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| << | < | > | >> |IndicePrefazione all'edizione 1998 7 Prefazione 13 1. «Liberi di volare, ma solo in gabbia» La Cina di Deng Xiaoping 17 2. La morte dei mille tagli La distruzione di Pechino 25 3. «Il cielo è alto e l'imperatore lontano» Xinjiang: la provincia ai confini con l'Unione Sovietica 66 4. Il regno dei topi La Manciuria: base industriale della Cina 80 5. Voci celesti Giochi cinesi con grilli e piccioni 106 6. «Se i contadini sono contenti, l'impero è stabile» Lo Shandong e la fine delle Comuni Popolari 112 7. «Costruire per cento anni» La vecchia colonia di Qingdao 136 8. «Insegniamo loro a non ribellarsi» Qufu: dove nacque Confucio 142 9. «Come cani dalle ossa rotte» Il Tibet dopo trent'anni di occupazione cinese 146 10. «Lo accoltellai quattro volte ed ero felice» Shanzi: comunismo contro cultura tradizionale 167 11. «Ottimo per l'individuo, ottimo per la patria» La rinascita delle arti marziali 190 12. «Il miglior bambino è un bambino morto» La politica per il controllo delle nascite 202 13. Disciplina nel «Campo dell'erba profumata» I miei figli scrivono della loro scuola cinese 211 14. «Ben vengano i capelloni» Shenzhen e Canton: esperimenti col capitalismo 222 15. «Allah ci ha dato un cuore solo» Kashgar: Cina e Asia centrale 229 16. «Ammazza un pollo per far paura alle scimmie» Le esecuzioni di massa 245 17. «I cinesi non sono abituati a vivere senza un imperatore» La campagna contro l'inquinamento spirituale 250 18. «E ora cominciamo con la tua rieducazione » La mia espulsione dalla Repubblica Popolare Cinese 259 |
| << | < | > | >> |Pagina 21Questo è ciò che l'Occidente, nell'entusiasmo d'aver riscoperto la Cina come un enorme mercato e anche come un potenziale alleato contro l'Unione Sovietica, tende a dimenticare: la Cina di Deng Xiaoping è e vuol restare un paese comunista. Come tale, il sistema cinese ha alla lunga molta più affinità col sistema sovietico che con quello europeo, americano o giapponese. Così come la sinistra si fece incantare dal maoismo, la destra si fa oggi incantare dal denghismo. I cinesi restano i più grandi illusionisti del mondo. Solo l'illusione cambia.Mao morì il 9 settembre 1976. Un mese dopo, nel corso di un ben concepito e ben eseguito colpo di Stato da parte della vecchia guardia nel partito e nell'esercito, venne arrestata quella che i cinesi e per questo tutti gli altri ora chiamano la «Banda dei Quattro». Un punto però deve essere chiaro: la Banda dei Quattro come tale non è mai esistita ed è una pura invenzione di Deng Xiaoping per poter addebitare tutti i crimini della Rivoluzione Culturale a un numero limitato di persone, appunto quattro, fra cui la vedova di Mao, invece che al vero colpevole, cioè il Partito Comunista cinese con i suoi milioni di membri. | << | < | > | >> |Pagina 252. La morte dei mille tagliLa distruzione di Pechino C'ERA una volta, in un paese lontano, una bellissima città. Aveva ricchi palazzi, splendidi templi, coloratissimi archi di trionfo, magnifici giardini e migliaia di armoniose case grigie, ognuna costruita attorno a un tranquillo cortile, tutte allineate lungo lo scbema regolare di strade e vicoli come su una scacchiera. Tutto attorno, per ventisei chilometri, aveva alte mura, imponenti. Le mura avevano magnifiche porte, a guardia delle quali stavano dei leoni di pietra. Era una città sacra, costruita sul bordo di un deserto, secondo un progetto che era venuto direttamente dal Cielo. La città aveva un magico incantesimo. Possedeva un fascino cui era impossibile sfuggire. «Pechino è l'ultimo rifugio dello sconosciuto e dei meraviglioso che esista al mondo», scriveva Pierre Loti nel 1900. «Una città che incute rispetto», la definì Arnold Toynbee nel 1930. Nel 1949, quando i comunisti la presero, Pechino era ancora una città unica al mondo: un grande esempio di architettura, una città di struggente splendore che pareva fatta per vivere in eterno. Non è più così. Pechino muore. Le mura sono scomparse, le porte sono scomparse, gli archi sono scomparsi. Scomparsa è la maggioranza dei templi, dei palazzi, dei giardini e ogni giorno che passa una fetta in più della secolare Pechino se ne va sotto i colpi inesorabili dei picconi e delle ruspe. La città ha perso quel suo ordine interno che era fatto per rispecchiare la geometria dell'universo. Dove un tempo c'erano armonia e perfezione, ci sono confusione e caos. «Se Venezia affonda, tutto il mondo piange e protesta. Se Pechino scompare, nessuno ci fa caso», dice Philippe Jonathan, un giovane urbanista francese che lavora all'Università Qing Hua e che conduce per ora, quasi da solo, una campagna per «salvare Pechino». «Le sorti di questa città dovrebbero interessare tutti, perché la grandezza di Pechino non è una questione soltanto cinese; appartiene alla cultura del genere umano.» | << | < | > | >> |Pagina 1126. «Se i contadini sono contenti, l'impero è stabile»Lo shandong e la fine delle Comuni Popolari [...] «Dobbiamo tenere i nostri operai migliori in stanze separate, altrimenti vengono attaccati dagli altri», spiega senza alcuna reticenza Qi Keqian, direttore della fabbrica di ricami a Shidao. Gli «operai-modello» vengono usati per stabilire i tempi del cottimo e per i controlli di qualità. Gli altri non li vedono di buon occhio, ora che la fabbrica ha adottato il sistema della responsabilità e che aumenta la paga a chi lavora di più e meglio. Lo smantellamento delle Comuni, la messa al bando dell'«egualitarismo» e in genere la reintroduzione dell'interesse privato nella vita cinese hanno dato il via a un gioco completamente nuovo in cui alcuni hanno da guadagnare, altri da perdere. La domanda che frulla nella testa di tutti, specie nelle campagne dove il sistema, in genere, ha dato buoni risultati, è: «Quanto durerà?» «A lungo. A lungo», ha risposto il Quotidiano del Popolo cercando di convincere i contadini a investire nella terra che è stata data loro in cambio di una quota fissa di produzione. Ma lo stesso Quotidiano del Popolo nel 1959 scrisse: «... fissare una quota di produzione sulla base del nucleo familiare è un modo retrogrado e reazionario di fare le cose». Xue Muqiao, il principale consigliere economico di Deng Xiaoping, ha scritto che la collettivizzazione del passato era sbagliata perché fatta «prematuramente» e che per questo è stato necessario «correggere quell'errore facendo per il momento un passo indietro». Il discorso è fin troppo chiaro, e la conclusione è che tutto ciò che oggi viene concesso domani dovrà essere tolto. Gli alti e bassi della politica cinese non sono affatto finiti, come alcuni ottimisti, specie stranieri, credono. I cinesi che conoscono bene il loro sistema proprio perché ricordano l'alternarsi di liberalizzazione e collettivizzazione, di piccole concessioni e grandi repressioni del passato, cercano, ognuno a suo modo, di migliorare quel che hanno e di dimenticare tutto il resto. La gente di qui ha un suo modo di riassumere la storia di questi trent'anni: «Negli anni '50 ci si aiutava negli anni '60 ci si ammazzava negli anni '70 ci si temeva negli anni '80 ognuno non pensa che a sé». | << | < | > | >> |Pagina 1469. «Come cani dalle ossa rotte»Il Tibet dopo trent'anni di occupazione cinese IMPRESSIONANTE. Maestoso. Inquietante. Il Potala, fortezza di pietra, paglia e oro arroccata su una montagna di roccia, sorge, come un incantesimo, nel mezzo della valle di Lhasa, simbolo dell'umano desiderio di arrivare al cielo, straordinario monumento eretto da schiavi per i loro re-dei. Da secoli milioni di pellegrini, invasati dalla sola speranza di questa visione, hanno viaggiato per mesi e mesi a piedi pur di vedere questa valle, e molti sono morti prima di raggiungerla. Missionari e avventurieri occidentali, che avevano solo sentito parlare di questo mitico posto al di là di inaccessibili montagne di ghiaccio, si misero in cammino affascinati da questa sacra, isolata lontananza volendo svelare l'ultimo mistero dell'Oriente. Chi ci arriva resta vittima del suo incanto. Non si riesce a sfuggirgli: dall'alto delle pareti bianche e marrone di questa montagna vivente messa dall'uomo in mezzo alle altissime vette brulle e morte della natura, le finestre del Potala, come mille occhi, ora benevoli e consolanti, ora minacciosi e terrificanti, seguono il viandante ovunque si trovi nella valle. Coi primi raggi del sole i tetti d'oro del Potala scintillano nella bruma dell'alba. Nell'ombra opaca della notte la sua spettrale presenza aleggia sulla città carica di ricordi: ricordi di assassinii, stregonerie, ma anche di salvezza.
Il Potala: per i cinesi che ora occupano il Tibet è un
museo degli orrori e delle superstizioni da cui essi,
trent'anni fa, hanno «liberato» i libetani. Per i tibetani
il Potala è ancora la sede del loro divino sovrano e perciò
un tempio dei più sacri.
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