|
|
| << | < | > | >> |IndiceInizio 7 La prima volta 11 Laos: un milione di elefanti 16 Cambogia: la paura del cavallo bianco 21 Vietnam: provvisorio a vita 24 Cambogia: ore buie 28 Saigon ultima spiaggia 32 Vietnam: Giai Phong! 36 Mao è morto 38 Il funerale 40 La fine del maoismo 41 Boat People 45 Rifugiati: ho deciso chi doveva vivere e chi morire 49 Corea del Nord: bandiera rossa, sangue blu 53 Filippine: me l'ha detto il taxista 60 A cena col mitra 65 C'eravamo sbagliati 70 Hiroshima: quando il sole sorse due volte 76 Giappone: sull'orlo dell'abisso 82 Il robot e l'imperatore 94 La «santa» di Manila che fa tremare Marcos 102 Fuga in elicottero 106 Richard Sorge: un James Bond socialista 111 I giapponesi allo specchio 122 La voce del fuoco sacro 131 Macao: un viaggio nel tempo che finisce 138 Bertolucci in Cina 147 La cultura dei gabinetti 151 Corea del Sud: un gambero fra due balene 156 Kim Dae Jung: il presidente ombra 175 Giappone: l'agonia di un dio 178 Il lutto 182 La cicogna non parla più 185 Hirohito: prigioniero della storia 187 I matti del «Forte» 196 L'inchino del mondo 198 Cina: il dio due volte fallito 202 Nel cuore di paura 206 La città caserma 210 La Grande Bugia 215 La fabbrica dei sogni 219 Facciamo il bagno assieme 224 Fuggire da fermi 228 Sakhalin: l'isola maledetta 234 La scuola: piccole foche ammaestrate 247 Servi fedeli dello Stato e dell'industria 252 Yakuza: «Siamo gli eredi dei samurai» 257 Il bandito all'angolo 262 Un modo di diventar giapponesi 269 Il Giappone visto dall'alto 275 Birmania: morti senza un fiore 286 La rivolta dei bonzi 291 L'aureola psichedelica 296 Curili: le isole alla fine del mondo 301 Morte di Rajiv 310 La peste 315 Pakistan: il paese dei puri 321 L'università della «guerra santa» 324 Mustang: paradiso perduto 328 Kashmir: i cani sanno 338 Un tunnel senza luce 341 Sri Lanka: l'isola folle 352 Morire da bambini 361 Giovanni Alberto Agnelli: il futuro breve 366 Il XIV Dalai Lama 378 La regina dei banditi 384 Madre Teresa 391 Morte di Deng Xiaoping imperatore 399 Vivere in India 404 Hong Kong addio! 408 I fantasmi della banca 411 Alla salute dell'impero 414 Hong Kong clandestina 417 L'ultima messa 421 Il seme della colonia bianca 424 Il giomo dopo 426 L'Orsigna: ultimo amore 430 |
| << | < | > | >> |Pagina 7InizioDiventai giornalista perché alle corse podistiche arrivavo sempre ultimo. Ero studente in un liceo di Firenze e mi ostinavo a partecipare a tutte le campestri che si tenevano alle Cascine. Non avevo alcun successo tranne quello di far ridere i miei compagni. Una volta, alla fine di una di quelle corse in cui ero davvero arrivato quando il pubblico stava già andando via, venne da me un signore sui trent'anni con un taccuino in mano e mi disse qualcosa come: «Sei studente? E allora, invece di partecipare alle corse, descrivile!» Avevo incontrato il primo giornalista della mia vita e, a sedici anni, avevo avuto la mia prima offerta di lavoro: cronista sportivo al Giornale del mattino. Cominciai con le corse a piedi, passai a quelle in bicicletta e poi alle partite di calcio. Le domeniche, invece che alle feste da ballo, le passai da allora andando a giro per i paesi e le cittadine della Toscana con una vecchia Vespa 98. «Largo, c'è i' giornalista», dicevano gli organizzatori quando mi presentavo. Ero un ragazzino e di sport me ne intendevo poco o nulla, ma quella qualifica mi dava lì per lì il diritto a un buon posto d'osservazione e il giorno dopo il diritto alla mia firma in testa a un articoletto con tanto di descrizioni e giudizi sulle pagine rosa del giornale della città. A quei due diritti - direi privilegi - son rimasto attaccato tutta la vita. Di questo straordinario mestiere - che poi è un modo di vivere - mi ha sempre affascinato il poter essere in prima fila là dove avvengono le cose, porre a chiunque le domande più impossibili, mettere il piede in tutte le porte, fare i conti in tasca ai potenti e poi poterne scrivere. Quel «Largo, c'è i' giornalista», detto in vari modi, in varie lingue, mi ha aperto la strada a tanti luoghi attraverso i quali passava la storia, per lo più triste, del mio tempo: al fronte di guerre inutili, alle fosse di orribili massacri, a umilianti prigioni e negli ovattati palazzi di un qualche dittatore. Ogni volta col senso di essere «in missione», di essere gli occhi, gli orecchi, il naso, a volte anche il cuore di quelli - i lettori - che non potevano essere lì. E non solo i lettori. Perché se è vero che, col giornale di ieri, oggi ci si avvolge il pesce, è altrettanto vero che il giornalismo è alla base della storia. Questa è una responsabilità che ho sempre sentito. Da qui l'attenzione ai dettagli, il tentativo di essere preciso nei fatti, nelle cifre, nei nomi. Se i tasselli di un particolare avvenimento di cui si è stati testimoni non sono esatti, come potrà esserlo il mosaico della storia che qualcuno poi ricostruirà con quei pezzi? Non pretendo affatto che nelle pagine che seguono non ci siano errori; dico solo che ho cercato di evitarli e che non mi sono mai inventato nulla tanto per riempire un vuoto o imbellire un racconto. Alcuni articoli sono scritti a caldo, sotto pressione, con i minuti contati; altri sono il frutto di giorni, a volte settimane, di ricerca e ripensamenti. Alcuni sono pura cronaca, altri il tentativo di tracciare, usando la cronaca, il ritratto di un Paese o di una particolare situazione. Tutti hanno a che fare con l'Asia perché l'Asia è, da più di 25 anni, la meta del mio vagabondare. Perché l'Asia? Ci andai anzitutto perché era lontana, perché mi dava l'impressione di una terra in cui c'era ancora qualcosa da scoprire. Ci andai in cerca dell'«altro», di tutto quello che non conoscevo, all'inseguimento d'idee, di uomini, di storie di cui avevo solo letto. Cominciai con lo studiare il cinese perché volevo vivere in Cina e vedere il maoismo con i miei occhi; m'improvvisai corrispondente di guerra perché quel che succedeva in Vietnam mi pareva riguardasse anche me. Il resto è venuto da sé, compresa la scelta dei Paesi in cui vivere, ogni volta fatta in famiglia, in base a un interesse particolare e mai per convenienza o perché qualcuno me l'aveva imposta. | << | < | > | >> |Pagina 82Der Spiegel mi offrì di andare come corrispondente in Giappone. Alla fine di settembre del 1985 avevamo casa a Tokyo: un appartamento di stanze minuscole sulla collina di Nakameguro con vista su un bel giardinetto che presto venne spazzato via per far posto a un parcheggio.Giappone: sull'orlo dell'abisso Tokyo, novembre 1985 SI ARRIVA in questo Paese per capirne gli uomini, ma la prima cosa che bisogna imparare è parlare con le sue macchine. «Benvenuto, entri!» sussurra una vocina metallica quando si varca la soglia di un negozio. «Grazie, ritorni presto!» dice la stessa vocina quando si esce. Ci si chiede cosa rispondere. Ci sono macchine che controllano la salute, quelle che cambiano i soldi e quelle che, dalle bibite ai responsi di un oracolo, dai calzini al mangime per i pesci, dalle riviste pornografiche ai biglietti della metropolitana, vendono un po' di tutto. «Non basta quel che lei ha pagato, paghi di più!» ripete, ostinata, la voce che esce dalla pancia di un distributore automatico di sigarette. Imbarazzati, ci si sta davanti, sprovvisti delle monete ancora necessarie per completare l'acquisto e ignari di quale bottone bisognerebbe ora pigiare per indurre la macchinetta a risputare le monetine già ingoiate.
Nella casa di un amico ai piedi del monte Fuji, la notte
mi sveglia uno strano, monotono parlare. Esce da una
stufetta: «Venerato proprietario, mi manca il kerosene. La
prego di riempirini... La prego di riempirini...»
Il Giappone è il Paese delle statistiche e le statistiche - si sa - mentono spudoratamente con la loro matematica esattezza. È vero che il Giappone ha statisticamente più macchinette pro capite di ogni altro Paese al mondo (la popolazione di macchinette automatiche, nelle quali ogni giapponese introduce in media tre milioni di lire all'anno, è attualmente di 5.139.000), eppure presto si scopre che questo non è affatto il Paese meccanizzato e ultramoderno che ci s'era immaginati.
Molte macchine non sono altro che gadgets intesi a
rendere più accettabili le modeste condizioni in cui vive il
giapponese medio. La maggioranza degli appartamenti non ha
il riscaldamento centrale e questa è forse la ragione per
cui i giapponesi sono così orgogliosi di far vedere che il
sedile del loro gabinetto si riscalda piacevolmente non
appena ci si siede sopra. Una magra consolazione nel freddo
generale!
Le prime persone vive e vegete alle quali ci si rivolge a Tokyo sono i poliziotti. In questa straripante città che nessuno sa bene dove comincia e dove finisce, i suoi 12 milioni di abitanti si orientano male, specie perché, come in un villaggio, qui non ci sono strade con nomi, ma solo parcelle di terra con numeri; qui non ci sono monumenti - l'unico di tutta la città è quello a un cane per la sua fedeltà - per cui il normale punto di riferimento di ognuno è il co-ban, la cabina della polizia. Ce n'è una davanti a ogni stazione della metropolitana, a ogni incrocio di due strade importanti, in ogni quartiere. Dinanzi a ogni co-ban si formano in continuazione delle piccole code di gente che aspetta il proprio turno per chiedere un'informazione, di solito sull'indirizzo a cui deve recarsi.
«Il signor Tanaka l'aspetta a cena?» domanda il
poliziotto. «Attenda un attimo, per favore.» Guarda
prima l'indirizzo, poi il suo schedario e prende il
telefono. «Signor Tanaka? Il suo ospite straniero è qui al
co-ban.
Venga a prenderlo per favore.» Io, il numero di telefono
del signor Tanaka certo non glielo avevo dato!
Statisticamente parlando i giapponesi sono oggi uno dei popoli più ricchi del mondo: il reddito annuale medio è sui 10.000 dollari USA per persona. Eppure i giapponesi che incontro durante le mie passeggiate mattutine mi paiono tutt'altro che ricchi. I loro appartamenti non saranno «stalle da conigli», come sono stati descritti in un rapporto della Comunità europea, ma certo non destano alcuna invidia. Persino le case degli alti funzionari del governo e dell'industria sono così minuscole e fragili che pochi operai europei accetterebbero di viverci.
È vero, sì, che la maggior parte delle famiglie ha una
lavatrice, ma è anche vero che la maggior parte della gente
non ha il posto per metterla: le lavatrici qui stanno sotto
cuffie di nyion davanti alla porta di casa. È vero, sì, che
la maggioranza dei giapponesi possiede uno o più televisori,
un videoregistratore e un sistema stereofonico, ma è
altrettanto vero che il 66 per cento delle comunità
giapponesi non ha ancora normali cloache. Molti giapponesi
continuano a lavarsi nei bagni pubblici. E chi è fortunato
da avere il bagno in casa fa ben attenzione a coprire
l'acqua della vasca con un apposito coperchio di plastica
perché rimanga calda e tutti i membri della famiglia possano
lavarcisi l'uno dopo l'altro. È vero che i giapponesi si
vantano di saper giocare a golf, ma molti fanno
semplicemente roteare la loro mazza davanti alla porta di
casa, sopra un tappetino verde di erba di plastica, colpendo
una palla inunaginaria.
Chiaramente si vorrebbe imparare la lingua per avere
accesso alla mentalità della gente. Il primo incontro col
mio maestro è andato così: «Conosce qualche proverbio
giapponese?» mi chiede. «No.» «Allora incominci a
imparare questo: 'Se tira vento i fabbricanti di tini di
legno diventano ricchi'.» «E perché?» «Semplice», dice lui.
«Il vento solleva la polvere, la polvere acceca, i ciechi
per guadagnarsi da vivere suonano strumenti a corda, le
corde sono fatte di budella dei gatti, quanti più gatti
vengono ammazzati tanti più topi scorrazzano per la città, i
topi fanno buchi nei tini di legno, più tini di legno devono
essere rifatti più i loro fabbricanti diventano ricchi.
Logico, non le pare? Questa è anche la logica della lingua
giapponese.»
Viaggiando nella metropolitana di Tokyo s'imparano le prime semplici lezioni sulla giapponesità. I treni sono puntuali, i controllori e capistazione sono efficienti e precisi. Con la mano inguantata di bianco e i gesti da robot, salutano le luci gialle dei treni in arrivo e si accomiatano da quelle rosse che scompaiono nel buio di una galleria. Le uniformi predominano nella massa umana. Gli scolaretti sembrano tutti piccoli ammiragli Yamamoto o cadetti di un'accademia militare prussiana. Le bambine sembrano tutte delle crocerossine. Il sarari-man, l'uomo che vive del proprio salario (dall'inglese salary), è immancabilmente vestito di un completo giacca e pantaloni che di per sé è un'uniforme. In media ogni giapponese, a cominciare dai bambini, passa dalle due alle tre ore in metropolitana viaggiando fra casa e scuola, casa e lavoro. Le ore di punta sono fra i momenti più mortificanti della giornata. Nella massa ondeggiante dei corpi che si sorreggono, si resistono o si respingono a vicenda, nessuno stabilisce col proprio vicino un qualche contatto tramite uno sguardo, un sorriso o una sola parola. La cortesia, alla quale i giapponesi si sentono di solito severamente tenuti, nelle situazioni di ressa come quella della metropolitana, viene paurosamente a mancare. Se si libera un posto, il giapponese ci si precipita e per lo più si mette a leggere uno di quegli osceni romanzi a fumetti sadomasochisti che sembrano costituire il quotidiano cibo culturale della gente. A mezzanotte gli ultimi treni riportano a casa le masse dei ritardatari. Un po' brilli e incerti sulle gambe, i più escono da minuscoli bar, affumicati e puzzolenti, dove con un paio di colleghi hanno cantato il karaoke davanti allo schermo di un video in cui di solito una donna si spoglia sullo sfondo del monte Fuji.
I giapponesi sembrano infelici, ma non sanno di esserlo.
Secondo un'inchiesta l'80 per cento degli interrogati si
considerano parte del ceto medio e ne sono soddisfatti.
Si pensa al Giappone come a una società altamente computerizzata. Entro nella filiale principale della Bank of Tokyo. «Vorrei aprire un conto.» «Un conto? Quale credibilità ha?» Tiro fuori il mio passaporto, le mie carte di credito e infine un mazzo di dollari. Il funzionario allo sportello chiama il vice direttore della sua sezione e quello chiama il direttore: «No. Aprire un conto qui non è possibile». Provo con un'altra banca. «Lei vivrà in Giappone per sempre?» Se lo sapessi! «Allora non può avere un conto qui.» Dopo lunghe discussioni ci mettiamo d'accordo per un «conto di risparmio». Quel che alla fine mi viene consegnato non è un libretto d'assegni, ma un quadernino e un numero segreto non scritto, che devo tenere a mente per poter incassare i contanti. Come premio per aver scelto quella banca, e non un'altra, mi viene data una bella scatola di fazzoletti di carta. | << | < | > | >> |Pagina 202Cina: il dio due volte fallitoTienanmen, 5 giugno 1989 SULLA piazza Tienanmen il comunismo cinese aveva avuto il suo più grande trionfo. Su quella stessa piazza ha subito la sua più grande e irreversibile sconfitta. Questo straordinario movimento popolare, nato formalmente nel 1921 dopo anni di durissime lotte, era riuscito a unificare un immenso Paese, a dargli orgoglio e speranza e aveva permesso a Mao, su quella piazza, il primo ottobre 1949, di annunciare al mondo: «La Cina si è sollevata». Con il massacro di questi giorni ha perso ogni legittimità, ogni pretesa di moralità, ogni diritto a guidare questo popolo di oltre un miliardo di persone. In quarant'anni al potere il Partito comunista cinese, tranne brevi periodi di pace, ha sottoposto il Paese a continue campagne politiche che hanno diviso la gente, a continui mutamenti di rotta che hanno confuso la nazione, a continue epurazioni che hanno bruciato i migliori elementi di ogni generazione. Ogni volta il partito era riuscito a cavarsela, a sopravvivere spiegando di aver capito i propri errori del passato e riaffermando al tempo stesso la giustezza delle proprie nuove posizioni. Questa serie di errori, che dal 1949 a oggi sono costati milioni di vite, ha raggiunto il suo culmine col massacro di Tienamnen, dopo il quale nessuna giustificazione sarà più accettabile, nessuna promessa sarà creduta. Il partito ormai non può che restare al potere sulla forza dei fucili. Almeno finché questi gli obbediranno. Per la Cina questa è un'immensa tragedia perché, ora che il partito comunista perde il «mandato del Cielo», nessun'altra forza è oggi in grado di sostituirglisi in un Paese che resta poverissimo e potenzialmente incline a frammentarsi. La Cina è fatta di varie regioni, ognuna con una sua identità e una storia. I comunisti erano riusciti a tenere tutti sotto un tetto, a dare a tutti una lingua comune e a coinvolgere tutti nella speranza di uno sviluppo comune. Tutto questo ora rischia di spezzarsi, di dare luogo a regionalismi, a differenti centri di potere, com'era al tempo dei Signori della Guerra. Tutte le regioni di frontiera di questo Paese sono abitate da popoli non cinesi che hanno tradizionali motivi di risentimento contro il potere centrale di Pechino. I comunisti erano riusciti - a volte con la violenza come nel caso del Tibet - a tenere questi popoli legati a sé e a proteggere così i propri confini. D'ora in poi questo potrà diventare difficile. Che cosa ha fatto fallire il grande progetto comunista di fare della Cina un Paese moderno, forte, indipendente? La risposta è semplice: la natura stessa del comunismo. L'ideologia totalitaria del movimento gli ha dato la forza di battersi contro l'invasione giapponese, di vincere la guerra civile, ma, una volta al potere, quella natura totalitaria lo ha indebolito intellettualmente perché ha eliminato ogni discussione, ha frustrato ogni ripensamento. Il Partito comunista cinese, con la sua base contadina, diretto da un «imperatore» contadino come Mao prima e Deng Xiao-ping poi, ha sempre visto i suoi principali nemici fra gli intellettuali e, a scadenze quasi regolari, ha eliminato le teste più libere di ogni generazione. Ogni volta che si levava una voce indipendente contro il partito, questa veniva repressa. A suo modo il massacro dei giovani sulla piazza Tienanmen, e ora la caccia allo studente nelle università, rientra nella stessa tradizione che ha avuto le sue tappe nella campagna contro la destra seguita ai Cento Fiori e nella Rivoluzione culturale. Questa volta il movimento guidato dagli studenti è stato più forte di sempre, perché si è innestato sui risentimenti di vari settori della popolazione, specie urbana, frustrata da decenni di miserie prodotte dagli errori politici del partito. Non c'è alcun dubbio ormai che i moti di Pechino, incominciati con il funerale di Hu Yaobang, sono stati la prima massiccia insurrezione popolare contro il regime comunista cinese. In questo senso l'argomento del regime secondo cui l'esercito è dovuto intervenire per soffocare un «complotto controrivoluzionario» è fondamentalmente corretto. Nonostante gli studenti cantassero l' Internazionale e marciassero all'insegna di bandiere rosse, il loro movimento era anticomunista, anche se, per ovvie ragioni tattiche, non hanno mai apertamente chiesto il rovesciamento del sistema. La tragica ironia di tutto questo è che l'uomo che più è stato preso di mira dagli studenti e dalla popolazione è proprio quello che ha avviato il processo di liberalizzazione della Cina e che ha messo in moto le riforme economiche: Deng Xiaoping. Sono indubbiamente state le sue riforme, sono state le forze da lui liberate a portare alla sfida anticomunista e, per reazione, al massacro. Mao aveva imposto alla Cina un regime tutto fondato sull'ideologia a scapito dei risultati economici. Deng ha rovesciato la politica, mettendo da parte l'ideologia e puntando tutto sullo sviluppo, nell'illusione di poter liberalizzare il sistema economico, mantenendo immutato il sistema politico. Il risultato è stato la crescente richiesta di libertà che, soffocata una prima volta nel 1979 (con la soppressione del «muro della democrazia»), è esplosa nelle manifestazioni popolari dei giorni scorsi. Deng Xiaoping, il grande illusionista, che era riuscito a convincere gran parte del mondo occidentale di essere l'uomo della storia che lentamente stava disfacendo il sistema socialista, s'è rivelato l'uomo del partito, il comunista che ha lanciato un bagno di sangue per reimporre il suo sistema totalitario. Non è strano. Lo stesso Deng Xiaoping che in Cambogia ha appoggiato Pol Pot e ha continuato a sostenere e a rifornire di armi i khmer rossi anche dopo che i loro massacri erano noti al mondo è quello che ha ordinato il massacro della sua gente. In verità, la sua è una tragica figura perché, avendo cercato di salvare il comunismo cinese dal fallimento della sua versione maoista, ha finito per decretarne la morte e per lasciare il Paese in condizioni ancor più disperate di quelle in cui l'aveva lasciato Mao. L'introduzione, da parte di Deng, di meccanismi di tipo capitalistico nel sistema economico, l'aprire la porta cinese agli interessi stranieri hanno sì creato un clima di maggiore benessere, ma hanno anche esacerbato le contraddizioni congenite nella struttura di questo Paese: le zone costiere si sono sviluppate molto di più che le regioni dell'interno, gli interessi stranieri si sono concentrati di nuovo là dove nel periodo coloniale erano più forti. Deng ha rimosso l'ideologia maoista che a suo modo imponeva un'etica rivoluzionaria di egualitarismo, ma non l'ha sostituita con un sistema di diritto. Gli operai nelle fabbriche hanno perso i benefici del collettivismo, senza guadagnare quelli di un sistema capitalistico. Sballottata da una logica maoista, in cui essere poveri era una virtù, a una logica denghiana in cui «diventare ricco è glorioso», un'intera generazione di cinesi si è trovata a crescere senza eroi, senza ideali e sempre più attratta, specie nelle città, dal tipo di consumismo occidentale che la stragrande maggioranza dei cinesi non ha certo ancora modo di permettersi. Bisogna rendersi conto che dietro la vampata d'indignazione per il massacro, dietro le proteste e le barricate che ora si levano in varie città della Cina, creando le condizioni per altri interventi sanguinosi dell'esercito, non c'è un'idea comune, non c'è un progetto alternativo di società. Gli studenti, divisi fra una certa nostalgia della moralità maoista e il sogno di democrazia e benessere occidentali, vogliono più libertà. Gli operai vogliono più benessere. A essi si sono unite le bande di disoccupati delle città. Per ora il movimento, pur con milioni di persone nelle strade, è limitato alle città. Gli 800 milioni di contadini, divisi fra quelli che le riforme di Deng hanno impoverito e quelli che si sono rapidamente arricchiti, non si sono mossi, non si sono espressi. È su quella massa contadina che il regime conta forse per mantenere una sua base di legittimità, per giustificare la sua sanguinosa repressione. Uno degli apparati che, con tutte le sue riforme, Deng non ha smantellato, ma anzi ha rafforzato, è quello della sicurezza che è ora entrato in funzione con tutta la sua macabra efficienza. Il confronto è tutt'altro che finito.
La rivoluzione comunista è fallita, ma la Cina, prima di
ritrovare l'unità e una sua via di sviluppo, dovrà passare
attraverso altre prove e forse altri massacri.
|