Copertina
Autore Tiziano Terzani
Titolo in Asia
EdizioneTea, Milano, 2002 [1998], Teadue 769 , pag. 440, dim. 127x198x25 mm , Isbn 978-88-7818-684-2
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe viaggi , storia contemporanea , politica , guerra-pace , paesi: Cina , paesi: Giappone , storia: Asia
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Indice

Inizio
                                             7
La prima volta                              11
Laos: un milione di elefanti                16
Cambogia: la paura del cavallo bianco       21
Vietnam: provvisorio a vita                 24
Cambogia: ore buie                          28
Saigon ultima spiaggia                      32
Vietnam: Giai Phong!                        36
Mao è morto                                 38
Il funerale                                 40
La fine del maoismo                         41
Boat People                                 45
Rifugiati: ho deciso chi doveva vivere e
    chi morire                              49
Corea del Nord: bandiera rossa, sangue blu  53
Filippine: me l'ha detto il taxista         60
A cena col mitra                            65
C'eravamo sbagliati                         70
Hiroshima: quando il sole sorse due volte   76
Giappone: sull'orlo dell'abisso             82
Il robot e l'imperatore                     94
La «santa» di Manila che fa tremare Marcos 102
Fuga in elicottero                         106
Richard Sorge: un James Bond socialista    111
I giapponesi allo specchio                 122
La voce del fuoco sacro                    131
Macao: un viaggio nel tempo che finisce    138
Bertolucci in Cina                         147
La cultura dei gabinetti                   151
Corea del Sud: un gambero fra due balene   156
Kim Dae Jung: il presidente ombra          175
Giappone: l'agonia di un dio               178
Il lutto                                   182
La cicogna non parla più                   185
Hirohito: prigioniero della storia         187
I matti del «Forte»                        196
L'inchino del mondo                        198
Cina: il dio due volte fallito             202
Nel cuore di paura                         206
La città caserma                           210
La Grande Bugia                            215
La fabbrica dei sogni                      219
Facciamo il bagno assieme                  224
Fuggire da fermi                           228
Sakhalin: l'isola maledetta                234
La scuola: piccole foche ammaestrate       247
Servi fedeli dello Stato e dell'industria  252
Yakuza: «Siamo gli eredi dei samurai»      257
Il bandito all'angolo                      262
Un modo di diventar giapponesi             269
Il Giappone visto dall'alto                275
Birmania: morti senza un fiore             286
La rivolta dei bonzi                       291
L'aureola psichedelica                     296
Curili: le isole alla fine del mondo       301
Morte di Rajiv                             310
La peste                                   315
Pakistan: il paese dei puri                321
L'università della «guerra santa»          324
Mustang: paradiso perduto                  328
Kashmir: i cani sanno                      338
Un tunnel senza luce                       341
Sri Lanka: l'isola folle                   352
Morire da bambini                          361
Giovanni Alberto Agnelli: il futuro breve  366
Il XIV Dalai Lama                          378
La regina dei banditi                      384
Madre Teresa                               391
Morte di Deng Xiaoping imperatore          399
Vivere in India                            404
Hong Kong addio!                           408
I fantasmi della banca                     411
Alla salute dell'impero                    414
Hong Kong clandestina                      417
L'ultima messa                             421
Il seme della colonia bianca               424
Il giomo dopo                              426
L'Orsigna: ultimo amore                    430
 

 

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Pagina 7

Inizio


Diventai giornalista perché alle corse podistiche arrivavo sempre ultimo. Ero studente in un liceo di Firenze e mi ostinavo a partecipare a tutte le campestri che si tenevano alle Cascine. Non avevo alcun successo tranne quello di far ridere i miei compagni. Una volta, alla fine di una di quelle corse in cui ero davvero arrivato quando il pubblico stava già andando via, venne da me un signore sui trent'anni con un taccuino in mano e mi disse qualcosa come: «Sei studente? E allora, invece di partecipare alle corse, descrivile!» Avevo incontrato il primo giornalista della mia vita e, a sedici anni, avevo avuto la mia prima offerta di lavoro: cronista sportivo al Giornale del mattino. Cominciai con le corse a piedi, passai a quelle in bicicletta e poi alle partite di calcio. Le domeniche, invece che alle feste da ballo, le passai da allora andando a giro per i paesi e le cittadine della Toscana con una vecchia Vespa 98.

«Largo, c'è i' giornalista», dicevano gli organizzatori quando mi presentavo. Ero un ragazzino e di sport me ne intendevo poco o nulla, ma quella qualifica mi dava lì per lì il diritto a un buon posto d'osservazione e il giorno dopo il diritto alla mia firma in testa a un articoletto con tanto di descrizioni e giudizi sulle pagine rosa del giornale della città. A quei due diritti - direi privilegi - son rimasto attaccato tutta la vita. Di questo straordinario mestiere - che poi è un modo di vivere - mi ha sempre affascinato il poter essere in prima fila là dove avvengono le cose, porre a chiunque le domande più impossibili, mettere il piede in tutte le porte, fare i conti in tasca ai potenti e poi poterne scrivere.

Quel «Largo, c'è i' giornalista», detto in vari modi, in varie lingue, mi ha aperto la strada a tanti luoghi attraverso i quali passava la storia, per lo più triste, del mio tempo: al fronte di guerre inutili, alle fosse di orribili massacri, a umilianti prigioni e negli ovattati palazzi di un qualche dittatore. Ogni volta col senso di essere «in missione», di essere gli occhi, gli orecchi, il naso, a volte anche il cuore di quelli - i lettori - che non potevano essere lì. E non solo i lettori.

Perché se è vero che, col giornale di ieri, oggi ci si avvolge il pesce, è altrettanto vero che il giornalismo è alla base della storia. Questa è una responsabilità che ho sempre sentito. Da qui l'attenzione ai dettagli, il tentativo di essere preciso nei fatti, nelle cifre, nei nomi. Se i tasselli di un particolare avvenimento di cui si è stati testimoni non sono esatti, come potrà esserlo il mosaico della storia che qualcuno poi ricostruirà con quei pezzi?

Non pretendo affatto che nelle pagine che seguono non ci siano errori; dico solo che ho cercato di evitarli e che non mi sono mai inventato nulla tanto per riempire un vuoto o imbellire un racconto. Alcuni articoli sono scritti a caldo, sotto pressione, con i minuti contati; altri sono il frutto di giorni, a volte settimane, di ricerca e ripensamenti. Alcuni sono pura cronaca, altri il tentativo di tracciare, usando la cronaca, il ritratto di un Paese o di una particolare situazione. Tutti hanno a che fare con l'Asia perché l'Asia è, da più di 25 anni, la meta del mio vagabondare.

Perché l'Asia? Ci andai anzitutto perché era lontana, perché mi dava l'impressione di una terra in cui c'era ancora qualcosa da scoprire. Ci andai in cerca dell'«altro», di tutto quello che non conoscevo, all'inseguimento d'idee, di uomini, di storie di cui avevo solo letto. Cominciai con lo studiare il cinese perché volevo vivere in Cina e vedere il maoismo con i miei occhi; m'improvvisai corrispondente di guerra perché quel che succedeva in Vietnam mi pareva riguardasse anche me. Il resto è venuto da sé, compresa la scelta dei Paesi in cui vivere, ogni volta fatta in famiglia, in base a un interesse particolare e mai per convenienza o perché qualcuno me l'aveva imposta.

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Pagina 82

Der Spiegel mi offrì di andare come corrispondente in Giappone. Alla fine di settembre del 1985 avevamo casa a Tokyo: un appartamento di stanze minuscole sulla collina di Nakameguro con vista su un bel giardinetto che presto venne spazzato via per far posto a un parcheggio.


Giappone: sull'orlo dell'abisso

Tokyo, novembre 1985

SI ARRIVA in questo Paese per capirne gli uomini, ma la prima cosa che bisogna imparare è parlare con le sue macchine. «Benvenuto, entri!» sussurra una vocina metallica quando si varca la soglia di un negozio. «Grazie, ritorni presto!» dice la stessa vocina quando si esce. Ci si chiede cosa rispondere.

Ci sono macchine che controllano la salute, quelle che cambiano i soldi e quelle che, dalle bibite ai responsi di un oracolo, dai calzini al mangime per i pesci, dalle riviste pornografiche ai biglietti della metropolitana, vendono un po' di tutto.

«Non basta quel che lei ha pagato, paghi di più!» ripete, ostinata, la voce che esce dalla pancia di un distributore automatico di sigarette. Imbarazzati, ci si sta davanti, sprovvisti delle monete ancora necessarie per completare l'acquisto e ignari di quale bottone bisognerebbe ora pigiare per indurre la macchinetta a risputare le monetine già ingoiate.

Nella casa di un amico ai piedi del monte Fuji, la notte mi sveglia uno strano, monotono parlare. Esce da una stufetta: «Venerato proprietario, mi manca il kerosene. La prego di riempirini... La prego di riempirini...»


Il Giappone è il Paese delle statistiche e le statistiche - si sa - mentono spudoratamente con la loro matematica esattezza. È vero che il Giappone ha statisticamente più macchinette pro capite di ogni altro Paese al mondo (la popolazione di macchinette automatiche, nelle quali ogni giapponese introduce in media tre milioni di lire all'anno, è attualmente di 5.139.000), eppure presto si scopre che questo non è affatto il Paese meccanizzato e ultramoderno che ci s'era immaginati.

Molte macchine non sono altro che gadgets intesi a rendere più accettabili le modeste condizioni in cui vive il giapponese medio. La maggioranza degli appartamenti non ha il riscaldamento centrale e questa è forse la ragione per cui i giapponesi sono così orgogliosi di far vedere che il sedile del loro gabinetto si riscalda piacevolmente non appena ci si siede sopra. Una magra consolazione nel freddo generale!


Le prime persone vive e vegete alle quali ci si rivolge a Tokyo sono i poliziotti. In questa straripante città che nessuno sa bene dove comincia e dove finisce, i suoi 12 milioni di abitanti si orientano male, specie perché, come in un villaggio, qui non ci sono strade con nomi, ma solo parcelle di terra con numeri; qui non ci sono monumenti - l'unico di tutta la città è quello a un cane per la sua fedeltà - per cui il normale punto di riferimento di ognuno è il co-ban, la cabina della polizia. Ce n'è una davanti a ogni stazione della metropolitana, a ogni incrocio di due strade importanti, in ogni quartiere. Dinanzi a ogni co-ban si formano in continuazione delle piccole code di gente che aspetta il proprio turno per chiedere un'informazione, di solito sull'indirizzo a cui deve recarsi.

«Il signor Tanaka l'aspetta a cena?» domanda il poliziotto. «Attenda un attimo, per favore.» Guarda prima l'indirizzo, poi il suo schedario e prende il telefono. «Signor Tanaka? Il suo ospite straniero è qui al co-ban. Venga a prenderlo per favore.» Io, il numero di telefono del signor Tanaka certo non glielo avevo dato!


Statisticamente parlando i giapponesi sono oggi uno dei popoli più ricchi del mondo: il reddito annuale medio è sui 10.000 dollari USA per persona. Eppure i giapponesi che incontro durante le mie passeggiate mattutine mi paiono tutt'altro che ricchi. I loro appartamenti non saranno «stalle da conigli», come sono stati descritti in un rapporto della Comunità europea, ma certo non destano alcuna invidia. Persino le case degli alti funzionari del governo e dell'industria sono così minuscole e fragili che pochi operai europei accetterebbero di viverci.

È vero, sì, che la maggior parte delle famiglie ha una lavatrice, ma è anche vero che la maggior parte della gente non ha il posto per metterla: le lavatrici qui stanno sotto cuffie di nyion davanti alla porta di casa. È vero, sì, che la maggioranza dei giapponesi possiede uno o più televisori, un videoregistratore e un sistema stereofonico, ma è altrettanto vero che il 66 per cento delle comunità giapponesi non ha ancora normali cloache. Molti giapponesi continuano a lavarsi nei bagni pubblici. E chi è fortunato da avere il bagno in casa fa ben attenzione a coprire l'acqua della vasca con un apposito coperchio di plastica perché rimanga calda e tutti i membri della famiglia possano lavarcisi l'uno dopo l'altro. È vero che i giapponesi si vantano di saper giocare a golf, ma molti fanno semplicemente roteare la loro mazza davanti alla porta di casa, sopra un tappetino verde di erba di plastica, colpendo una palla inunaginaria.


Chiaramente si vorrebbe imparare la lingua per avere accesso alla mentalità della gente. Il primo incontro col mio maestro è andato così: «Conosce qualche proverbio giapponese?» mi chiede. «No.» «Allora incominci a imparare questo: 'Se tira vento i fabbricanti di tini di legno diventano ricchi'.» «E perché?» «Semplice», dice lui. «Il vento solleva la polvere, la polvere acceca, i ciechi per guadagnarsi da vivere suonano strumenti a corda, le corde sono fatte di budella dei gatti, quanti più gatti vengono ammazzati tanti più topi scorrazzano per la città, i topi fanno buchi nei tini di legno, più tini di legno devono essere rifatti più i loro fabbricanti diventano ricchi. Logico, non le pare? Questa è anche la logica della lingua giapponese.»


Viaggiando nella metropolitana di Tokyo s'imparano le prime semplici lezioni sulla giapponesità. I treni sono puntuali, i controllori e capistazione sono efficienti e precisi. Con la mano inguantata di bianco e i gesti da robot, salutano le luci gialle dei treni in arrivo e si accomiatano da quelle rosse che scompaiono nel buio di una galleria. Le uniformi predominano nella massa umana. Gli scolaretti sembrano tutti piccoli ammiragli Yamamoto o cadetti di un'accademia militare prussiana. Le bambine sembrano tutte delle crocerossine. Il sarari-man, l'uomo che vive del proprio salario (dall'inglese salary), è immancabilmente vestito di un completo giacca e pantaloni che di per sé è un'uniforme. In media ogni giapponese, a cominciare dai bambini, passa dalle due alle tre ore in metropolitana viaggiando fra casa e scuola, casa e lavoro.

Le ore di punta sono fra i momenti più mortificanti della giornata. Nella massa ondeggiante dei corpi che si sorreggono, si resistono o si respingono a vicenda, nessuno stabilisce col proprio vicino un qualche contatto tramite uno sguardo, un sorriso o una sola parola. La cortesia, alla quale i giapponesi si sentono di solito severamente tenuti, nelle situazioni di ressa come quella della metropolitana, viene paurosamente a mancare. Se si libera un posto, il giapponese ci si precipita e per lo più si mette a leggere uno di quegli osceni romanzi a fumetti sadomasochisti che sembrano costituire il quotidiano cibo culturale della gente.

A mezzanotte gli ultimi treni riportano a casa le masse dei ritardatari. Un po' brilli e incerti sulle gambe, i più escono da minuscoli bar, affumicati e puzzolenti, dove con un paio di colleghi hanno cantato il karaoke davanti allo schermo di un video in cui di solito una donna si spoglia sullo sfondo del monte Fuji.

I giapponesi sembrano infelici, ma non sanno di esserlo. Secondo un'inchiesta l'80 per cento degli interrogati si considerano parte del ceto medio e ne sono soddisfatti.


Si pensa al Giappone come a una società altamente computerizzata. Entro nella filiale principale della Bank of Tokyo. «Vorrei aprire un conto.» «Un conto? Quale credibilità ha?» Tiro fuori il mio passaporto, le mie carte di credito e infine un mazzo di dollari. Il funzionario allo sportello chiama il vice direttore della sua sezione e quello chiama il direttore: «No. Aprire un conto qui non è possibile».

Provo con un'altra banca. «Lei vivrà in Giappone per sempre?» Se lo sapessi! «Allora non può avere un conto qui.» Dopo lunghe discussioni ci mettiamo d'accordo per un «conto di risparmio». Quel che alla fine mi viene consegnato non è un libretto d'assegni, ma un quadernino e un numero segreto non scritto, che devo tenere a mente per poter incassare i contanti. Come premio per aver scelto quella banca, e non un'altra, mi viene data una bella scatola di fazzoletti di carta.

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Pagina 202

Cina: il dio due volte fallito

Tienanmen, 5 giugno 1989

SULLA piazza Tienanmen il comunismo cinese aveva avuto il suo più grande trionfo. Su quella stessa piazza ha subito la sua più grande e irreversibile sconfitta. Questo straordinario movimento popolare, nato formalmente nel 1921 dopo anni di durissime lotte, era riuscito a unificare un immenso Paese, a dargli orgoglio e speranza e aveva permesso a Mao, su quella piazza, il primo ottobre 1949, di annunciare al mondo: «La Cina si è sollevata». Con il massacro di questi giorni ha perso ogni legittimità, ogni pretesa di moralità, ogni diritto a guidare questo popolo di oltre un miliardo di persone.

In quarant'anni al potere il Partito comunista cinese, tranne brevi periodi di pace, ha sottoposto il Paese a continue campagne politiche che hanno diviso la gente, a continui mutamenti di rotta che hanno confuso la nazione, a continue epurazioni che hanno bruciato i migliori elementi di ogni generazione. Ogni volta il partito era riuscito a cavarsela, a sopravvivere spiegando di aver capito i propri errori del passato e riaffermando al tempo stesso la giustezza delle proprie nuove posizioni.

Questa serie di errori, che dal 1949 a oggi sono costati milioni di vite, ha raggiunto il suo culmine col massacro di Tienamnen, dopo il quale nessuna giustificazione sarà più accettabile, nessuna promessa sarà creduta. Il partito ormai non può che restare al potere sulla forza dei fucili. Almeno finché questi gli obbediranno.

Per la Cina questa è un'immensa tragedia perché, ora che il partito comunista perde il «mandato del Cielo», nessun'altra forza è oggi in grado di sostituirglisi in un Paese che resta poverissimo e potenzialmente incline a frammentarsi. La Cina è fatta di varie regioni, ognuna con una sua identità e una storia.

I comunisti erano riusciti a tenere tutti sotto un tetto, a dare a tutti una lingua comune e a coinvolgere tutti nella speranza di uno sviluppo comune. Tutto questo ora rischia di spezzarsi, di dare luogo a regionalismi, a differenti centri di potere, com'era al tempo dei Signori della Guerra.

Tutte le regioni di frontiera di questo Paese sono abitate da popoli non cinesi che hanno tradizionali motivi di risentimento contro il potere centrale di Pechino. I comunisti erano riusciti - a volte con la violenza come nel caso del Tibet - a tenere questi popoli legati a sé e a proteggere così i propri confini. D'ora in poi questo potrà diventare difficile.

Che cosa ha fatto fallire il grande progetto comunista di fare della Cina un Paese moderno, forte, indipendente? La risposta è semplice: la natura stessa del comunismo. L'ideologia totalitaria del movimento gli ha dato la forza di battersi contro l'invasione giapponese, di vincere la guerra civile, ma, una volta al potere, quella natura totalitaria lo ha indebolito intellettualmente perché ha eliminato ogni discussione, ha frustrato ogni ripensamento.

Il Partito comunista cinese, con la sua base contadina, diretto da un «imperatore» contadino come Mao prima e Deng Xiao-ping poi, ha sempre visto i suoi principali nemici fra gli intellettuali e, a scadenze quasi regolari, ha eliminato le teste più libere di ogni generazione. Ogni volta che si levava una voce indipendente contro il partito, questa veniva repressa. A suo modo il massacro dei giovani sulla piazza Tienanmen, e ora la caccia allo studente nelle università, rientra nella stessa tradizione che ha avuto le sue tappe nella campagna contro la destra seguita ai Cento Fiori e nella Rivoluzione culturale. Questa volta il movimento guidato dagli studenti è stato più forte di sempre, perché si è innestato sui risentimenti di vari settori della popolazione, specie urbana, frustrata da decenni di miserie prodotte dagli errori politici del partito.

Non c'è alcun dubbio ormai che i moti di Pechino, incominciati con il funerale di Hu Yaobang, sono stati la prima massiccia insurrezione popolare contro il regime comunista cinese. In questo senso l'argomento del regime secondo cui l'esercito è dovuto intervenire per soffocare un «complotto controrivoluzionario» è fondamentalmente corretto.

Nonostante gli studenti cantassero l' Internazionale e marciassero all'insegna di bandiere rosse, il loro movimento era anticomunista, anche se, per ovvie ragioni tattiche, non hanno mai apertamente chiesto il rovesciamento del sistema. La tragica ironia di tutto questo è che l'uomo che più è stato preso di mira dagli studenti e dalla popolazione è proprio quello che ha avviato il processo di liberalizzazione della Cina e che ha messo in moto le riforme economiche: Deng Xiaoping. Sono indubbiamente state le sue riforme, sono state le forze da lui liberate a portare alla sfida anticomunista e, per reazione, al massacro.

Mao aveva imposto alla Cina un regime tutto fondato sull'ideologia a scapito dei risultati economici. Deng ha rovesciato la politica, mettendo da parte l'ideologia e puntando tutto sullo sviluppo, nell'illusione di poter liberalizzare il sistema economico, mantenendo immutato il sistema politico. Il risultato è stato la crescente richiesta di libertà che, soffocata una prima volta nel 1979 (con la soppressione del «muro della democrazia»), è esplosa nelle manifestazioni popolari dei giorni scorsi.

Deng Xiaoping, il grande illusionista, che era riuscito a convincere gran parte del mondo occidentale di essere l'uomo della storia che lentamente stava disfacendo il sistema socialista, s'è rivelato l'uomo del partito, il comunista che ha lanciato un bagno di sangue per reimporre il suo sistema totalitario.

Non è strano. Lo stesso Deng Xiaoping che in Cambogia ha appoggiato Pol Pot e ha continuato a sostenere e a rifornire di armi i khmer rossi anche dopo che i loro massacri erano noti al mondo è quello che ha ordinato il massacro della sua gente.

In verità, la sua è una tragica figura perché, avendo cercato di salvare il comunismo cinese dal fallimento della sua versione maoista, ha finito per decretarne la morte e per lasciare il Paese in condizioni ancor più disperate di quelle in cui l'aveva lasciato Mao.

L'introduzione, da parte di Deng, di meccanismi di tipo capitalistico nel sistema economico, l'aprire la porta cinese agli interessi stranieri hanno sì creato un clima di maggiore benessere, ma hanno anche esacerbato le contraddizioni congenite nella struttura di questo Paese: le zone costiere si sono sviluppate molto di più che le regioni dell'interno, gli interessi stranieri si sono concentrati di nuovo là dove nel periodo coloniale erano più forti.

Deng ha rimosso l'ideologia maoista che a suo modo imponeva un'etica rivoluzionaria di egualitarismo, ma non l'ha sostituita con un sistema di diritto. Gli operai nelle fabbriche hanno perso i benefici del collettivismo, senza guadagnare quelli di un sistema capitalistico.

Sballottata da una logica maoista, in cui essere poveri era una virtù, a una logica denghiana in cui «diventare ricco è glorioso», un'intera generazione di cinesi si è trovata a crescere senza eroi, senza ideali e sempre più attratta, specie nelle città, dal tipo di consumismo occidentale che la stragrande maggioranza dei cinesi non ha certo ancora modo di permettersi.

Bisogna rendersi conto che dietro la vampata d'indignazione per il massacro, dietro le proteste e le barricate che ora si levano in varie città della Cina, creando le condizioni per altri interventi sanguinosi dell'esercito, non c'è un'idea comune, non c'è un progetto alternativo di società.

Gli studenti, divisi fra una certa nostalgia della moralità maoista e il sogno di democrazia e benessere occidentali, vogliono più libertà. Gli operai vogliono più benessere. A essi si sono unite le bande di disoccupati delle città.

Per ora il movimento, pur con milioni di persone nelle strade, è limitato alle città. Gli 800 milioni di contadini, divisi fra quelli che le riforme di Deng hanno impoverito e quelli che si sono rapidamente arricchiti, non si sono mossi, non si sono espressi. È su quella massa contadina che il regime conta forse per mantenere una sua base di legittimità, per giustificare la sua sanguinosa repressione. Uno degli apparati che, con tutte le sue riforme, Deng non ha smantellato, ma anzi ha rafforzato, è quello della sicurezza che è ora entrato in funzione con tutta la sua macabra efficienza. Il confronto è tutt'altro che finito.

La rivoluzione comunista è fallita, ma la Cina, prima di ritrovare l'unità e una sua via di sviluppo, dovrà passare attraverso altre prove e forse altri massacri.

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