrici e linee perfettamente parallele usate come riferimento per il fuorigioco. Si fermò all'altezza della metà campo: alla sua destra le panchine, "Ma dove cavolo le hanno prese, al cimitero?", a sinistra i due container-spogliatoio, uno dei quali, il loro, contrassegnato dalla targhetta OSPITI. Appoggiò il megafono vicino a una delle due panchine e sputò per terra. Si stupì: non era un gesto che faceva di frequente, ma solo quando l'amaro in bocca superava ogni altra sensazione. Si mise allora a masticare una gomma alla menta, per far andare via quel gusto sgradevole, ben sapendo che l'altro, quello mentale, quel giorno non l'avrebbe più lasciato in pace. Si era accorto di essere il primo, non c'erano altre macchine nel parcheggio. Aveva voluto essere il primo. E c'era riuscito. "Mi sa che quest'oggi mi tocca accompagnarne almeno un paio al pronto soccorso", pensò guardando quella distesa di fango e pozzanghere. E dire che aveva scelto lui il campo, come pure aveva trovato l'arbitro e gli avversari, una squadretta di seconda categoria che ai bei tempi manco sapeva che esistesse. «Salve, mister.» Non ebbe bisogno di girarsi: era l'unico che avrebbe riconosciuto al volo, quel giorno. «Ciao, Gianni. Ah, bene, ci sei anche tu, Pino.» Giuseppe il massaggiatore, con la sua borsa magica che leniva ogni male, seguiva di qualche passo Gianni, il vecchio magazziniere della squadra che aveva portato con sé un gioco di maglie bianconere con i numeri posticci, oltre alla sacca di palloni. «Sembra quasi una partita seria, a vederci tutti e tre qua», disse Gianni dopo un attimo di silenzio. «Questa è una partita seria», lo redarguì Mario passandosi una mano sulla pancia, sempre più accentuata dopo la pensione, mentre il suo sguardo spaziava preoccupato da una porta all'altra. «Il terreno di gioco è molto più corto e più stretto del normale, ma per loro oggi sarà come correre la maratona», sogghignò. «Magari ti smentiscono e alla fine ti fanno il giro del campo», gli rispose Pino. «Non penso proprio...», e indicò sorridendo una figura un po' imbolsita con un accenno di baffetti, il vestito della festa e la sacca in mano, un'indiscutibile sacca da calcio. «Buongiorno a tutti!», fece il primo arrivato. «Salve, mister.» L'aria interrogativa di Mario e gli sguardi degli altri due resero necessaria una ulteriore presentazione: «Sono Dedè: non ditemi che non mi avete riconosciuto...» «Ma no, Carlo, figurati, eravamo solo soprappensiero. Dài, adesso vai dentro e comincia pure a cambiarti, così almeno per una volta non sei l'ultimo a entrare in campo.» «Sempre agli ordini, mister.» | << | < | > | >> |Pagina 47Da allora, dai tempi dei primi baci seri, non ho mai smesso di venire all'Elba. Io la amo davvero, l'isola d'Elba. Tutta quanta: il mare, le spiagge, la campagna, le colline, la montagna, i boschi, la vegetazione, le strade, il clima, i paesi adagiati sulla costa e quelli arroccati all'interno. E naturalmente le femmine che ci vengono in vacanza, quelle che sciamano per Marciana e Capoliveri vestite il meno possibile e tutti si girano a guardarle e sbavano e vorrebbero conoscerle per osservarle ancora meglio nella loro sensualità estiva. Odio solo Marina di Campo, perché è costruita con i piedi, dove saranno dieci anni che non ci passo, se non per raggiungere la costa occidentale provenendo da Porto Azzurro, il che mi consente di risparmiare tempo e chilometri; e di fare un percorso incantevole, sino agli splendidi scogli piatti di Sant'Andrea, dove il mare assume tutte le tonalità dell'azzurro, del blu e del verde.Ogni luogo dell'isola mi ricorda un fatto piacevole, un profumo, una ragazza, un'avventura, una bischerata, una prima volta. Non mi occorre tornarci fisicamente, in quei posti, per andare indietro con il pensiero. Quando arriva quel cavolo d'inverno e fa freddo, quando c'è la nebbia e imbrunisce presto, quando i giardini sono un tappeto di foglie e piove di continuo, quando non ne puoi più di vivere in una città come Torino - perché il mare per te è come il liquido amniotico, non riesci a farne a meno altrimenti muori - spesso mi trovo a riconsiderare certi episodi. Non che sia un nostalgico che sa guardarsi soltanto alle spalle, solo che nel passato trovo gli stimoli per vivere con gioia il presente: quell'estate durata un decennio - allora non volevo mai che venisse il tempo delle vacanze, come se preferissi l'attesa all'evento vero e proprio - è stata quasi esclusivamente contraddistinta da momenti indimenticabili, unici, purtroppo mai più ripetibili. Come guardare il mare, assaporare un odore, ascoltare una canzone, baciare una donna sulla fronte, sul naso, sul collo. Come, un tempo, fare una chiusura, un anticipo; un cross giusto, magari un gol. Allenatore permettendo, naturalmente. E quasi tutti i ricordi di quei luoghi prendono spunto da una canzone. Così il laghetto di Terranera, sulla strada per Rio Marina, mi fa pensare a quell'estate cazzona nella quale andavano per la maggiore Moonlight Shadow di Mike Olfield e Do You Really Want to Hurt Me dei Culture Club. Avevo all'incirca vent'anni, non sapevo più cosa fosse il calcio e neppure quello che avrei fatto da lì in avanti. Al pomeriggio raggiungevamo con le moto la spiaggia del laghetto; ci si immergeva in mare, e poi si attraversava di corsa la sottile striscia di sabbia per buttarci in quella melmosa pozza d'acqua dolce di color verde-giallastro che puzzava di zolfo e che rendeva il corpo lucido, come se di colpo vi fossero cresciute piccole squame argentate. E a quel punto Luca attaccava con la sua chitarra. Invece Withney Houston mi riporta a quella Pasqua a metà degli anni Ottanta trascorsa tra la spiaggia di Cavoli e le rocce di Seccheto, a quelle sere per locali di Capoliveri in cui si mangiava alla buona ascoltando del pessimo jazz in compagnia di Vale, un gran bel culo ma poca simpatia e tante arie. Le panchine prospicienti il molo di Porto Azzurro sono invece quelle della semina e della pesca: da quella posizione gettavo l'amo per coltivare o irretire la bella di turno con una serata simpatica, allegra, godereccia. In una notte senza luna, ad esempio, ho arpionato Livia, una graziosa comasca dalla bocca carnosa e la voce sensuale, e sulla spiaggia di Barbarossa ho trascorso con lei due incredibili ore nel buio, a fianco di gente che non vedeva e non sapeva ma intuiva, mentre noi, ansimando in silenzio, facevamo le peggio cose. Eppure la mattina dopo non ci siamo guardati, e da allora, non so perché, non ci siamo mai più salutati. | << | < | > | >> |Pagina 89Avevo deciso di andare a vivere a Monterosso nella primavera del 1991, subito dopo la batosta. Mi ero rifugiato in quell'angolo delle Cinque Terre per una sorta di catarsi: proprio lì, moltissimi anni prima, avevo trascorso con i genitori e con il fratello appena nato l'ultima vacanza ante-pubertà, una vacanza monotona e solitaria senza amici e, soprattutto, senza pallone. Ma che mi era rimasta in mente per la tranquillità e la bellezza del luogo, con quella lunga passeggiata che costeggia il mare e quella stretta galleria a schiena d'asino che conduce al paese vero e proprio, adagiato in una piccola conca affacciata su una ristretta porzione di azzurro. In quell'estate tutto era stato di una tristezza indescrivibile. I miei genitori, sempre intenti a dedicarsi anima e corpo all'ultimo arrivato, non mi degnavano di uno sguardo e mi lasciavano tutto il giorno da solo, libero di scorrazzare, a piedi o sulla scalcagnata bici Graziella ripitturata di rosso, tra il lungomare e i vicoli del borgo vecchio, tra il festival dell'Unità e le tettine in via di sviluppo di Claudia, una graziosa ragazzotta dalle lunghe trecce bionde che stava nella spiaggia al di là del campo sportivo. Quindici anni dopo avevo deciso di allontanarmi da Torino, quasi come un ricercato in fuga, e avevo immediatamente pensato a Monterosso. Nei miei ricordi la principale delle Cinque Terre aveva le carte in regola per rappresentare l'eremo ideale lontano dal mondo. Senza farne parola con nessuno, nella mattinata di un rigido e tetro martedì come tanti altri mi diressi verso Porta Nuova, per salire sul primo treno che fermasse a Levanto. L'umore era sotto i tacchi, mi sentivo svuotato di ogni forza: da quasi un mese tiravo avanti a MS senza quasi toccare cibo. Di notte mi rigiravo nel letto, non riuscivo a dormire più di tre-quattro ore. Quello stato di prostrazione fisica e morale mi aveva indotto a scappare di gran carriera da tutto e da tutti. Non ce la facevo proprio a resistere: la città, gli amici, i luoghi e i ricordi non mi appartenevano più; un odio generalizzato stava a poco a poco ammantando la mia vita. Monterosso rappresentava l'unica via d'uscita, se solo vi avessi trovato in fretta un lavoro, altrimenti, a rimuginare su quello che mi era successo, sarei uscito di testa. Per tutto il viaggio rimasi come inebetito con la testa appoggiata allo schienale e con gli occhi che fissavano le luci spente della carrozza, mentre il paesaggio sfilava al mio fianco senza che io me ne preoccupassi minimamente. Una volta giunto a destinazione mi svegliai da quel fastidioso torpore, e con passo nervoso raggiunsi l'istituto tecnico su cui riponevo le poche speranze del momento per scacciare l'incubo che stavo vivendo. Appena messo piede nell'anonimo edificio in cemento armato che ospitava la scuola, chiesi al bidello di accompagnarmi dal preside: grazie all'intercessione di un vecchio amico di mio padre, un professore che aveva insegnato lì per più di vent'anni, il direttore dell'istituto aveva accettato di ricevermi. Una volta di fronte a quell'uomo minuto dalla giacca striminzita e dagli occhiali traballanti, cercai le parole per esporgli nel migliore dei modi il motivo della mia visita, che peraltro ben conosceva. | << | < | > | >> |Pagina 126Tanto tempo fa, avrò avuto non più di sette, otto anni, mentre affascinato guardavo dal terrazzo Torino, mia nonna di punto in bianco mi ha sussurrato una frase alla quale lì per lì avevo dato poca importanza: «Pensaci, Giovanni: ogni giorno che passa è un giorno in meno da vivere». Dal momento che allora, come tutti a quell'età, credevo di avere tutta la vita davanti, la sua frase non mi era sembrata meritevole di troppi ragionamenti. Anzi, a pensarci bene l'avevo presa per una di quelle tiritere tipiche dei vecchi, per loro natura un po' noiosi e tanto ripetitivi (del tipo: «Non ti fa bene sudare così tanto», oppure «Non bere troppo» o ancora «Questo bambino è pallido perché dorme poco»).Invece, visto come sono andate le cose, non posso che rimpiangere di non aver fatto tesoro della saggezza della nonna e di non aver goduto abbastanza della bellezza di quei tramonti. Neppure potrò più essere felice come quando, nelle rare occasioni in cui mi imponevo di uscire dall'ufficio a un'ora accettabile - come quella volta in cui in pieno centro incontrai un vecchio compagno di squadra che non trovò il coraggio di salutarmi, forse timoroso del fatto che non fossi in grado di riconoscerlo o, peggio ancora, che lo confondessi con qualcun altro - mi ritrovavo a camminare con il soprabito sbottonato, per assaporare finalmente l'aria primaverile, i suoi primi tepori e i freschi profumi che non avvertivo da qualche mese: presto sarebbe arrivata l'estate, l'emblema della vita. Così come non mi sarà possibile ascoltare di primo mattino il cinguettio delle rondini che volano vorticosamente attorno ai campanili delle chiese e planano festose sopra i tetti degli antichi palazzi del centro, offrendo, a chi le ascolta e a chi le osserva, una rinnovata gioia di vivere dopo la stagione del freddo, dei rumori ovattati, dei colori spenti. E non mi sarà più concesso di ritrovarmi, verso fine giugno, su un'autostrada qualunque poco prima delle dieci di sera e di stupirmi, ogni volta, di come sono belle le lunghe giornate che sembrano non finire mai, dando anzi l'impressione di voler imporsi con ogni mezzo sul buio: dopo che il sole se ne è andato, rimangono bagliori nel cielo e poi nuvole venate di arancione sempre più scuro e ancora piccole sorgenti chiare là sullo sfondo dell'orizzonte e infine minuscole macchie lontane lontane non ancora vinte del tutto dalle tenebre, anche se la luna già da un po' cerca inutilmente di richiamare l'attenzione su di sé. Non potrò più intristirmi verso la seconda metà di settembre, quando l'aria del primo mattino si fa di colpo più fredda e anche il sole non ravviva più come prima ciò che sfiora con i raggi impercettibilmente indeboliti, e quando arrivano le prime foschie, con il loro odore di autunno incipiente, o quando ancora, poco prima delle cinque di pomeriggio, è già completamente calata la notte e se ne è quasi andata via la voglia di vivere. E nemmeno potrò più ricordare, vedendo in lontananza dei bambini rincorrere un pallone su un prato qualsiasi, i tempi in cui anche noi eravamo bambini e Dedè, l'ala sinistra, uno degli elementi più promettenti della nostra formidabile squadra, cercava maldestramente di introdurmi in un ambiente che non era il mio, ma nel quale sin da subito avevo cercato di muovermi con buona disinvoltura e nessuna riluttanza, dimostrando di voler fare in modo che mi diventasse in fretta congeniale. Così come mi sarà precluso continuare a emozionarmi in quei meravigliosi momenti di relax durante i quali, stravaccati in perfetta solitudine su una comoda poltrona, ci si abbandona, pensierosi e goduti, alle note delle musiche preferite, scelte con cognizione di causa a seconda dell'ora, dell'umore e del clima, in un esplosivo mix di ritmi e di generi che ai più superficiali potrebbe apparire privo di filo conduttore se non addirittura all'insegna della casualità.
Niente di più sbagliato. La mente non è arida e a compartimenti stagni,
almeno la mia non lo è mai stata, anzi ha bisogno di essere sollecitata di
continuo da spartiti, voci, note e melodie sempre diverse, un'accozzaglia
sensata soltanto per chi decide le sequenze delle canzoni, incomprensibile,
invece, per chi capitasse lì incidentalmente.
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