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| << | < | > | >> |Pagina 11Le aziende sono come le persone: diverse per carattere, attitudini, fortuna, stile. Ciascuna esprime se stessa attraverso le cose che produce: è un discorso fatto di merci. Ma ciascuna esprime se stessa anche scegliendo uno specifico modo di discorrere, attraverso la proposta di merci, con il proprio pubblico. Il discorso delle merci può risultare innovativo o tradizionale, utile o inutile, consistente o inconsistente. Il modo può risultare interessante o noioso, o divertente, o seduttivo, o irritante. Un profumo, un formaggino e un'automobile sono tre prodotti-discorso diversi. O meglio: sono tre diversi argomenti di discorso, ciascuno dei quali può, a sua volta, essere sviluppato in molti modi differenti. Tutti noi consumiamo prodotti in parte per quello che sono e in parte per quello che significano. Un formaggino è novanta calorie di grassi animali, acqua e sali minerali. Un'automobile è un marchingegno che permette di spostarsi senza fatica. Un profumo è un cocktail di essenze volatili sciolte in alcol. Ma ai concetti economici di valore d'uso (novanta calorie, spostarsi senza fatica e due ore di odore di bergamotto) e di valore di scambio (espresso nei tre casi in centinaia, milioni e migliaia di lire) può essere opportuno, parlando di pubblicità, accostare un concetto estraneo all'economia: quello di valore percepito. Il formaggino è morbido? È digeribile e adatto anche ai bambini? C'è dentro basilico e dragoncello? È così magro che non fa ingrassare? È fatto con latte certificato biodinamico proveniente da mucche allevate in modo biodinamico su prati coltivati in maniera biodinamica? È garantito da una grande azienda? O da un piccolo produttore che però lavora proprio come una volta? E si trova facilmente? O bisogna andarlo a cercare nel negozio più bello della città? Anche questi sono argomenti di discorso. E ancora: è confezionato in una graziosa scatola con un paesaggio olandese? Ha un nome accattivante? Regala punti collezionando i quali si può avere in regalo un delizioso paio di zoccoletti di legno? La campagna pubblicitaria che ne promuove l'uso racconta prati verdi, mucche felici e bambini sorridenti? O mostra belle ragazze olandesi che, capelli al vento, corrono in bicicletta? Questi, invece, sono modi di discorrere. Insomma: l'argomento-formaggino può essere sviluppato in un sacco di maniere. In regime di monopolio sarebbe il valore d'uso a governare le scelte dei consumatori: chi vuole novanta calorie di derivati del latte non può fare altro che prendere l'unico prodotto con queste caratteristiche disponibile sul mercato. Ma in un sistema economico che vede molte aziende impegnate a produrre formaggini la competizione si sposta sui prezzi. E, a prezzi più o meno allineati, sulle cosiddette performance oggettive del prodotto (i consumatori interessati alla morbidezza sceglieranno il formaggino più morbido. E quelli interessati al gusto sceglieranno il più saporito). A un'offerta più articolata corrisponde un sistema di bisogni più complesso, e viceversa: è possibile offrire un formaggino morbido e ipocalorico a chi sta a dieta, un formaggino morbido alla frutta ai bambini, e magari un formaggino morbido, ipocalorico e con la frutta ai bambini grassi. E suggerirne, poi, il consumo anche a qualche adulto grasso in vena di regressioni alimentari. La specifica promessa del prodotto si manifesta grazie a un nome e a una confezione che la esprimono, e può essere confermata e amplificata da una comunicazione che la racconta secondo una modalità specifica. Così qualsiasi tema-merce si trasforma in una particolare argomentazione-prodotto: il modo in cui questa viene sviluppata deve essere coerente, comprensibile e attraente per uno specifico gruppo di consumatori (definito target-group, cioè gruppo-obiettivo) e, idealmente, per ogni individuo appartenente a quel gruppo. Ma c'è un limite alla quantità di formaggini diversi che si possono inventare, e anche ai bisogni oggettivi che un formaggino può soddisfare. Spesso il limite è di tipo paradossale: di diversificazione in diversificazione, il prodotto può arrivare fin quasi a cancellare le sue caratteristiche fondamentali. Tutti i cibi ipocalorici, per esempio, sono fatti per nutrire il meno possibile, con questo contraddicendo il loro essere cibi. Se, come capita sempre più spesso, molte marche offrono prodotti con performance analoghe (quindi: fanno discorsi impiegando argomenti simili), la competizione si sposta proprio sul valore che il consumatore soggettivamente è disposto ad assegnare a ciascun formaggino: e allora vince quello che si presenta nel modo più accattivante. Quello che ha la confezione più attraente è definito con il nome più carino, viene presentato dalla campagna pubblicitaria più grande e convincente ed è capace non solo di promuovere se stesso vantando le proprie qualità nel modo più convincente, ma anche di fare appello a criteri e valori che, almeno a rigor di logica, col prodotto in sé c'entrano piuttosto poco.
Il formaggino Cucciolo alla frutta è buono, leggero e gustoso
e quindi
è adatto ai bambini
e quindi
le mamme che lo comprano fanno una scelta competente
e quindi
possono considerarsi buone madri.
Il nome di un prodotto, l'imballaggio (packaging) e la comunicazione pubblicitaria hanno proprio la funzione di mettere bene in evidenza o di istituire differenze nella percezione di prodotti simili, e nel tipo di gratificazione secondaria che può derivare dal loro uso (per esempio: far fare merenda al piccolo, offrirgli un prodotto di qualità sicura, comodissimo da conservare e usare, e contemporaneamente sentirsi una buona madre). L'obiettivo, insomma, è trovare modi sempre nuovi ed efficaci per argomentare "formaggino". Per esempio, formaggino morbido. Poi, formaggino morbido alla frutta. Poi, formaggino morbido alla frutta ipocalorico. Quanto più gli argomenti diventano irrilevanti o pretestuosi, tanto più acquistano rilievo i modi: Cucciolo. Cucciolo nella scatolina col mulino. Cucciolo che regala gli zoccoletti. Cucciolo prodotto col latte di mucche felici. Cucciolo, scegliendo il quale confermi a te stessa e al mondo di essere una buona madre. Marketing è una parola – e un modo di procedere – che appare in Italia nel secondo dopoguerra: significa avvicinare i prodotti al pubblico e viceversa, rendendo desiderabili i primi e desiderante il secondo. È un vero e proprio salto di qualità nelle strategie aziendali: non a caso è stata fatta una distinzione tra aziende product-oriented (che considerano la propria produzione come un dato di fatto e cercano di convincere il pubblico ad accettarla) e aziende marketing-oriented (che adeguano la propria produzione ai gusti e ai desideri del pubblico, ne seguono i mutamenti, incoraggiano i consumatori non solo a soddisfare con i prodotti i propri bisogni, ma anche a caricare l'atto del consumo dei propri desideri). Quindi, se da una parte il processo di industrializzazione tende a standardizzare i processi di produzione, i prodotti e le loro prestazioni, dall'altra il marketing vuole mettere a punto prodotti con prestazioni sempre più specializzate, e segmentate in base alle esigenze di singoli gruppi di consumatori. Perché questo risultato venga ottenuto ci deve essere la massima congruenza tra le caratteristiche del prodotto (le sue qualità oggettive, il tipo di punto-vendita, il prezzo) e il nome, il marchio, la confezione, la comunicazione pubblicitaria, i desideri e le attese di uno specifico target. Infatti, quello che prima ho definito valore percepito non è uguale per tutti. | << | < | > | >> |Pagina 47È sera tardi. C'è silenzio. Sto seduta davanti a un piccolo scrittoio, illuminato da una lampada di ottone: un quadretto romantico. Sarà colpa dell'ora, ma mi viene voglia di fare una dichiarazione impegnativa a proposito dell'innocenza della tecnica e della responsabilità di chi la applica. Mi spiego: da una parte c'è il cliente e dall'altra il prodotto e dall'altra il contesto socioculturale, chiamiamolo così, a cui rubo segnali, materiali di costruzione per un messaggio che è fatto di prodotto ma non solo. Non è detto che questa operazione di furto — o se preferite di traduzione — possa avvenire in maniera neutrale. Devo scegliere i segnali da rubare. E posso decidere come tradurli. Gli argomenti che impiegherò mi vengono dati, ma sono io a individuare e a costruire i modi del mio racconto. Posso raccontare la stessa identica storia, sul medesimo prodotto, in dieci maniere differenti. Che faccia ha la donna che prepara il minestrone surgelato? E quella che sceglie il tonno Marechiaro, perché lo fa? Posso insinuare che chi non usa il miracoloso Brufolix non avrà mai fortuna con le ragazze (ma potrei invece mostrare un brufolo che scappa spaventatissimo, inseguito da Brufolix. O un tipetto coi brufoli che seduce una tipetta coi brufoli regalandole Brufolix, e alla fine sono proprio innamorati e si baciano. Senza brufoli. Oppure no: menare i due si stanno baciando, la tipetta gira l'occhio e vede un altro. Più carino ancora del suo tipetto. Ehi, quell'altro ha un brufolo sul naso, quasi quasi gli regalo Brufolix. E così via).
Posso presentare come attraente una situazione in cui il boss, che è uno che
ha le palle, ha appena concluso l'affare del secolo e ordina da bere per tutti.
Posso rendere desiderabile la biondona in abito da sera che ti pianta in asso se
non le offri Up, l'aperitivo che ti tira su. Ma chi ha detto che Up dev'essere
necessariamente bevuto da una biondona? Chi ha detto che il boss deve essere
maschio? Chi ha detto che è così importante concludere l'affare del secolo?
Conviene ricordare che tutto è dato, tranne il trattamento creativo del messaggio, e che però il trattamento pubblicitario più semplice risulta prescrittivo, o almeno suggestivo, in termini di comportamento. Propone un sistema di valori, una scheggia di visione del mondo. Anche se la tecnica è innocente, nel momento in cui la applico mi rendo responsabile – ed eventualmente colpevole – non solo nei confronti del prodotto e del cliente (e qui trattasi di responsabilità professionale) ma anche nei confronti del pubblico (e qui trattasi – non vi sembri eccessivo – di responsabilità morale). Parlando di tecnica pubblicitaria, poco fa ho usato un aggettivo che può apparire fuori luogo: "innocente". Intendevo dire che si tratta di uno strumento efficace (e in seguito vedremo quanto) ma in sé neutrale. Provate a pensare a un orologio: potete usarlo per arrivare puntuali agli appuntamenti, oppure per costruire una bomba a orologeria. Ovviamente, il giudizio sull'uso che voi fate di quell'orologio sarà comunque cosa differente dal giudizio sull'orologio medesimo. Ciò detto, è innegabile il fatto che la vostra vita sarebbe diversa da quella che è, se gli orologi non fossero mai stati inventati. È ugualmente innegabile il fatto che gli orologi siano molto funzionali al nostro tipo di società.
Non so se amate o detestate il vostro orologio, o se vi è indifferente.
Immagino che abbiate imparato a conviverci, che non lo riteniate direttamente
responsabile della vostra maggiore o minore felicita, e che sappiate esattamente
quando conviene che gli diate retta, e quando invece potete ignorarlo.
Anche la comunicazione pubblicitaria può essere usata in molti modi e per molti scopi: da un produttore di sigarette per suggerirvi che fumare è bello e virile, e dall'Istituto dei tumori per dirvi che fareste meglio a smettere. Oppure da due candidati politici avversari, ciascuno dei quali sostiene una tesi opposta a quella dell'altro. Oppure dall'esercito e da un movimento pacifista. Oppure da un fabbricante di zucchero e da uno che produce dolcificanti sostitutivi dello zucchero. Nel momento in cui la tecnica si traduce in messaggio ogni neutralità finisce. E questo capita perché ogni messaggio pubblicitario ha uno scopo di parte: vuole darvi motivi per agire – o per pensare – secondo i desideri del committente. Per questo, tra l'altro, non è realistico chiedere che la pubblicità sia completamente ed esclusivamente informativa: un messaggio di parte evidenzia sempre gli aspetti positivi e minimizza quelli negativi. Quindi contiene tutte le informazioni – e le emozioni – che servono a renderlo più efficace, ma solo quelle, e promuove modelli di comportamento congruenti con gli obiettivi che il committente si è posto, e per raggiungere i quali sta investendo tempo, attenzione e una non indifferente quantità di denaro. | << | < | > | >> |Pagina 156Ormai siete convinti che per realizzare al meglio una comunicazione pubblicitaria dovete tener conto del prodotto e del pubblico al quale vi rivolgete, e che a partire da questi vincoli vi tocca mettere a punto il particolare messaggio, diverso da tutti gli altri, che a quel pubblico volete trasmettere. Ma non è finita: dovete anche confrontarvi con le peculiarità del mezzo che veicolerà il vostro messaggio. In teoria per un copywriter è abbastanza indifferente scrivere l'headline di un annuncio che uscirà su un quotidiano o su un periodico perché i requisiti di un buon titolo restano gli stessi: sintesi, originalità, comprensibilità, ritmo, capacità di integrarsi con l'immagine. Ma in pratica, nel momento in cui l'art director si deve misurare con la mediocre qualità di stampa dei quotidiani (e spesso con il bianco e nero, perché sui quotidiani le pagine a colori costano di più), oppure con la meravigliosa stampa a colori di certi periodici, e fa scelte conseguenti per quanto riguarda il visual, anche il copywriter non può fare a meno di tener conto di questi elementi, che pure non hanno niente a che vedere con la scrittura.
L'affermazione "il mezzo è il messaggio" può essere letta in due sensi: da
una parte le
caratteristiche fisiche
del mezzo (inteso come
supporto)
influiscono sulle soluzioni formali. Dall'altra le
connotazioni
del mezzo (inteso come
contesto) possono, almeno parzialmente, riflettersi nel messaggio, per esempio
accrescendone o diminuendone l'autorevolezza e la credibilità.
Pensate a una campagna istituzionale che viene pubblicata, come spesso succede, solo sulla stampa quotidiana, su pagine intere: il grande formato (non sto parlando del format ma, ovviamente, delle dimensioni degli annunci) conferisce solennità, enfasi e peso alla comunicazione: è una dimostrazione di forza e una pressante richiesta di attenzione. Se anche il colore è assente, si tratta di un handicap che può risolversi in un vantaggio: diventano necessarie una grafica pulita e senza incertezze, e immagini — al tratto oppure fotografiche — sempre nette e forti. Con questa impostazione visiva dovranno misurarsi i titoli. Fra l'altro, molto più spesso di quanto non capiti con i periodici, gli annunci per i quotidiani sono copy-ad. Questo può succedere perché non c'è nulla di concreto da mostrare (è un dato caratteristico di molte campagne istituzionali), o perché non c'è nulla che si possa convenientemente illustrare in bianco e nero, o perché ciò che si vuol dire è molto più importante di ciò che si potrebbe far vedere. Dopotutto i quotidiani sono — o intendono essere — il luogo della concretezza, delle notizie, dei fatti, dove la parola conserva il ruolo protagonista che altrove ha ceduto all'immagine.
Credo di poter affermare — anche senza il conforto di statistiche
sull'argomento — che mediamente il tono di voce degli annunci che escono sui
quotidiani è più serio e ufficiale di quello degli annunci pubblicati sui
periodici. Questo capita perché i prodotti pubblicizzati su questo mezzo —
essenzialmente servizi e beni durevoli — chiedono un trattamento più pacato e
proposte di vendita più argomentate degli alimentari, dei cosmetici,
dell'abbigliamento e dei detersivi che affollano, per esempio, le testate
femminili. Evidentemente, il contesto redazionale influenza l'approccio di
comunicazione già nel momento in cui seleziona il target.
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