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| << | < | > | >> |Indice9 Premessa 23 Per orientarsi I. IL REGNO DELL'IMMAGINAZIONE PROFONDA 31 Il metodo dell'immaginazione attiva di C.G. Jung ESEMPIO. Una fantasia passiva: L'uomo affascinante, 46 ESEMPIO. Una fantasia attiva: "Il ritrovamento dell'anima" di C.G. Jung, 48 II. I PAESAGGI, LE PIANTE, GLI ANIMALI E I PERSONAGGI DELLA MENTE 55 I paesaggi e le piante della mente ESEMPIO. Un problema relazionale ridefinito in termini interni: La terra arida, 59 ESEMPIO. "Il sacrificio non è distruzione": La primavera nel cuore, 63 ESEMPIO. Un'immaginazione attiva sollecitata da uno stimolo esterno: Fiori e fili d'erba, 67 71 Gli animali della mente ESEMPIO. Quando la coscienza non ha familiarità con l'inconscio: L'elefante inferocito, 77 ESEMPIO. Una falsa immagine di animale archetipico: La sfinge, 78 79 I personaggi della mente ESEMPIO. Uno scenario disturbato: Il teatro organizzato male, 82 ESEMPIO. Un'immagine archetipica: Il Re del Mare, 86 ESEMPIO. Un'altra immagine archetipica: Il Grande Spirito del Vento, 88 ESEMPIO. Dinamiche archetipiche della coppia maschile/femminile: La Principessa di Montalcino, 90 93 III. LE IMMAGINI DEL CORPO ESEMPIO. Un'immaginazione attiva scaturita a seguito della stimolazione sensoriale bilaterale alternata: La casa dell'infanzia, 103 ESEMPIO. Immagini da una tensione corporea: L'acqua nella pentola, 106 ESEMPIO. Immagini di sintomi: La voce del corpo, 109 ESEMPIO. Controtransfert immaginale: La bolla, 114 119 IV. BREVI CONSIDERAZIONI SU IMMAGINI DEL PROFONDO E PROCESSO D'INDIVIDUAZIONE ESEMPIO. Un'esperienza di integrazione delle polarità psichiche: La notte illuminata, 130 131 V. SUL "FARE ANALISI" (E IMMAGINAZIONE ATTIVA) 147 CONCLUSIONI ESEMPIO. Immaginazione attiva: L'anima libera, 154 157 Ringraziamenti 159 Note 169 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 9Ho cercato di comunicare ciò che gli altri non vedono, ad esempio un arcobaleno di profilo. Bruno Munari Nel film Videocracy - Basta apparire il regista italo-svedese Erik Gandini descrive, con limpida capacità narrativa, il processo che in Italia, a partire dagli anni Settanta, ha reso l'apparire televisivo misura dell'identità personale, del valore sociale, dell'esistenza. Nella cultura dell'apparenza, l'identità individuale e quella collettiva si costruiscono infatti intorno alla visibilità televisiva della nostra immagine, al nostro essere riconosciuti dallo sguardo del telespettatore quali personaggi del piccolo schermo, qualunque sia il ruolo interpretato. A loro volta, i nuovi eroi televisivi riconoscono la propria esistenza e definiscono la propria identità a partire da quel medesimo sguardo, che è ben diverso da quello di cui si fa quotidiana esperienza quando si è televisivamente invisibili e dunque mediaticamente inesistenti.
L'inesistenza e l'invisibilità dei non-personaggi televisivi investono in
modo drammatico anche la loro dimensione corporea, che diventa inconsistente
fino alla vera e propria smaterializzazione. Si pensi, ad esempio, alla
bassissima percezione che le persone hanno della presenza altrui in situazioni
sociali quali luoghi chiusi (autobus, negozi, cinema, centri commerciali etc.)
ovvero aperti (strade, traffico cittadino etc.), a meno
che la presenza degli altri non diventi fonte di frustrazione e/o
di fastidio: essa stimola allora una risposta emotiva, di solito
di natura aggressiva, che, tradotta in parole, potrebbe suonare
così: "mi intralci... mi dai fastidio... levati di mezzo!". Mi viene
in mente, a questo proposito, l'efficacissima espressione di una
giovane paziente, che si rivolgeva alle persone a lei moleste,
dicendo: "Sopprimiti!".
A proposito della natura cordiale o aggressiva del nostro modo di stare in relazione con gli altri, una vignetta di Ellekappa pubblicata il 22 settembre 2009 sul giornale La Repubblica ne è un divertente esempio. A commento delle divergenze di opinione intercorse tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e della negazione, da parte del primo, di qualsiasi dissidio con l'altro, la vignetta ne sintetizzava così la storia: Due uomini parlano tra di loro della disputa Fini-Berlusconi. Il primo, rivolto al secondo, dice: "Al termine del faccia a faccia con Fini, pollice alzato di Berlusconi"; il secondo risponde al primo: "O forse era il medio?". Per quanto riguarda il "contratto sociale" che regola i rapporti interpersonali, un tempo le norme di buona educazione prescrivevano di mantenere sempre una distanza di rispetto tra sé e gli altri. Nel caso essa fosse venuta meno per qualsiasi motivo, il bon ton esortava a scusarsi per l'indebita invasione dello spazio altrui, ripristinando così la giusta misura relazionale. In un'epoca come la nostra, nella quale ben poco si sa e si ricorda delle norme di buona educazione, è interessante notare come il concetto di distanza di rispetto sia ormai sparito dal bon ton sociale, salvo ritrovarlo, sotto altra forma, in ambiti lontanissimi come, ad esempio, i corsi, sempre più richiesti e frequentati, di autodifesa personale. Una delle prime regole che viene insegnata è quella di mantenere o di ripristinare sempre la distanza di sicurezza tra noi e gli altri; una maggiore vicinanza è consentita soltanto a una persona amica o a un partner amoroso. Mi verrebbe da dire che le regole che un tempo definivano i rapporti umani "in tempo di pace" sembrano ora definire soprattutto i rapporti umani "in tempo di guerra". Un'altra norma di buona educazione, ormai totalmente scomparsa, prescriveva di non fissare le persone, di non guardarè nessuno con insistenza; se poi qualcuno davanti a noi fosse incorso in qualche problema imbarazzante come inciampare, scivolare etc., si doveva offrire il proprio aiuto al malcapitato senza sottolineare in alcun modo l'accaduto e, soprattutto, senza ridere! Anche questa norma rientrava tra quelle che regolavano i rapporti sociali, un codice di rispetto cui ci si aspettava che più o meno tutti si attenessero — e chi non lo faceva si qualificava da solo/a come un/una maleducato/a, una persona socialmente incompetente. Un pallido ricordo, probabilmente del tutto inconsapevole, della giusta distanza sociale si ritrova oggi nell'uso della "linea gialla", ovvero della "distanza di cortesia" richiesta nei luoghi pubblici: una linea di rispetto dello spazio privato altrui che demarca, appunto, il limite del comportamento cortese rispetto a quello scortese. | << | < | > | >> |Pagina 17Se mi sono soffermata su questi aspetti della cultura dello sguardo, se ho voluto esplicitare alcune delle zone d'ombra, delle paure, delle violenze e delle ambiguità che la caratterizzano, l'ho fatto per rendere evidente quanto attraverso la televisione sia privilegiato soprattutto il rapporto della coscienza con le immagini esterne: un rapporto che la psicologia junghiana definirebbe di tipo estroverso, intendendo con ciò "il volgersi della libido" verso l'esterno". Per Jung l'estroversione è:[...] un movimento positivo dell'interesse soggettivo verso l'oggetto. Colui che si trova in uno stato di estroversione pensa, sente e agisce in relazione all'oggetto e ciò in una forma diretta e chiaramente percepibile all'esterno, così che non può sussistere alcun dubbio sul suo atteggiamento positivo nei riguardi dell'oggetto. L'estroversione è in un certo qual modo un trasferimento dell'interesse dal soggetto verso l'esterno, all'oggetto. [...] Nello stato di estroversione esiste una forte dipendenza, anche se non di carattere esclusivo, dall'oggetto.[...] Quando lo stato di estroversione è abituale, abbiamo il tipo estroverso. Di segno opposto è invece l'atteggiamento introverso, quello nel quale il soggetto privilegia il rapporto con le immagini interne: [Nell'introversione] l'interesse non si muove verso l'oggetto, ma ripiega da esso sul soggetto. Chi è atteggiato nel senso dell'introversione pensa, sente e agisce in maniera tale da lasciare intendere chiaramente che la sua determinante principale è il soggetto, mentre all'oggetto compete tutt'al più un valore secondario. [...] Quando l'introversione è abituale, si parla di tipo introverso. Estroversione-introversione, oggetto-soggetto, immagini esterne-immagini interne: ma che cosa sono le immagini interne? Da sempre gli psicologi del profondo, in generale, e gli psicologi analisti junghiani, in particolare, hanno rivolto la propria attenzione a questo genere di immagini, al ricchissimo mondo che la psiche inconscia produce e mette in scena senza sosta sul palcoscenico della mente. Spesso di questo mondo si ignora (o si svaluta) l'esistenza e la portata, a meno che le immagini interne non si impongano alla coscienza in modo del tutto autonomo, come avviene negli incubi, nelle ossessioni, nelle manie etc., ovvero in forme più piacevoli, come, ad esempio, nella passione amorosa, nell'intuizione artistica, nella creatività etc. Ancora oggi capita che, malgrado i fiumi di letteratura psicoanalitica e le più avanzate evidenze neuroscientifiche, la viva realtà del mondo interno venga messa in dubbio: eppure le immagini profonde svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione e nel mantenimento dell'equilibrio psicofisico personale e collettivo, nella realizzazione di sé e del Sé, della costruzione nella personalità totale. A proposito della realtà delle immagini interne, vorrei raccontare un fatto. Nell'ottobre del 2009, durante la presentazione di un libro che aveva come oggetto il racconto di alcune esperienze deliranti dell'autrice, tra il pubblico ci fu chi chiese, in perfetta buonafede, se l'"inconscio" esistesse davvero e che cosa fosse un delirio. Oggi nessuno oserebbe più mettere in dubbio l'esistenza dell'"inconscio" né tanto meno la fondamentale unitarietà della mente e del corpo: Allan M. Schore sostiene, ad esempio, che "il sistema interno all'emisfero destro rappresenterebbe il substrato biologico dell'inconscio dinamico di Freud", mentre la nuova unità di osservazione è ormai da considerare a tutti gli effetti quella del "cervello-mente-corpo". Dal canto suo, uno dei presentatori rispose che il delirio rappresentava "una maglia aperta sull'infinito", un modo per superare i rigidi confini delle abituali concettualizzazioni filosofiche. Se, da un certo punto di vista, questa ultima affermazione può essere vera – non c'è dubbio che il delirio renda visibile l'autonomia della psiche inconscia e dunque sveli ciò che si situa oltre i (troppo rigidi o lassi) confini della coscienza – non si può negare che nel delirio il superamento della soglia cosciente avvenga in modo molto drammatico e pericoloso per l'Io, esponendo la personalità al concreto rischio di un non-ritorno psichico, ovvero di una psicosi.
Sicuramente per superare gli schemi abituali della coscienza,
in una forma che sia evolutiva e creativa per la personalità e
non regressiva e distruttiva come nel delirio, esistono altre vie,
meno traumatiche e rischiose: nella psicologia junghiana una
di queste è rappresentata senz'altro dal metodo dell'immaginazione attiva.
A proposito della differenza che intercorre tra un'esperienza psichica distruttiva e una creativa, Jung scrive: Il processo creativo, per quanto possiamo seguirlo, consiste in un'animazione inconscia dell'archetipo, nel suo sviluppo e nella sua formazione fino alla realizzazione dell'opera compiuta. Il dare forma all'immagine primordiale è in certo modo tradurla nel linguaggio presente, ed è per mezzo di questa traduzione che ognuno può ritrovare l'accesso alle fonti più profonde della vita, accesso che fino a quel momento gli era stato interdetto. In questo sta l'importanza sociale dell'arte: essa lavora continuamente all'educazione dello spirito di ogni epoca, facendo affiorare le forme che più gli difettano. [...] Colui che parla con immagini primordiali è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il proprio destino personale a destino dell'umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici che sempre hanno reso possibile all'umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe. Ciò che differenzia l'esperienza delirante da quella creativa è dunque la capacità del singolo di tradurre "le immagini primordiali nel linguaggio presente". Sebbene il potere inconscio caratterizzi le produzioni sia distruttive che creative, soltanto nel secondo caso la coscienza è capace di dare al materiale archetipico una forma simbolica riconoscibile e valida per tutti, utilizzando uno strumento espressivo di altissima qualità formale quale, ad esempio, la scrittura. Il metodo jupghiano dell'immaginazione attiva e l'oggettivazione dei dialoghi immaginali in forma di scrittura consentono tutto ciò in modo visibile e misurabile. L'immaginazione attiva: di questo fondamentale metodo della psicologia analitica per moltissimo tempo si è parlato e scritto poco e poco è stato insegnato anche agli analisti junghiani in formazione, almeno in Italia. Nel novembre 2010 la pubblicazione del Libro rosso di Jung ha prepotentemente riportato l'attenzione su questa metodica e su un'innegabile evidenza: nel processo d'individuazione, nella realizzazione della personalità totale, l'immaginazione attiva svolge un ruolo imprescindibile. Questo libro si pone l'obiettivo di illustrare la pratica dell'immaginazione attiva junghiana, quale strumento di benessere psicofisico, di equilibrio psicodinamico e di realizzazione della personalità totale: un metodo introspettivo di confronto con l'inconscio che permette di ottenere informazioni dirette su tutto ciò che desideriamo conoscere dal punto di vista della psiche totale. | << | < | > | >> |Pagina 147Falliamo e falliamo [...] per avere il tempo di vivere. (Da un'immaginazione attiva) In Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello Antonio R. Damasio , dopo avere illustrato quale forma stia prendendo il concetto di natura umana sotto l'influsso della moderna biologia, fa delle importanti riflessioni su come sia possibile vivere una vita appagata, malgrado la fondamentale "dimensione tragica" che caratterizza l'esistenza umana. Scrive Damasio: È la combinazione dei due doni — coscienza e memoria — insieme alla generosità con cui ci sono stati elargiti, a tradursi nel dramma umano conferendogli uno status tragico nel passato come nel presente. Per fortuna, quegli stessi doni sono anche fonte di una gioia senza limiti, vero e proprio splendore umano. Condurre una vita consapevole e riflessiva non è solo una maledizione, ma anche un privilegio. Considerato da questa prospettiva, qualsiasi progetto in grado di tramutare una vita di consapevole riflessione in una vita appagata — deve contemplare in primo luogo il modo di resistere all'angoscia evocata dalla sofferenza e dalla morte e, in secondo luogo, quello di cancellarla e di sostituirla con la gioia. La neurobiologia dell'emozione e del sentimento ci spiega, in termini suggestivi, che la gioia e le sue varianti sono preferibili al dolore e agli affetti simili, e sono inoltre più favorevoli alla salute e allo sviluppo creativo del nostro essere. Dovremmo dunque cercare la gioia, per decisione ragionata, e senza preoccuparci di quanto stupida e poco realistica possa sembrare questa ricerca. Se, pur non vivendo in condizioni di oppressione o di miseria estreme, non riusciamo a convincerci di quanto siamo fortunati a essere al mondo, forse non ci stiamo impegnando abbastanza. Le nuove ricerche sulla mente umana, se da un lato ci rivelano che "la natura è ancor più crudele e indifferente di quanto pensassimo in precedenza" e dunque di fronte alla presa di coscienza della sofferenza e della morte ci espone a una "disregolazione emotiva", dall'altra ci rendono consapevoli di una verità incontrovertibile: "conoscere le emozioni, i sentimenti e i loro meccanismi è effettivamente importante ai fini del nostro modo di vivere". In che senso? Damasio, seguendo il pensiero di Spinoza e di James, sostiene che: Possiamo cercare di trovare il modo di contrastare quella che apparentemente è crudeltà e indifferenza. La natura non ha un piano per promuovere la piena espressione degli esseri umani: questi ultimi, d'altra parte, possono mettere a punto quel piano. Un atteggiamento combattivo, forse ancor più della nobile illusione della beatitudine nutrita da Spinoza, sembra prometterci che non ci sentiremo mai soli finché il nostro interesse sarà concentrato sul benssere altrui. [...] Io credo che le nuove conoscenze possano cambiare lo scenario in cui l'umanità sta giocando la sua partita. Ed è proprio per questo, tutto considerato, che in mezzo a molto dolore e a un poco di gioia possiamo comunque conservare la speranza: un affetto per il quale Spinoza, nella sua audacia, non aveva la considerazione che noi comuni mortali dovremmo avere.
Dunque la conoscenza di ciò che siamo costitutivamente, il
confronto con le angosce della nostra condizione umana e lo
sviluppo della possibilità non solo di poterle padroneggiare ma
di dare loro una risposta creativa, è la via più adattiva in termini
evolutivi. Ciò che la psicologia del profondo ha scoperto e teorizzato grazie
all'eccezionale capacità intuitiva dei suoi padri
fondatori, oggi è dimostrato dalle neuroscienze.
Ma c'è di più. Abbiamo strumenti clinici che ci danno la possibilità di collaborare alla realizzazione pratica di quel "piano" di benesssere individuale e sociale, sapendo che l'uno non si costruisce senza l'altro e viceversa. La strada da percorrere è il superamento dell'illusione individualistica e la costruzione consapevole di una "buona vita" per ognuno e per tutti. Un altro aspetto fondamentale nella costruzione del bene comune è la consapevolezza, sia individuale che sociale, che nella nostra mente esiste una dimensione inconscia, misteriosa, la quale gioca un ruolo preminente nell'esistenza umana. Mi viene in mente a questo proposito ciò che Edgar Morin , "il Diderot del Novecento", dichiarò in un'intervista concessa alla soglia dei suoi novant'anni: Se fossi guidato solo dal lume della ragione, dovrei dire che il mondo va verso la catastrofe, che siamo sull'orlo dell'abisso. Tutti gli elementi che abbiamo sotto gli occhi ci prospettano scenari apocalittici. Ma nella storia dell'umanità esiste l'imprevisto, quel fatto inatteso che cambia il corso delle cose. Ecco perché, in fondo, sono ottimista. Nel campo della psicologia analitica, il metodo dell'immaginazione attiva serve a dare spazio all'"inatteso": sviluppando la consapevolezza della complessità delle relazioni tra mente conscia e inconscia, facendo parlare i diversi aspetti psichici che vivono dentro di noi, confrontandoci con loro nel bene e nel male, prendendo posizione. Pensando alla complessità della mente conscia e inconscia, alla dimensione misteriosa dell'esistenza e alle parole per dire tutto questo mi viene in mente il recente romanzo di Sandro Veronesi , XY , che si concentra sugli aspetti misteriosi dell'esistenza, facendo alcune considerazioni sul ruolo ineludibile che le parole hanno nel "dire" l'esperienza del "perturbante": infatti, scrive l'autore, "se esistono le parole per dirlo, è possibile". È il rapporto tra coscienza, mistero e parole che fa affermare a una dei due protagonisti principali del romanzo: [...] è il giorno zero e insomma o si è il viandante che sono sempre stata che accusa il contadino di non sapere niente o si è il contadino che sarò da ora in poi e che gentilmente e continuando a zappare gli risponde sì signore è vero signore io non so niente signore ma quello che si è perso è lei. Se esistono dunque le parole per dire il mistero, la dimensione imprevedibile e inattesa dell'esistenza umana e per stare in rapporto con essa, senza cercare un'illusoria quadratura del cerchio; se noi stessi proviamo a diventare una vivente e paradossale incarnazione della complessità dell'esistenza e delle parole per dirla, allora questo libro sulla pratica dell'immaginazione attiva avrà svelato la sua ragione di essere. Adam Phillips a proposito dei diversi tipi di "vita buona", che la pratica analitica aiuta a realizzare, scrive: La psicoanalisi che mi interessa [...] cerca di fare proprio questo: è prodiga nell'uso di analogie e commistioni, proprio perché il processo della comparazione e del contrasto, della mescolanza e della corrispondenza permette di ottenere rielaborazioni più vive e differenziate. Una prima maniera di intendere la vita come qualcosa che resta sempre impensato – o che va pensato senza fine – coincide con l'idea che essa può essere sempre descritta in modi diversi, da punti di vista differenti. [...] Come forma di conversazione, la psicoanalisi ha valore solo se rende le nostre vite più interessanti, più divertenti, più tristi o più tormentate, ovvero se le trasforma in una cosa qualsiasi che apprezziamo e che vogliamo promuovere; ha valore soprattutto se ci aiuta a trovare cose nuove riguardo a noi stessi che non sapevamo di poter apprezzare. Le nuove virtù sono sorprendentemente rare.
L'immaginazione attiva è un'inesauribile forma di conversazione interiore
che, aiutandoci a trovare "cose nuove" riguardo a noi stessi, offre la
possibilità di rielaborare le nostre vite in modo più vivo e differenziato,
rendendole piene di ciò che "resta sempre impensato", ovvero "va pensato senza
fine".
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