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| << | < | > | >> |IndiceIl liberalismo degli antichi e dei moderni Religione e politica in Alexis de Tocqueville di Paolo Ercolani 7 Un agnostico angosciato: la religione come mezzo e non come fine 7 L'India e l'induismo 15 L'Islam: teoria e prassi dello «scontro di ci viltà» 23 Il cristianesimo: la religione dei moderni 37 Religione e democrazia in America: un matrimonio di convenienza 45 Le due religioni 57 Lo «strano» liberalismo di un mediatore sconf itto 67 Tocqueville e il mondo contemporaneo: fra religione e politica 85 Riferimenti bibliografici 93 Cenni biografici su Alexis de Tocqueville 97 Nota editoriale 103 Capitolo primo La fede e il dubbio: il cristianesimo (e il cattolicesimo) problematici di Tocqueville 105 Fede e dubbio in una lettera a Madame de Swetchine 105 Provvidenza e buon senso in una lettera al filosofo Bouchitté 107 Lettera di Tocqueville a Gobineau (5 settembre 1843) 109 Lettera di Tocqueville a Gobineau (2 ottobre 1843) 112 Lettera di Tocqueville a Gobineau (22 ottobre 1843) 117 Le sette negli Stati Uniti 119 Il clero cattolico in Canada e quello europeo 123 La Chiesa e il potere politico 125 Lettera a Monsignor Daniel, Vescovo di Coutances 130 Discorso sulla libertà di religione 132 Capitolo secondo L'India e l'induismo 139 Note sull'India e l'induismo 139 Note sulla religione e la società indù 141 Note stilate tra il 1841 e il 1843 sulla base dei libri dell'abate Dubois e di Barchou 142 Figure della religione dell'India: guru e brahmani 144 I costumi e la religione degli indiani 146 Idee scientifiche, filosofiche e religiose presso gli indiani 148 Il codice penale, le caste e le cause della potenza della religione induista 151 Capitolo terzo L'Islam 155 Tocqueville e il Corano 155 Note sul Corano (marzo 1838) 156 Note sull'Islam (1839-1840) 166 Perché non si trova sacerdozio presso i musulmani 166 Culto musulmano 168 Giustizia 169 Garanzie musulmane 170 Le origini familiari di Abd el-Kader 170 I turchi erano stati più prudenti... 173 Tocqueville giudica Abd el-Kader 173 Contro la spoliazione delle fondazioni 174 Estratto del Rapporto del 1847 riguardante gli istituti caritatevoli, le scuole e il culto musulmano 178 Feroce critica all'Islam in una lettera a Gobineau 180 Ancora contro l'Islam in una lettera a Richard Milnes 181 Capitolo quarto Scuola, Chiesa e società: la Francia tra reazione e anticlericalismo 183 Crisi della politica e rinascita dello spirito antireligioso 183 La libertà d'insegnamento 206 Articoli che Corcelle mi ha impedito di inserire nel «Commerce» nel 1844 210 La denuncia della guerra scolastica 216 La riconciliazione fra religione e libertà 217 Capitolo quinto Religione e democrazia 221 Spirito di religione e spirito di libertà 221 La religione come istituzione politica 223 Credenze religiose e società politica 226 Le cause principali che rendono potente la religione in America 232 Filosofia e religione 241 La fonte principale delle credenze presso i popoli democratici 247 Come negli Stati Uniti la religione sa servirsi degli istinti democratici 252 Il progresso del cattolicesimo neli Stati Uniti 262 La dottrina dell'«interesse bene inteso» 263 Lo spiritualismo degli americani 266 Credenze religiose e piaceri spirituali 268 L'oggetto delle azioni umane nelle epoche di uguaglianza e di dubbio 273 Capitolo sesto Religione e rivoluzione 1789-1848 277 La Rivoluzione francese e la distruzione del potere religioso 277 La Rivoluzione francese alla stregua di una rivoluzione religiosa 279 L'irreligione dei francesi rivoluzionari 284 La questione romana 293 Discorso sulla questione romana 316 Rabbia e sconfitta in una lettera a Corcelle del 1 ottobre 1849 333 Approfondimenti bibliografici 335 Ringraziamenti 345 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Se conoscete una ricetta per credere in Dio, datemela. [...] Se non basta la volontà per credere, ci vorrà molto tempo perché diventi devoto. Le religioni, volendo estendere il proprio potere al di fuori dell'ambito religioso, rischiano di non essere credute in alcun ambito. Se la religione sembra ripugnare allo spirito del nostro tempo per qualcuno dei suoi aspetti, dall'altra parte essa risponde meravigliosamente a parecchi dei bisogni più pressanti della nostra epoca [...]. Le va riconosciuto, essa può esercitare un'influenza costante ed efficace sulla regolarità dei costumi privati e, con ciò, assicurare con forza, seppur in maniera indiretta, la buona condotta dei pubblici affari [...]. Da questo deriva che i popoli liberi hanno sempre riconosciuto di aver bisogno più di tutti gli altri della fede; sebbene i preti si siano mostrati spesso ostili alla libertà, non dimentichiamo mai che la religione le è necessaria. Alexis de Tocqueville Un agnostico angosciato: la religione come mezzo e non come fine All'interno dell'opera di quella grande personalità umana e culturale che fu Alexis de Tocqueville, l'attenzione per la questione religiosa e il riconoscimento dell'imprescindibile ruolo sociale ricoperto dalla fede e dalla Chiesa, è stata direttamente proporzionale al dubbio lancinante e drammatico rispetto all'effettiva esistenza di un Dio in grado di fornire senso e conforto all'esistenza dell'uomo. Educato fin dalla tenera età secondo i più rigidi precetti della religione cristiana e cattolica, dall'abate giansenista Lesueur, la fede incrollabile di Tocqueville subì un vero e proprio «terremoto» quando questi ebbe la facoltà di allargare i propri orizzonti esplorando la grande biblioteca paterna presso la prefettura di Metz. Qui la lettura di grandi classici del 1700 quali Voltaire, Montesquieu, Buffon, Rousseau, Mably e Raynal minò le certezze del giovane Alexis, fino a instillare in lui il dubbio più radicale e angosciante: egli perse la fede, non soltanto nei confronti della religione adolescenziale, ma di tutte le religioni, all'età di sedici anni, nel 1821, per non ritrovarla mai più. «La mia vita era trascorsa fino a quel momento piena di una fede che non aveva lasciato penetrare il minimo dubbio nella mia anima», confidava Tocqueville a madame Swetchine, trentacinque anni dopo quello choc che minò alla radice le sue certezze, «in quel momento vi entrò il dubbio o, piuttosto, vi si precipitò con una violenza inaudita, non solo il dubbio di questo o di quello, ma il dubbio universale. Provai all'improvviso la sensazione di cui parlano coloro che hanno assistito a un terremoto». Si tratta di quello stesso «dubbio» di cui il filosofo aveva avuto modo di parlare, inserendolo fra le tre prime disgrazie che incombono sulla vita dell'uomo insieme alle «malattie» e alla «morte». In realtà va quantomeno citata una querelle che si è aperta rispetto agli ultimi giorni di vita del grande autore. Sua moglie, infatti, fu pronta a giurare che Tocqueville accettò di ricevere la comunione il 6 aprile del 1859, dieci giorni prima di morire. Mentre Beaumont, che ebbe modo di restare al capezzale dell'amico quasi fino all'ultimo, fu altrettanto sicuro nell'affermare che Tocqueville morì pieno di dubbi, rifiutando anzi più volte la comunione con queste precise parole: «Non mi parlate mai di confessione! Mai e poi mai! Giammai mi si farà mentire a me stesso, inducendomi a delle smancerie di fede quando la fede mi manca. Voglio restare me stesso e non abbassarmi a mentire!». Gli ultimi momenti della vita di ogni uomo rappresentano qualcosa di troppo intimo e riservato per poter aspirare a delle risposte certe. Soltanto Tocqueville ha sempre saputo in cuor suo, specie negli attimi appena precedenti il trapasso, e fatta salva la piena capacità di intendere e di volere, lo stato della propria condizione di fede o incredulità. Non è nostra pretesa in questa sede, né ci sembra così importante, cercare una risposta certa rispetto agli ultimi dieci giorni di una vita che è stata straordinaria e prolifica per svariati decenni. Le testimonianze di Tocqueville medesimo, deducibili dalle sue stesse opere scritte in anni di piena lucidità e assenza di paura rispetto a una morte imminente, parlano di un uomo che, pur oltremodo rispettoso della religione e seriamente convinto del grande ruolo sociale della stessa, tuttavia aveva perso quello che alcuni chiamano il grande dono della fede. Si potrebbe citare la frase inequivocabile contenuta in una lettera a Gobineau: «Non sono per nulla credente», o quella assai più enfatica e letteraria, sempre in una lettera, stavolta a Corcelle: «Se conoscete una ricetta per credere in Dio, datemela [...]. Se non è sufficiente la volontà per credere, ci vorrà molto tempo perché diventi devoto». Del resto, che a partire dalla crisi adolescenziale Tocqueville avesse smesso persino di praticare la religione cui era stato educato da piccolo è un fatto testimoniato dallo stesso abate Lesueur fin dal 1824. All'interno di uno scambio epistolare in cui, di fronte alle manifestazioni di allarme dell'abate, quasi un rimprovero perché Tocqueville non aveva adempiuto al precetto pasquale, il giovane Alexis fece di tutto per evitare un dibattito approfondito sulla fede, che avrebbe rovinato i rapporti con il vecchio precettore, cavandosela con la seguente affermazione: «Io credo, ma non posso più praticare». | << | < | > | >> |Pagina 30Né erano estranee al nostro autore affermazioni ancora più estreme e brutali, per esempio laddove affermava la necessità di «grandi spedizioni» che avessero lo scopo di mostrare tanto agli arabi quanto ai soldati francesi che nessuno poteva fermare l'avanzata francese, spedizioni che andavano concepite con il fine di «distruggere tutto quello che somiglia a un'aggregazione permanente di popolazione o, in altri termini, a una città»; oppure dove faceva riferimento senza alcun turbamento alle «decimazioni» operate nei confronti di molte tribù, per lui giustificate comunque dal fatto che la civiltà europea, contemporaneamente, stava portando in quelle terre un progresso commerciale ed economico di cui, a suo dire, gli stessi indigeni si accorgevano.Toni da sterminatore entusiasta che Tocqueville, da buon cristiano al pari di molti occidentali, si peritava di spiegare facendo ricorso persino al ritratto antropologico degli arabi, i quali, similmente a quanto fanno i popoli semiselvaggi, «onorano sopra ad ogni cosa la potenza e la forza», «tengono poco alla vita degli uomini» e «amano soprattutto la guerra»; quindi è in virtù di tutto questo che, trattando di conseguenza questi popoli, non senza aver fatto uso di perseveranza, abilità e «giustizia» (!), il nostro autore riteneva che presto sarebbe arrivato il tempo in cui elevare sulla costa dell'Africa nientemeno che un «grande monumento alla gloria della nostra patria». Quest'ultima affermazione ci consente di considerare l'altro grande elemento che componeva il giudizio di Tocqueville sull'Islam, al di là delle poco credibili spiegazioni sulla fine della civiltà araba dovuta alla rozzezza e alla violenza della propria cultura in confronto agli alti valori democratici e rispettosi della dignità umana propri del cristianesimo: la questione nazionale. Dietro alle sue articolate analisi dell'Islam, infatti, non prive di un confronto diretto con gli stessi testi sacri, Tocqueville aveva ben chiaro in mente il punto da cui non poteva prescindere assolutamente un politico attivo e parlamentare francese quale lui era: l'interesse nazionale. Da qualche anno la Francia aveva iniziato la campagna di conquista dell'Algeria e già nel 1840 l'autore della Démocratie pensava che ci si trovasse di fronte all'impresa più importante della Francia, dalla quale non si doveva neppure pensare per un attimo di recedere, come spiegava fin dall'esordio del Travail sur l'Algérie: «Non credo che la Francia possa pensare seriamente di abbandonare l'Algeria. L'abbandono che essa potrebbe farne, vorrebbe dire agli occhi del mondo l'annuncio certo della sua decadenza». Erano in gioco gli equilibri europei e il ruolo che la Francia poteva recuperare dopo la disfatta napoleonica, soprattutto tenendo conto della grande espansione inglese, che stava conducendo l'impero britannico a un rilievo di portata mondiale. Tocqueville ne era ben consapevole, tanto da scrivere a Kergorlay, già dieci anni prima, che l'eventuale partenza dei francesi sarebbe stata seguita immediatamente dall'insediamento degli inglesi. Egli non mancava, ancora una volta, di spiegare queste dinamiche facendo ricorso ad argomentazioni di carattere culturale, partendo dal presupposto che quanto stava accadendo (l'espansione europea in Africa e Asia) fosse il naturale risultato che occorre «tutte le volte che vi è contatto, anche attraverso la guerra, tra due razze di cui una è civilizzata e l'altra ignorante, di cui una si innalza e l'altra si abbassa». Tale meccanismo, apparentemente venato di un determinismo storico, portava Tocqueville a dedurre, proprio in virtù della necessità storica di un dominio cristiano su queste terre, che «se noi [francesi] abbandoniamo l'Algeria, il paese passerà direttamente sotto l'impero di una nazione cristiana», in primis l'avversaria Inghilterra. Qui risiedevano il nerbo della politica estera francese e il posto che la Francia poteva ritagliarsi nel mondo; e qui si formava il giudizio netto di Tocqueville rispetto alla necessità per il suo paese di condurre oltremare una politica di colonizzazione conseguente, necessità che aveva teorizzato con convinzione fin dall'ottobre del 1828 e lungo tutta la Monarchia di Luglio in nome della «grandeur nationale»: Se la Francia indietreggiasse di fronte a un'impresa in cui si trova frapposte soltanto le difficoltà naturali del paese e l'opposizione di piccole tribù che lo abitano, darebbe l'impressione, agli occhi del mondo, di piegarsi sotto la propria impotenza e soccombere per mancanza di coraggio. Certamente non è lecito chiudere Tocqueville all'interno della definizione di imperialista tout court, poiché è indubbio che ci troviamo di fronte a un grande studioso e cultore delle arti umanistiche, nonché della libertà, tanto è vero che, nello specifico dell'argomento che stiamo affrontando, si possono rintracciare all'interno della sua produzione delle oscillazioni di cui uno studio equilibrato non può non tenere conto. Vengono in mente i passi in cui l'autore liberale affermava che «si sarebbe nel torto a pensare che le abitudini civili degli arabi li rendono incapaci di piegarsi (se plier) a una vita in comune con noi», o dove addirittura si spinge a profetizzare «un tempo in cui le due razze potranno amalgamarsi», poiché «Dio non lo impedisce», mentre potrebbero impedirlo soltanto le azioni degli uomini; allo stesso modo non mancano passi autocritici, come quelli in cui ammetteva che «noi abbiamo reso la società musulmana molto più miserabile, disordinata, ignorante e barbara di quanto non fosse prima di conoscerci», o dove, ancora nel 1848, subito prima di interrompere definitivamente ogni riferimento all'Algeria, in un intervento alla Camera per votare sul bilancio della missione in quelle terre, criticava la politica del governo affermando che «il culto musulmano è caduto, in seguito a questa soppressione ingiusta e impolitica [si riferisce alle scuole islamiche, soppresse dal dominio francese], in uno stato di miseria che costituisce un'onta non soltanto per noi, ma per la civiltà tutta intera». Affermazioni che hanno condotto un'autrice francese contemporanea, studiosa del contrastato, impari e per molti versi tragico rapporto fra L'Occidente e gli altri, a derubricare Tocqueville dalla schiera dei «partigiani dello sterminio degli arabi», pur all'interno della stessa ricostruzione in cui la studiosa ricorda l'inquietante confessione del nostro autore al colonnello Lamoricière: «Dal momento che abbiamo ammesso questa grande violenza che è la conquista, io credo che non dobbiamo indietreggiare di fronte alle violenze di dettaglio che sono assolutamente necessarie per consolidarla». Una forma di realpolitik, quella di Tocqueville, che lo ha portato più volte a giustificare misure di guerra assai poco convenzionali come il dar fuoco ai raccolti, svuotare i silos, impadronirsi di uomini disarmati, di donne e bambini, nonché a tacere, nel 1846, quando venne alla luce il tragico episodio in cui persero la vita centinaia di arabi, in seguito agli incendi appiccati nel corso di quelle razzie approvate da Tocqueville per le loro «qualità umanitarie». Quale Tocqueville, allora, emerge da un'attenta lettura dei suoi passi sull'Islam? Certamente viene fuori il fautore di una «politica realista», disposto in nome della ragion di stato a giustificare e persino promuovere azioni violente e improntate a un dominio efferato; né manca il difensore di una «politica legale» e di «pratiche umanitarie», tanto che si potrebbero persino avanzare delle letture volte a scovare «due» Tocqueville. Ma non è scegliendo i passi «umanitari» di Tocqueville, per salvare la sua immagine, né facendo riferimento soltanto a quelli «brutali» per dipingerlo come un autore violentemente imperialista, che si rende un servizio all'obiettività scientifica. Né, d'altra parte, può essere sufficiente limitarsi all'atteggiamento compilativo di chi si impegna a descrivere onestamente entrambe le sfaccettature. Perché comunque bisogna tentare di giungere a una conclusione, e quella più rispondente alla complessità del pensiero e dell'opera di Tocqueville ci sembra riscontrabile in chi ha parlato di un autore in cui l'«egoismo nazionale» viene prima di tutto. Che poi è come dire che per comprendere l'insieme dell'opera del grande liberale, bisogna uscire dai confini ristretti dell'autore, per quanto autorevole e monumentale, e rifarsi al contesto storico e ideologico dell'Ottocento, secolo in cui l'imperialismo occidentale ha raggiunto il suo apice, coinvolgendo i grandi pensatori e costringendoli a prendere espressamente posizione, molto spesso utilizzando la propria arte per supportare ideologicamente le imprese coloniali dei rispettivi stati. Entrando in questa ottica, per esempio leggendo uno dei più importanti studi sul fenomeno dell'imperialismo, proprio laddove l'autore si incarica di analizzare «la difesa scientifica dell'imperialismo», ci si accorge che la visione di Tocqueville, che potremmo definire deterministica o naturalistica rispetto all'inevitabile crollo della «razza» o cultura araba nel suo incontrarsi con l'Occidente, assume un senso preciso, proprio perché «l'imperialismo non è altro che questa dottrina della storia naturale considerata dal punto di vista della propria nazione». In questo modo riusciamo a decifrare la «grande complessità e finezza etica e religiosa» che viene costruita per supportare l'impresa storica di una «cristianità imperiale» fornita di una «missione civilizzatrice», in virtù della quale tutti noi occidentali ci sentiamo incaricati dalla Storia e da Dio di «insegnare «le arti del buon governo» e la «dignità del lavoro». Il grande liberale Tocqueville, insomma, monumento del pensiero e della cultura cristiani, non sfuggiva tuttavia, alla luce di questa chiave di lettura che ci sentiamo di proporre, a quella vecchia e consolidata prassi di un Occidente che sembrerebbe avere «un'idea troppo alta di sé» per ammettere che «la forza e l'interesse» sono le ragioni esclusive della sua impresa coloniale. Quello stesso Occidente che, proprio nella campagna di conquista dell'Africa del Nord, giustificava la stessa richiamando il grande livello di civiltà che queste popolazioni avevano vissuto nel corso dell'antichità latina e cristiana, cui era seguito il millennio di «sonno islamico» che sarebbe però finito presto proprio grazie al ritorno degli europei colonizzatori, portatori della rigenerazione. Ed ecco che allora, ancora una volta, emerge quella visione strumentale della religione che già abbiamo avuto modo di sottolineare. Uso strumentale volto a dimostrare la superiorità della cristianità sul mondo islamico e, così facendo, giustificare la conquista delle terre abitate da popolazioni di fedi diverse. Tanto che rischia sempre più di perdere di forza e significato l'affermazione che Tocqueville aveva fatto nella Démocratie, secondo la quale ogni religione vale di più dell'assenza di religione. Il giudizio drastico e sprezzante su queste due importanti religioni (induismo e islamismo), connesso all'uso spesso strumentale della religione cristiana, impongono un bilancio più problematico e travagliato rispetto al rapporto tra politica e religione in Tocqueville. | << | < | > | >> |Pagina 37Il cristianesimo: la religione dei moderniA differenza di quanto abbiamo visto con l'induismo e l'islamismo, Tocqueville non ha dedicato al cristianesimo delle riflessioni specifiche che, seppure sotto forma di note e appunti sparsi, possano essere definite in qualche maniera sistematiche. Questo perché, al di là del suo caso personale di individuo che aveva perduto la fede, era fermamente convinto che il cristianesimo innervasse nel profondo tutte le realtà sociali e culturali del suo tempo e, conseguentemente, ha sparso lungo tutta la sua opera le considerazioni su questa religione e i suoi rapporti con le problematiche e le emergenze della modernità. Alla fine dei conti, si tratta di una vera e propria simbiosi tra cristianesimo e modernità quella che Tocqueville ritiene di evincere dall'osservazione del proprio tempo, senza che sia quindi agevolmente percorribile la strada dell'analisi separata né quella dell'individuazione di quale delle due realtà costituisca la causa o l'effetto. Proprio come Hegel, con le dovute differenze, faceva ricorso allo «spirito», in quanto entità immanente al mondo umano, e al suo seguire la traiettoria del sole da Est a Ovest, per descrivere il processo di evoluzione e sviluppo della storia dell'uomo, storia nella quale l'occidente cristiano rappresenta tanto il momento finale quanto quello in cui la luce della ragione è giunta al suo stadio più alto, allo stesso modo Tocqueville ricorreva alla «provvidenza» per spiegare il processo ineluttabile che stava conducendo all'affermazione della simbiosi fra cristianità e modernità. Tutto ciò che è moderno è cristiano e tutto ciò che è cristiano è moderno per Tocqueville, si potrebbe scrivere parafrasando la nota espressione hegeliana. Altrimenti si può ricorrere direttamente alle parole di Tocqueville, che usava toni e persino espressioni e concetti evidentemente vicini a quelli del grande pensatore tedesco, per esempio laddove individuava la «grande rivoluzione democratica» che stava caratterizzando i suoi tempi, descrivendola come «un fatto provvidenziale» i cui principali caratteri erano dati dal fatto di essere «universale», «duratura», capace di «sottrarsi alla potenza dell'uomo». Fino ad arrivare a un'estensione del concetto che, se operata da Hegel, avrebbe comportato (come del resto è avvenuto) le accuse più radicali di strumentalizzazione dell'uomo a favore di una visione teologica e totalitaria della Storia, mentre nel caso del grande pensatore francese è passata quasi del tutto inosservata. Ci stiamo riferendo a quel passo in cui Tocqueville conclude il proprio ragionamento affermando che questa rivoluzione democratica è spinta da una forza cosmica e provvidenziale tale per cui «tutti gli avvenimenti, così come tutti gli uomini, servono al suo sviluppo»: si tratta in fondo di quella stessa visione strumentale dell'uomo e di interi popoli che è stata imputata allo Hegel che descriveva il «popolo dominatore» come quello che di volta in volta ha concepito il «più alto concetto dello spirito», rispetto al quale i popoli non più capaci di raggiungere certe altezze venivano «messi in disparte». Tornano in questo caso alla mente le considerazioni di Tocqueville sui paesi induisti e islamici, destinati a subire il dominio dell'Occidente cristiano in virtù della degenerazione delle rispettive culture e religioni. Tanto è vero che, per sgombrare il campo da eventuali equivoci, l'autore francese si affretta a precisare, poco oltre sempre nell'introduzione alla Démocratie, che l'«uguaglianza delle condizioni», elemento cardine della rivoluzione cui stava facendo riferimento, si presentava nel suo tempo «presso i cristiani» in una maniera tale che non è mai accaduta in nessun altro tempo e paese, al punto che «voler arrestare la democrazia, sembrerà allora come voler lottare contro Dio stesso».
La democrazia, quindi, intesa come quel sistema caratterizzato
dall'uguaglianza delle condizioni che si affermava presso i popoli cristiani,
rappresentava per Tocqueville
la cifra con cui interpretare il mondo moderno, nella misura in cui si era
sostituita a quella «libertà dei moderni» che
per Constant e Montesquieu era fondata ancora «sulla distinzione degli ordini e
degli stati». Democrazia e modernità procedevano di pari passo tanto nella
sostituzione di valori e pratiche proprie dell'
Ancien Régime
quanto nello spostare inesorabilmente verso Ovest la barra della civiltà
e della libertà.
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