Copertina
Autore Jasmina Tešanovic
Titolo Processo agli scorpioni
SottotitoloBalcani e crimini di guerra, Paramilitari alla sbarra per il massacro di Srebrenica
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008, Eretica , pag. 128, cop.fle., dim. 11,8x16,8x1 cm , Isbn 978-88-6222-063-7
TraduttoreMassimo Vassallo
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe storia contemporanea , storia criminale , storia: Europa
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Indice


Prefazione di Luca Rastello                          3

Cronologia                                          10
Prologo – Il disegno del crimine                    13
Un pacco umano                                      19
Chi diede l'ordine                                  25
Quando i cattivi ragazzi diventano i bravi ragazzi  32
Meno-che-umano: la figa, il fucile, lo Stato        34
Il buffone di corte                                 40
Squadrone Boca Caserma 9189/19 Vukovar              47
Il mentitore e la caduta di un esercito             50
Il soldatino di latta                               58
Nuova normalità                                     62
Le donne musulmane                                  65
Felice senza motivo                                 70
Gli sport di guerra                                 77
Il buono, il brutto, il cattivo e la Chiesa         82
Ottobre. Giorni di contraddizioni                  101
Processo agli Scorpioni                            107
Epilogo                                            114

Nota dell'autrice                                  121

Postfazione – Oltre i tabù di guerra
di Antonella Beccaria                              123



 

 

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Pagina 3

PREFAZIONE


Sarebbe bello se ogni catastrofe si annunciasse tra fiamme e squilli di tromba, con i segni distintivi dell'eccezionalità e dell'unicità. Ma non è così. Quando arriva, la catastrofe, di solito si insinua senza farsi notare fra le pieghe della vita quotidiana, fra un battibecco sull'adeguatezza o meno degli abiti che indossi e il disagio per una battuta infelice pronunciata da una persona nella quale avevi fiducia. Così è la guerra: una cosa che scoppia mentre vai al mercato, mentre pensi a un datore di lavoro insensibile o a una frase memorabile da dire a un partner in amore, una cosa che cambierà la tua vita, l'idea stessa che hai di te stesso, i concetti fondamentali su cui hai basato la tua esistenza: cittadinanza, diritti o cose più assurde come "Europa" o "Giustizia", cambierà magari anche la geografia, le mappe del tuo continente, cancellerà città e vite umane, ma intanto si annuncia mimetizzata in un groviglio di eventi quotidiani e banali da cui è difficile distinguerla. Eppure in quel momento inavvertito è segnato un punto di non ritorno per un'intera civiltà.

Qui si parla, se non della catastrofe, certamente di un infelice punto di non ritorno per le illusioni maturate negli anni scorsi sulla giustizia e sul diritto internazionale. Certo, antefatti significativi non ne sono mancati: probabilmente il più evidente fu il fallimento della commissione di indagine sui crimini di guerra delle Nazioni Unite presieduta da Tadeusz Mazowiecki negli anni, cruciali per l'Europa, della guerra di Bosnia. Mazowiecki, dopo aver denunciato il tentativo di genocidio operato nella zona di Prijedor, dopo aver invano criticato la politica delle "aree protette" (quella che portò al disastro di Srebrenica di cui Jasmina Tesanovic parla in questo libro) sostenendo che se la NATO e l'ONU avessero continuato a minacciare interventi che non avevano chiaramente intenzione di compiere ciò avrebbe «rafforzato la convinzione di impunità dei carnefici», dopo aver denunciato per nome e cognome gli artefici a tutti i livelli delle pulizie etniche del 1991-92, dopo aver segnalato e puntualmente documentato le condizioni disumane e i massacri delle enclave di Zepa, Gorazde e Srebrenica, non poté far altro che dare le dimissioni, davanti a una guerra di sterminio che ai suoi occhi godeva della tacita benedizione della cosiddetta comunità internazionale: «Oggi», dichiarò, «ogni affermazione riguardo la difesa dei diritti perde la sua credibilità. Questo», si riferiva a Srebrenica, «è un abbandono dei princìpi dell'ordine internazionale». Era il cuore dell'estate del 1995, nel resto d'Europa un caldo canicolare spingeva la gente al mare, sui moli si cuocevano grigliate e fritti misti.

L'ulteriore punto di svolta, verso il basso, è assai recente e può essere collocato fra due date tanto capitali, quanto ignote al grande pubblico europeo: 26 febbraio 2007 e 10 aprile 2007. Parte dei fatti è nota: riguarda il massacro compiuto nei giorni successivi al 10 luglio 1995, quando la piccola città di Srebrenica, nella Bosnia orientale, affollata oltre l'umano di profughi e assediata da tre anni, fu letteralmente consegnata nelle mani dei macellai nazionalisti serbi comandati da Ratko Mladic.

Oltre ottomila prigionieri inermi furono assassinati a freddo, per ordine di Mladic e forse di qualche dirigente serbo ancora più influente: tutti impuniti, da Mladic in su, tutti latitanti a tutt'oggi con l'eccezione di Slobodan Milosevic, morto prima di essere giudicato all'Aja, e di Radovan Karadzic. Su quella vicenda, tanto chiara e vistosa, calò un incomprensibile velo di fumisterie, distinguo verbali, ghirigori pseudointellettuali (anche d'autore, come nel caso di Peter Handke, per altri versi grandissimo scrittore, ma tanto accecato da riuscire a vedere durante un suo viaggio del 1995 il fumo di villaggi incendiati nel 1992: inestinguibile fumo del pregiudizio mascherato da svelamento e inesauribile scia di danni lasciata dalle teorie del complotto) e il risultato fu che ben pochi colpevoli, e tutti di secondo piano, ebbero una condanna.

Ma il primo giugno del 2005 avvenne qualcosa che scosse finalmente le coscienze intorpidite: una testimonianza inequivocabile di come si fossero svolte le cose dieci anni prima a Srebrenica. Un filmato di pochi minuti mostrava l'esecuzione a freddo, dopo maltrattamenti e torture, di sei prigionieri musulmani, per lo più minorenni, da parte delle truppe paramilitari serbe chiamate "Skorpion": fu reso noto da Natasa Kandic, poi supportata dalle "Donne in Nero", che fin dall'inizio del conflitto si erano battute per un'azione di pace, verità e giustizia al di sopra delle bandiere nazionaliste. Il video fece il giro del mondo e fu uno shock in particolare per la società serba, tendenzialmente autoindulgente, che si trovò per la prima volta di fronte i volti delle vittime, i metodi brutali dei carnefici (identificabili nei rispettabili vicini di casa di tutti i giorni), le sofferenze di condannati a morte a cui era negato anche solo bere un po' d'acqua. Questo infranse il silenzio su Srebrenica che durava da anni, spazzò via l'interpretazione ufficiale secondo cui solo alcune centinaia di persone erano state uccise illegalmente, mentre tutte le altre erano morte in battaglia. Il filmato non lascia spazio a dubbi: i volti delle vittime e quelli dei carnefici sono in chiaro, in primo piano, le loro azioni evidenti, scandite dal commento dell'operatore che si raccomanda di rispettare, nella sequenza delle brutalità, i tempi della batteria che alimenta la telecamera: si sta scaricando e lui non vuole perdere nemmeno una scena.

Si aprì dunque un processo: per la prima volta a Belgrado erano alla sbarra i paramilitari che, dopo avere seminato morte, stupro e violenza nelle regioni vicine, si erano riciclati in clan malavitosi a spese della stessa Belgrado. Jasmina Tesanovic racconta i giorni di quel processo non con le sole armi dell'analisi, lucida e spietata, ma anche con il carico emotivo, con la consapevolezza della vita quotidiana invasa dalla storia nella sua forma peggiore. Racconta i brividi che corrono sulla sala, l'atteggiamento dei parenti degli imputati, spavalderie, menzogne, timidezze di questo periodo di illusione nella giustizia culminato nella primavera del 2007.

E racconta le sentenze: la prima il 26 febbraio, il Tribunale dell'Aja per i crimini di guerra dichiara che la Serbia non ha responsabilità per tentativi di genocidio, che il genocidio riguarda la sola Srebrenica e non l'intera Bosnia, che neppure gli Skorpion sono responsabili, se non di non avere impedito il genocidio, che non devono essere pagati danni alla Bosnia aggredita, che la Serbia deve solo collaborare con l'Aja alla cattura di Ratko Mladic e Radovan Karadzic (una barzelletta di cui a buon diritto le autorità serbe amano mostrare quanto se ne infischino).

Via libera per la seconda sentenza (facciamo in tempo ad assistere a una lieve variazione nell'atteggiamento della giudice belgradese, improvvisamente sarcastica verso i "poco virili" atteggiamenti di un miliziano che si è sottratto alle esecuzioni), quella per gli Skorpion, che arriva il 10 aprile: non ci sono prove per condannare i paramilitari per concorso in genocidio, ciò che è accaduto a Srebrenica non è che «un turbine nella tempesta della guerra». In un'intervista Natasa Kandic, a cui si deve la pubblicazione del video, ha detto: «La corte ha lasciato nuovamente sconcertata la società serba: uno degli Skorpion è stato rimesso in libertà, un altro condannato a soli cinque anni, solo due sono stati condannati alla massima pena... E così questo processo, che era cominciato con una grande speranza, cioè che la verità giudiziaria sarebbe stata un'autentica verità, che avrebbe spiegato davvero cosa sono gli Skorpion, che hanno agito come istituzioni criminali di Milosevic, che sono stati mandati a partecipare al genocidio di Srebrenica, si è concluso senza che nulla di questo si verificasse. Loro sono stati condannati per un omicidio, ma il processo non ha neppure chiarito da dove venissero le vittime. La conclusione è stata una specie di elemosina e una grande mancanza di rispetto verso le vittime. La verità ufficiale ha mistificato quello che è avvenuto in Bosnia. Alla fine, gli Skorpion sono serviti al tribunale internazionale come prova per arrivare alla conclusione che lo Stato serbo non ha partecipato al genocidio».

Un avvocato difensore commenta trionfante: «Se la Serbia è innocente, gli Skorpion sono i suoi protettori». Quanta tremenda verità ci sia in questa semplice implicazione logica è ancora da scoprire, non mancheremo di registrarlo nei tempi a venire, si parli o meno di Europa e di altre astrattezze care agli anni Novanta e al wishful thinking internazionale. Nel frattempo, con quella che Jasmina definisce «sconfitta della condizione umana», la paura è tornata a serpeggiare fra i cittadini di Belgrado, le milizie-clan si considerano i vincitori morali e i fatti, anche quelli che si registrano nelle aule dei tribunali, confermano che lo sterminio di popolazioni civili inermi si è rivelato negli ultimi decenni non un incidente, ma una tecnica di straordinaria efficacia dotata di razionalità pratica capace di rispondere nel più moderno dei modi a esigenze di carattere politico, economico e sociale, e di conservazione di potere da parte sia di dittature in vecchio stile, sia di quelle rappresentazioni spesso svuotate di rappresentanza che ci ostiniamo a chiamare "democrazie". Lo dimostra Srebrenica, lo dimostra a parti invertite la condiscendenza nei confronti del tentato sterminio di serbi in Kosovo, lo dimostrano mille situazioni sparse per il globo e decine di annessi teatrini giudiziari. Di fronte agli sconvolgimenti che una vera applicazione di giustizia per crimini di guerra porterebbe agli equilibri di potere vigenti, pare che il cosiddetto Occidente opti, nei fatti, sempre per il "male minore" rappresentato dall'oblio sostanziale, dal rispetto dello status quo, illudendosi, come ha scritto Guido Rampoldi, «di instaurare la "stabilità" anteponendola ai diritti umani. E creando invece le condizioni per una destabilizzazione cronica, perché la condiscendenza verso le violazioni più sinistre finisce per convalidare codici di lotta politica suscettibili di estendersi agli incerti codici delle relazioni internazionali». Come dire: nel nome della "stabilità" ci è chiesto di vivere nell'inferno della guerra permanente. Nel frattempo il Tribunale di Belgrado che ha scagionato gli Skorpion emette un mandato di cattura per Selim Beslagic, sindaco di Tuzla, la sola città che nell'abisso della guerra bosniaca ha resistito alle sirene di ogni nazionalismo rigettando le divisioni e sopportando, nel nome della convivenza multiculturale, tre anni di sanguinoso assedio. Tanto per ricordare che la condizione in cui si vuole tenere il cosiddetto diritto penale internazionale continua a essere la notte in cui tutti i gatti sono bigi.

Luca Rastello

direttore responsabile dell'Osservatorio sui Balcani

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Pagina 10

CRONOLOGIA


4 maggio 1980: morte di Tito. In Kosovo si riaccende lo scontro tra albanesi e serbi.

1981: primi violenti disordini e progressiva epurazione degli albanesi nelle istituzioni statali.

1989: il presidente serbo Slobodan Milosevic, revoca l'autonomia della provincia.

Estate 1991: dopo la secessione di Slovenia e Croazia, inizia la guerra civile jugoslava.

18-21 novembre 1991: massacro di Vukovar. Oltre 200 persone, per lo più croati, inclusi civili e prigionieri di guerra, sono assassinati da membri delle milizie serbe e dell'Armata Popolare Jugoslava.

Aprile 1992: ha inizio ufficialmente l'assedio di Sarajevo, messo in atto dai serbi.

Luglio 1995: strage di Srebrenica. Le forze serbo-bosniache di Ratko Mladic massacrano oltre 8 mila musulmani bosniaci. Nella stessa estate i membri di una squadra di "Scorpioni", una formazione paramilitare serba che agisce con il tacito avallo governativo, vengono ripresi da uno dei loro stessi membri mentre torturano e giustiziano sei ragazzi musulmani. La videocassetta, ritrovata da un attivista per i diritti umani di Belgrado, sarà trasmessa dieci anni dopo dalle televisioni di tutto il mondo.

[...]

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PROLOGO

IL DISEGNO DEL CRIMINE


Non ho mai avuto una patria, non ho mai avuto una lingua madre, non ho mai creduto in Dio. Sono cresciuta come una zucca sui rifiuti, come diceva spesso mia madre.

Sono cresciuta tra Paesi, lingue, costumi.

Nelle mie varie scuole ho parlato inglese, italiano, serbo.

Ho preso in prestito i guai degli altri per scriverne.

Ho scritto, mi sono emozionata, ho pianto.


Al quinto anno di scuola, nella Jugoslavia di Tito, ricevetti il compito di scrivere delle gloriose battaglie dell'armata comunista jugoslava. Io avevo studiato i Tudor inglesi, la rivoluzione francese, la guerra civile americana, ma nessuna di queste epiche narrazioni menzionava alcuna gloria comunista.

Così chiesi a mio padre, originario dell'Herzegovina, una versione riassuntiva, adatta a una giovane studentessa, della storia dei buoni che battono i cattivi nella seconda guerra mondiale. E mio padre mi narrò una storia terribile, crudele ed eroica, con lui come attore. Quella fu la prima volta che udii il termine "fosse comuni".

I serbi in Herzegovina venivano sequestrati dagli occupanti nazisti e legati fra loro in gruppi di tre persone. Poi una vittima veniva fucilata e le altre due gettate insieme a lei in una trincea. Centinaia furono uccisi in questo modo, una fila dopo l'altra, prima che gli squadroni della morte se ne andassero.

Una volta spariti i killer, mio padre e altri adolescenti del paese scavarono tutto il giorno per salvare i sopravvissuti. Alcune, poche vittime fra quelle dissotterrate, sopravvissero abbastanza per raccontare la storia.

Così ne scrissi, luogo e data esatti, e vinsi un premio letterario della scuola jugoslava. Un paio di settimane più tardi fui pubblicamente privata del mio premio: le mie date non corrispondevano con la storia ufficiale della Resistenza.

Lo scontro che avevo descritto era accaduto un mese o forse anche di più prima dell'insurrezione ufficiale comunista, guidata in quella certa parte del Paese da quel certo compagno eccetera eccetera. Questo appartchik, ancora vivo e al potere a quel tempo, stava rendendo affar suo il controllo della storia locale, sia per i vivi che per i morti.


Non ho mai chiesto ai miei genitori di che nazionalità fossimo: noi eravamo jugoslavi, sapevo questo. Noi avevamo il miglior passaporto del mondo: questo avevo sentito dire.

Mia madre era piccola e bruna e mio padre era alto e biondo. Mi chiamarono Jasmina per via di una canzone popolare. Le cose rimasero così fino ai primi anni Novanta: poi accadde qualcosa, nell'aria, sulla terra, nelle menti delle persone. Specialmente in Serbia, dove a quel tempo vivevo. Mia madre cominciò a parlare del Kosovo come della sua patria. Mio padre parlava negli stessi termini della Bosnia. Avevano vissuto insieme a Belgrado dal 1941. Non ci era mai importato di visitare le loro terre natìe.

Poi emersero storie oscure: di crimini di guerra serbi in Bosnia e Kosovo. Raccontai queste storie ai miei genitori. Non vollero credermi.

Mia madre morì con il nome del Kosovo sulle labbra e mio padre, che è ancora vivo, non parla più con me di questo genere di cose.


Nel giugno del 1995 stavo scrivendo un libro sui rifugiati della ex-Jugoslavia, The Suitcase, e intervistai donne e uomini del posto, di etnie diverse, che erano espatriati in tutto il mondo. Uno dei miei contatti era un giovane di Srebrenica: profugo a Vienna. Era un musulmano, molto educato e gentile con me, considerando che ero una serba che scriveva per editori americani. Mi invitò nel suo appartamento, mi offrì una cena e mi narrò di come fuggì dal suo Paese travagliato tramite la Croce Rossa di Belgrado. Si considerava uno jugoslavo e rinnegava la guerra, secondo lui voluta dai politici distanti, non da gente come lui.

E alla fine disse qualcosa che io non dimenticherò mai, una frase che allora suonò cupa e raggelante: «Se accade qualcosa alla mia famiglia rimasta a Srebrenica, che è una enclave musulmana protetta dalle truppe ONU, io giuro su Dio che ucciderò con le mie stesse mani il primo serbo in cui mi imbatterò e non mi interessa che non sia colpevole, non mi interessa se vado in prigione per sempre...».

Si riferiva, presumibilmente, al suo collega di lavoro serbo, un compagno rifugiato a Vienna che lui vedeva quasi ogni giorno.


Qualche settimana dopo avvenne il massacro a Srebrenica; più di ottomila persone furono giustiziate dalle armate di serbi bosniaci comandate dal generale Mladic. Le truppe ONU guardarono dall'altra parte.

I corpi vennero sepolti in tutta la regione, alcuni in territorio serbo, con un'efficienza senza precedenti.

Oggi, dodici anni dopo, c'è ancora chi, in Serbia come nel resto del mondo, deliberatamente ignora Srebrenica.

In Serbia, la pretesa della maggioranza silenziosa è che i crimini siano stati di uguale entità per tutte le fazioni e che quindi vadano sistematicamente nascosti e dimenticati.

Nel più vasto mondo globale, esso stesso sempre più terrorizzato, militarizzato e "illegalizzato", la giustificazione di un atteggiamento del genere è: «Che la violenta lotta tribale nei Balcani abbia pure luogo». Questo è lo splendido isolamento di chi immagina di potersi permettere l'isolamento.


Non so se la famiglia di quell'uomo sia stata uccisa nel massacro di Srebrenica e non so se lui abbia ucciso il suo vicino di casa, il serbo. Non ho più avuto sue notizie da allora.


Dopo il massacro di Srebrenica, consumatosi tra l'11 e il 14 luglio '95, all'inizio di agosto i croati bombardarono la Krajina: 250 mila serbi fuggirono dalla Croazia.


Qualche mese dopo, a Dayton, fu firmato un trattato di pace fra le tre fazioni in guerra (serbi, musulmani e croati). Ricordo di avere atteso tutta la notte per sapere se avessero raggiunto un accordo. Ricordo mia figlia di undici anni alzarsi spesso dal suo letto per chiedermi: «L'hanno fatto?».

Quando finalmente risposi di sì, lei andò a letto e io cominciai a piangere.

Quelle non erano lacrime di sollievo, ma di disperazione. Il trattato di Dayton era stato firmato da Milosevic e Karadzic. Si strinsero la mano al cospetto di Bill Clinton, pubblicamente si esibirono nella parte dei pacificatori e io seppi immediatamente che gli ottomila corpi nelle fosse comuni di Srebrenica un giorno sarebbero tornati, sicuro come il ritorno del padre di Amleto, perché non ci sarebbero state riconciliazione e pace senza verità e giustizia.


Nel dicembre 2005 per la prima volta andai al processo su Srebrenica contro il gruppo paramilitare degli Scorpioni. Andai per sostenere le donne bosniache nostre amiche che erano venute per testimoniare presso il Tribunale per i crimini di guerra e per identificare i loro cari assassinati.

Ci andai come esponente della organizzazione non-governativa pacifista "Donne in Nero".

Quando per la prima volta udii gli Scorpioni parlare pubblicamente, questi uomini che avevano partecipato in segreto al massacro di Srebrenica, così come ad altri minori, decisi di rimanere fino alla risoluzione finale del processo. Non soltanto per il bene delle vittime, ma a causa dei criminali. Queste persone parlavano nella mia stessa lingua, avevano la stessa gestualità dei miei vicini di casa e il modo di ragionare della mia stessa famiglia. Erano parte della storia della mia famiglia e della Storia, la parte che era marcita, che era andata fuori strada, aveva commesso crimini, assassinato e nascosto le uccisioni.

Il mio dovere e il mio privilegio era di ascoltarli in prima persona, prendere appunti e cercare di comunicare la verità storica. Come è possibile che nascondendo la verità e negando l'evidenza siano riusciti a far svanire nel nulla ottomila vittime? In soli tre giorni? Tutti "certificati", tutti uccisi? Quale disegno potrebbe mettere in atto un crimine del genere?

Stando a guardare e ascoltando gli Scorpioni – queste persone che si considerano eroi, che hanno passato i turbolenti anni di guerra come comuni saccheggiatori, assassini dei loro vicini di casa, poi affondati in frustranti anni di pace, ancora insieme, come una senescente fratellanza di sangue, una mafia patriarcale su piccola scala – ho scritto queste pagine sforzandomi di dare un senso a tutto questo, di rispettare le parole e i pensieri degli attori in aula e di trasmettere al mondo un quadro più ampio.


A Gerusalemme, dopo la seconda guerra mondiale, Hannah Arendt seguì il processo di Adolf Eichmann. Alcuni dei suoi connazionali ebrei restarono offesi e sconvolti dal fatto che a Eichmann fosse concesso il diritto di parlare in propria difesa dopo che sei milioni di ebrei si erano visti negare qualsiasi equo processo ed erano stati trucidati. Tuttavia fu la sua presenza in quell'aula che permise a Hannah Arendt di comprendere e descrivere la banalità del male.


I crimini storici seguono un disegno. I morti sono silenziosi, ma i loro fantasmi legali parlano a voce alta. Il loro miglior portavoce è la voce stessa dei loro carnefici.

Luglio 2007

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