Copertina
Autore Tzvetan Todorov
Titolo Memoria del male, tentazione del bene
SottotitoloInchiesta su un secolo tragico
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [2001], gli elefanti saggi , pag. 402, cop.fle., dim. 120x190x30 mm , Isbn 978-88-11-67823-6
OriginaleMémoire du mal Tentation du bien
EdizioneLaffont, Paris, 2000
TraduttoreRoberto Rossi
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe storia contemporanea
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Indice

Prologo. Fine secolo                     7

        1. IL MALE DEL SECOLO

Le nostre democrazie liberali           15
Totalitarismo: il tipo ideale           24
Scientismo e umanesimo                  31
Nascita della dottrina totalitaria      38
La guerra, verità della vita            45
Ambivalenze totalitarie                 53

Il secolo di Vasilij Grossman           63


        2. IL PARAGONE

Nazismo e comunismo                     93
Differenze                             102
Giudizi                                112

Il secolo di Margarete Buber-Neumann   115


        3. LA CONSERVAZIONE DEL PASSATO

Controllare la memoria                 139
I tre stadi                            146
Testimoni, storza, commemoratori       156
Il giudizio morale                     162
Le grandi narrazioni                   171

Il secolo di David Rousset             179


        4. GLI USI DELLA MEMORIA

Né sacralizzare né banalizzare         193
Al servizio dell'interesse             199
Vocazione della memoria                203

Il secolo di Primo Levi                213


        5. PASSATO PRESENTE

Il «moralmente corretto»               227
Mito e storia                          238
Giustizia e storia                     247

Il secolo di Romain Gary               257


        6. I PERICOLI DELLA DEMOCRAZIA

Le bombe di Hiroshima e Nagasaki       277
Kosovo: il contesto politico           287
L'intervento militare                  303
L'umanitario e il giudiziario          319
Diritto d'ingerenza o dovere
    di assistenza?                     330

Il secolo di Germaine Tillion          349


Epilogo. Inizio secolo                 371

Note                                   381
Indice dei nomi                        395
 

 

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Pagina 7

PROLOGO
FINE SECOLO



Mi ricordo del 10 gennaio 1950: avevo undici anni, e poiché la data rappresentava già una cifra abbastanza tonda, mi domandavo con qualche inquietudine, seduto ai piedi di un albero di Natale che allora si chiamava albero di Capodanno, se avrei raggiunto quella data altrimenti più tonda che è il 10 gennaio 2000. Era talmente lontano, mezzo secolo ancora da attendere! Sarei sicuramente morto prima. Ora ecco che un batter d'occhio più tardi quest'altra data è arrivata, e mi incita, come tutti, a pormi la domanda: che cosa bisogna conservare di questo secolo? Dico proprio secolo, anche se si cambia contemporaneamente di millennio: quest'ultimo non si lascia afferrare, l'altro sì. Il «Times Literary Supplement», periodico letterario londinese, ci sollecita ogni anno a scegliere il «libro dell'anno»; alla fine del 1999 chiedevano anche il «libro del millennio». Ho giudicato la questione così futile che non ho mandato alcuna risposta. Il secolo, invece, produce senso: è la nostra vita più quella dei nostri genitori, tutt'al più dei nostri nonni. Un secolo è il tempo accessibile alla memoria degli individui.

Non sono uno «specialista» del XX secolo, come può esserlo uno storico, un sociologo, un politologo, né voglio diventarlo adesso. I fatti, almeno nelle loro grandi linee, sono noti; oggi, come si dice, li si trova in tutti i buoni manuali. Ma i fatti in sé non rivelano il loro senso, che è ciò che m'interessa. Non vorrei sostituirmi agli storici, che già fanno bene il loro lavoro, ma riflettere sulla storia che essi stanno scrivendo. Il mio sguardo sul secolo è quello non di uno «specialista», ma del testimone interessato, dello scrittore che cerca di capire il proprio tempo. Il mio destino personale determina in parte il punto d'approccio che scelgo, e ciò in duplice modo: per le peripezie della mia esistenza e per la mia professione. In due parole: sono nato in Bulgaria e ho vissuto in questo paese fino al 1963, mentre era sottomesso al regime comunista; da allora abito in Francia. Per un altro lato, il mio lavoro professionale concerne i fatti della cultura, della morale, della politica, e pratico, più particolarmente, la storia delle idee.

La scelta di ciò che vi è stato di più importante nel secolo, di ciò che quindi permette di costruirne il senso, dipende dalla vostra identità. Per un africano, per esempio, l'avvenimento politico decisivo è sicuramente il colonialismo, e poi la decolonizzazione. Anche per un europeo - e qui mi occuperò essenzialmente del XX secolo europeo, facendo solo brevi incursioni negli altri continenti - la scelta è ampiamente aperta. Alcuni direbbero che l'avvenimento maggiore, sulla lunga durata, è ciò che è chiamato la «liberazione delle donne»: la loro entrata nella vita pubblica, la loro presa di controllo della fecondità (la pillola) e, al tempo stesso, l'estensione dei valori tradizionalmente «femminili», quelli del mondo privato, sulla vita dei due sessi. Altri privilegeranno la diminuzione drastica della mortalità infantile, l'allungamento della vita nei paesi occidentali, gli sconvolgimenti demografici. Altri ancora potrebbero pensare che il senso del secolo è deciso dalle grandi conquiste della tecnica: dominio dell'energia atomica, decifrazione del codice genetico, circolazione elettronica dell'informazione, televisione.

Sono d'accordo con gli uni e con gli altri, ma la mia esperienza personale non mi dà nessun chiarimento supplementare su questi temi; essa mi orienta piuttosto verso una scelta diversa. L'avvenimento centrale, per me, è la comparsa di un nuovo male, di un regime politico inedito, il totalitarismo, che, al suo apogeo, ha dominato buona parte del mondo; che oggi è scomparso in Europa, ma per nulla in altri continenti; e i cui strascichi restano presenti fra noi. Vorrei quindi interrogare qui, innanzi tutto, le lezioni dello scontro fra il totalitarismo e il suo nemico, la democrazia.

Presentare il secolo come dominato dalla lotta fra queste due forze implica già una distinzione di valori che non tutti condividono. Il problema deriva dal fatto che l'Europa non ha conosciuto un totalitarismo ma due, il comunismo e il fascismo; che questi due movimenti si sono violentemente opposti, sul terreno dell'ideologia e poi sui campi di battaglia; che ora l'uno ora l'altro si sono visti avvicinare agli stati democratici. I tre raggruppamenti possibili fra questi regimi sono stati tutti praticati una volta o l'altra. In un primo tempo, i comunisti considerano insieme i loro nemici (tutti dei capitalisti!), le democrazie liberali e il fascismo distinguendosi come forma moderata e forma estrema del medesimo male. A metà degli anni Trenta, e più ancora durante la seconda guerra mondiale, la distinzione cambia: democratici e comunisti formano allora un'alleanza antifascista. Infine, qualche anno prima dello scoppio della guerra, e soprattutto dopo la sua fine, è stato proposto di considerare fascismo e comunismo come due sottospecie del medesimo genere, il totalitarismo, parola rivendicata all'inizio dai fascisti italiani. Tornerò più avanti sulle definizioni e sulle delimitazioni; ma è già chiaro, dall'articolazione globale che scelgo, che questa terza distinzione ai miei occhi è la più illuminante.

La scelta dell'avvenimento maggiore restringe sensibilmente il mio tema. Non solo mi limiterà per l'essenziale a un unico continente, il mio, ma il secolo stesso si abbrevia un po': il suo periodo centrale va dal 1917 al 1991, anche se bisognerà risalire indietro e, per altro verso, interrogarsi sul suo ultimissimo decennio. Fatto più importante, mi limito a un solo avvenimento della vita pubblica, lasciando nell'ombra tutti gli altri, come vita privata, arti, scienze o tecniche. Ma la ricerca del senso ha sempre un prezzo: essa procede per scelta e messa in relazione - che avrebbero potuto essere altre. Il senso che credo di intravedere non esclude quello degli altri - vi si aggiunge, nel migliore dei casi.

Il mio punto di partenza, la duplice affermazione secondo cui il totalitarismo è la grande innovazione politica del secolo e che esso è anche un male estremo, comporta già una prima conseguenza: bisogna rinunciare all'idea di un progresso continuo, al quale credevano alcuni grandi spiriti dei secoli passati. Il totalitarismo è una novità, ed è peggio di di ciò che lo precedeva. Ciò non prova affatto che l'umanità segua inesorabilmente una china discendente, ma solo che la direzione della storia non è sottomessa ad alcuna legge semplice né, forse, ad alcuna legge tout court.

Lo scontro fra totalitarismo e democrazia, come quello fra le due varianti totalitarie, comunismo e nazismo, costituisce il primo tema della mia inchiesta. Il secondo ne deriva per il fatto stesso che questi avvenimenti appartengono per l'essenziale al passato e sopravvivono fra noi solo grazie alla memoria. Ora, quest'ultima non è affatto assimilabile a una registrazione meccanica di ciò che accade; essa ha forme e funzioni fra cui è obbligatorio scegliere, la sua istituzione conosce fasi che possono subire perturbazioni specifiche, essa può essere assunta da attori differenti e condurre ad atteggiamenti morali opposti. La memoria è sempre e necessariamente una buona cosa, e l'oblio una maledizione assoluta? Il passato permette di capire meglio il presente o serve il più delle volte a nasconderlo? Le memorie del secolo saranno dunque, a loro volta, sottoposte a esame.

Infine, anche se si tratta innanzitutto di riflettere sul senso di questo avvenimento centrale, mi vedo obbligato a prendere conoscenza anche del passato più immediato, quello posteriore alla caduta del Muro di Berlino, per interrogarlo alla luce degli insegnamenti scaturiti dall'analisi precedente. Una volta vinto il totalitarismo, sarebbe sopravvenuto il regno del bene? O nuovi pericoli incombono sulle nostre democrazie liberali? L'esempio che scelgo qui è tratto dall'attualità recente, poiché si tratta della guerra in Iugoslavia e, più specificamente, degli avvenimenti nel Kosovo. Il passato totalitario, il modo in cui si perpetua nella memoria, infine le luci che getta sul presente formeranno dunque i tre tempi dell'inchiesta che segue.

Ho scelto di mescolare a questa riflessione sul bene e sul male politici del secolo un richiamo di alcuni destini individuali fortemente segnati dal totalitarismo, che tuttavia hanno saputo resistergli. Gli uomini e le donne di cui parlerò non sono del tutto diversi dagli altri. Non sono né eroi né santi, e neppure dei «giusti»; sono individui fallibili, come voi e me. Tuttavia hanno seguito tutti un itinerario drammatico; hanno tutti sofferto nella loro carne, e al tempo stesso hanno cercato di far passare il frutto della loro esperienza nei loro scritti. Costretti a vedere da vicino il male totalitario, si sono mostrati più lucidi della media e, grazie al loro talento come alla loro eloquenza, hanno saputo trasmetterci ciò che avevano imparato, senza tuttavia mai diventare dei perentori distributori di lezioni. Queste persone provengono da paesi diversi, Russia, Germania, Francia, Italia, e tuttavia qualcosa li accomuna. Da un autore all'altro (anche se ci sono sfumature) si ritrova lo stesso sentimento, quello di uno spavento che non conduce alla paralisi; e anche uno stesso pensiero, per il quale trovo una sola etichetta appropriata, quella di umanesimo critico. I ritratti di Vasilij Grossman e di Margarete Buber-Neumann, di David Rousset e di Primo Levi, di Romain Gary e di Germaine Tillion sono lì per aiutarci a non disperare.

Come ci si ricorderà un giorno di questo secolo? Sarà chiamato il secolo di Stalin e di Hitler? Sarebbe accordare ai tiranni un onore che non meritano: è inutile glorificare i malfattori. Gli si darà il nome degli scrittori e dei pensatori che erano da vivi i più influenti, che suscitavano più entusiasmo e controversia, quando a cose fatte ci si accorge che si sono quasi sempre ingannati nelle loro scelte e che hanno indotto in errore i milioni di lettori che li ammiravano? Sarebbe un peccato riprodurre nel presente gli errori del passato. Per parte mia preferirei che si ricordassero, di questo cupo secolo, le figure luminose di alcuni individui dal destino drammatico, dalla lucidità impietosa, che hanno continuato malgrado tutto a credere che l'uomo merita di rimanere lo scopo dell'uomo.

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Differenze

Le parentele fra nazismo e comunismo sono incontestabili e giustificano non solo il paragone fra i due - in quanto legittimo strumento di conoscenza -, ma anche la loro inclusione di specie entro un genere comune, il totalitarismo. Le loro differenze non sono meno significative, e hanno delle ripercussioni sia sull'analisi tipologica dei regimi che sullo studio dei processi storici nel XX secolo.

Si potrebbe accostare la questione delle differenze osservando che le realtà dei due regimi si somigliano ben più che le rappresentazioni che essi scelgono di dare di sé stessi. Fra il programma del partito, così com'è mostrato nei giornali o negli opuscoli di propaganda, e la vita quotidiana dei sudditi di un paese totalitario c'è sempre una distanza; ma essa è molto più grande nel comunismo che nel nazismo. Il programma nazista dice di più la verità del sistema nazista di quanto non la dica il programma comunista del regime comunista. Ma poiché i due regimi si somigliano, è il programma nazista che dice anche la verità del regime comunista. In ciò risiede una prima grande differenza: l'ideologia comunista è ben più lontana dalla realtà di quanto lo sia l'ideologia nazista; essa incita dunque a una maggiore violenza o, a partire da un certo momento della storia, a un lavoro intenso per mascherare l'abisso fra il mondo e le sue rappresentazioni. Il regime sovietico è molto più menzognero, illusorio, teatrale del regime nazista.

Così, confrontando le due ideologie si potrebbe credere che, secondo i termini della propaganda sovietica, i comunisti abbiano optato per la pace, i nazisti per la guerra. In realtà la politica sovietica, al pari di quella dei nazisti, ha come scopo l'espansione imperialistica. A questo riguardo, quindi, l'ideologia nazista descrive il mondo comunista meglio di quanto non lo faccia l'ideologia comunista. Ma il vero è che l'intensità di questa politica non è la stessa qui e là: è Hitler il responsabile dello scoppio della seconda guerra mondiale, anche se la firma del patto con l'URSS lo incoraggia su questa via.

Il comunismo si richiama non solo all'ideale transnazionale della pace, ma anche all'uguaglianza. Ora, la società comunista è lontana dall'essere una società egualitaria: primo perché, come nelle democrazie, alcuni individui sono più ricchi di altri, o hanno più successo, o più influenza; poi e soprattutto, come ho detto, perché questa società genera nel suo seno un sistema di privilegi e di caste che ricorda piuttosto quello dell'Ancien Régime. Margarete Buber-Neu mann, un' osservatrice attenta della realtà sovietica negli anni Trenta, nota con stupore che nei posti di vacanza destinati agli impiegati di un ministero, ci sono almeno cinque categorie di lusso, a seconda del posto che ciascuno occupa nella scala burocratica. Qualche anno più tardi, deportata in un campo, scoprirà che la stratificazione prosegue: quattro regimi alimentari sono destinati alle differenti categorie di detenuti! L'ideologia comunista non esalta apertamente il culto dei superuomini; tuttavia, all'interno del paese, tutto è organizzato perché si veneri i più potenti. Una certa casta, la «nuova classe" - alti dignitari del partito, dell'esercito, della polizia politica - gode di una libertà e di una potenza inaccessibili ai comuni mortali. Allo stesso modo, il culto del vozhd', la guida, è molto più lontano dal programma egualitario di quanto lo sia quello del Fiihrer rispetto agli slogan apertamente gerarchici del regime nazista.

È con questo scarto fra teoria e pratica che, nel regime comunista, si spiega un'altra differenza spesso osservata: i detenuti politici dei campi nazisti sanno perché vi sono rinchiusi, non i deportati politici in URSS, che credevano di essere dei buoni comunisti. Ciò produce la situazione patetica - benché numericamente insignificante - di certi dirigenti comunisti, negli anni Trenta, che chiamano in soccorso Stalin prima di chiedere scusa alla mano che li colpisce: amano il partito nel momento stesso in cui esso li castiga; poiché esso ha sempre ragione, devono condannarsi a morte da sé stessi.

Su un altro piano, è invece il programma comunista che dice la verità del nazismo. Quest'ultimo infatti pretende di restaurare i valori tradizionali, rimettere le persone nel loro quadro naturale, radicare l'individuo nel gruppo; esso vuole essere molto più antimoderno del comunismo. Ora, in pratica, le esigenze della società di massa, la modernizzazione e l'industrializzazione affrancano gli individui dalla loro identità tradizionale e li trasformano in elementi anonimi di una folla. La rivoluzione compiuta dal nazismo non è affatto più conservatrice di quella del comunismo; da qui il conflitto finale, in Germania, fra nazisti e conservatori.

Si dice spesso che il programma nazista è ostile al secolo dei lumi, mentre il comunismo si vanta della loro eredità. Ma questa presentazione semplifica troppo le cose. I «Lumi» non corrispondono a un pensiero unico: essi includono il materialista Helvétius e il suo critico Rousseau, il progetto scientista che vuole sottomettere tutto alla necessità e il programma umanistico che definisce l'uomo con la sua libertà. Il nazismo è tanto scientista quanto il comunismo (adesso sono i nazisti, fra cui Hitler stesso, che devono dissimulare i loro antenati), e gli uni quanto gli altri sono ostili alla tradizione umanistica. Nuovamente, la differenza è più nelle distanze rispettive fra teoria e pratica che fra le due pratiche. In compenso, i riferimenti alla tradizione romantica, alla mistica della terra e dei morti, degli eroi pagani medievali sono lo specifico della sola ideologia nazista, mentre sono assenti dal programma comunista (ma non dallo spirito di certi suoi aderenti).

È vero che fascismo e nazismo si considerano appartenenti alla destra, mentre i comunisti si pretendono di sinistra; ciascuno di questi partiti trova effettivamente appoggi fra gli strati della popolazione che si riconoscono tradizionalmente in questi due grandi orientamenti. Ma bisogna, anche qui, interrogare i fatti che le parole ricoprono. Il contenuto dell'opposizione si è trasformato nel corso dei due ultimi secoli fino a diventare talvolta indiscernibile. Bisogna dire che la sinistra sta dalla parte dei poveri e degli sfruttati, mentre la destra si addice ai ricchi e agli sfruttatori? Si farebbe fatica a trovare una ripartizione così semplice nell'Europa del XX secolo. Innanzitutto perché si è costituita una classe media, maggioritaria in numerosi paesi. Poi, perché anche la destra fa reclute fra i poveri: Hitler gode del sostegno popolare; il Fronte nazionale - per prendere un esempio contemporaneo - aveva conquistato, a un certo punto, il primo posto nel voto operaio. Infine, perché i comunisti al potere sono allo stesso tempo dominatori e «di sinistra».

Non si può più nemmeno dire che la sinistra difende la libertà delle persone, mentre la destra è per il mantenimento dell'ordine, dello stato forte e centralizzato. Infatti, questi termini, che corrispondono alla lotta dei liberali contro gli ultrà, di Constant contro Bonald, all'indomani della rivoluzione francese, non sono più adeguati. Lo stato è divenuto non solo il detentore della violenza legittima, ma anche una fonte di protezione e di benefici per gli individui (uno stato-provvidenza); esso non si oppone più alla libertà degli individui, ma la garantisce. Quanto agli individui, la loro libertà può diventare una fonte di minaccia per quelli che li circondano; restringere tale libertà diventa a sua volta una misura «di sinistra». Infine la sinistra e la destra non si oppongono più come l'autonomia all'eteronomia, come agire in nome della volontà generale del popolo o in nome delle tradizioni: tutti i partiti democratici si richiamano oggi alla sovranità del popolo e al suffragio universale, e differiscono solo nelle dosi di conservatorismo e di riformismo, che dipendono spesso dal fatto che questi partiti si trovano al potere o all'opposizione, piuttosto che a considerazioni propriamente programmatiche.

Ciò non vuole dire che l'opposizione sinistra-destra abbia perso ogni senso, ma solo che questo senso è relativo e mutevole. Le opposizioni fra riformismo e conservatorismo, uguaglianza e gerarchia, libertà e autorità esistono in tutte le società democratiche, e non c'è alcuna ragione perché scompaiano, poiché sono compatibili con i postulati di base di queste società; peraltro, ciascuno di questi termini corrisponde a un aspetto della condizione umana e può venire eretto a ideale. I principi di autonomia individuale e di autonomia collettiva, di libertà e di uguaglianza possono anch'essi, come s'è visto, entrare in contraddizione.

La sinistra e la destra politiche, che si appropriano successivamente o simultaneamente di queste opposizioni, e di altre simili, hanno dunque dei bei giorni davanti a loro: questo grande antagonismo continuerà a strutturare la vita politica all'interno di ciascun paese. La sua ragion d'essere non è l'abisso ideologico che separerebbe i due termini (esso non esiste), ma la necessità di un'alternanza per mantenere in vita il principio pluralista - per offrire a ogni cittadino una scelta. Il consenso non basta infatti per assicurare una vita politica in democrazia. Bisogna che in più, nel suo seno, l'individuo possa scegliere fra due equilibri differenti di ingredienti democratici, e anche fra due gruppi di persone dagli stili diversi. Così facendo, questo individuo si conforma - senza saperlo - a una vecchissima regola delle società umane che organizza la rivalità nel loro seno, permettendo così di canalizzare in strutture comuni le ambizioni e i risentimenti personali.

Tuttavia, per quanto importante sia l'opposizione sinistra-destra nella vita politica interna di una democrazia, essa appare ai nostri occhi come subordinata a un'altra, che ha svolto un ruolo strutturante nella storia del continente europeo nel XX secolo e nelle coscienze individuali. È appunto quella del totalitarismo e della democrazia, che ci obbliga a mettere da una parte il blocco degli estremi, che siano di destra o di sinistra, e dall'altra quello dei regimi moderati, che a loro volta possono essere governati da una sinistra o da una destra «parlamentari», come diciamo in questi casi. Ciò non impedisce che i due estremi si attacchino, verbalmente e anche fisicamente (combattono per il medesimo posto); né che i due gruppi «moderati» rivaleggino.

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Giudizi

Che giudizi possiamo dare sulle due varianti del totalitarismo? Bisognerebbe dapprima distinguere fra i regimi e i loro protagonisti. Per quanto riguarda i primi, sottoscrivo una conclusione che altri hanno già formulato: sono ugualmente detestabili. Le loro vittime dirette si contano, in ciascuno dei due casi, a milioni, e ci sarebbe qualcosa di indecente nel volere attribuire, da questo punto di vista, un primato. La sofferenza di un individuo chiuso in un campo di concentramento, che subisce la fame, il freddo, i parassiti, le violenze, è atroce. Poco importa che il campo sia tedesco o sovietico: gli uomini non soffrono in un'infinità di modi diversi. Lo sterminio diretto praticato dai nazisti non ha un vero equivalente dalla parte sovietica, ma provocare con la fame la morte di milioni di persone, nello spazio di un anno, è a sua volta un atto orribile.

Questa condanna globale deve essere declinata, beninteso, a seconda dei contesti specifici. È chiaro, per esempio, che la dittatura nazista ha provocato in Polonia distruzioni umane assai maggiori della dittatura comunista; ma in Bulgaria, per prendere un altro esempio, la ripartizione è da rovesciare. Ricordo, per darne un'idea, che durante tutta la guerra, dal 1939 al 1944, periodo della repressione più severa da parte filofascista, si contano 357 esecuzioni; durante il solo anno 1944-45, all'indomani dell'entrata della Bulgaria nell'orbita sovietica, il numero di persone uccise dal nuovo potere ammonta a 2700 persone.

Se ci si pone in una prospettiva storica, il comunismo occupa il posto centrale: dura molto più a lungo, incominciando più presto e spegnendosi più tardi; si estende su tutti i continenti della terra, e non solo sull'Europa centrale; provoca un numero di vittime ancora più grande. Nell'ottica del presente, la sua condanna è ugualmente di maggiore attualità: la mistificazione che opera è più potente, più seducente, smascherarlo è più urgente. Ora, uno squilibrio evidente caratterizza i giudizi ufficiali sui due regimi: lasciati da parte alcuni marginali, quello dei nazisti è unanimemente stigmatizzato, mentre il comunismo gode ancora di una buona reputazione in cerchie ben più vaste (così, in Francia, la sua variante «trockijsta»). L'antifascismo è di rigore, l'anticomunismo rimane sospetto. In Francia o in Germania oggi il «negazionismo» è un delitto punito dalla legge; la negazione dei crimini comunisti, addirittura l'elogio dell'ideologia che li ha avallati, è perfettamente lecita.

A ragione delle circostanze della fine del comunismo una «morte naturale» più che una disfatta militare -, i dirigenti comunisti non sono mai stati giudicati, nessuno di loro ha chiesto perdono, le loro innumerevoli vittime non hanno ricevuto il minimo risarcimento. Sarebbe augurabile che la bilancia venisse raddrizzata, almeno sul piano simbolico e ideologico, non per nascondere o sminuire gli orrori imputabili al nazismo, ma per ricordarsi anche di quelli del comunismo, non meno vicini a noi.

Se poi si considerano i protagonisti, nazisti o comunisti, nuove distinzioni s'impongono per sapere, innanzi tutto, se sono stati al potere o all'opposizione, poi se si tratta di quadri dirigenti o di militanti di base. Nei paesi in cui erano al potere, la condanna non sarà la stessa a seconda che essa concerna coloro che decidevano o coloro che eseguivano; questi ultimi, molto spesso, sono dei conformisti e dei carrieristi, per nulla diversi dalla grande massa della popolazione in democrazia, ma che si sono trovati trascinati dal regime in carica nella tormenta totalitaria.

Nei paesi in cui i comunisti sono rimasti sempre all'opposizione (la questione non concerne i nazisti), non c'è motivo di parlare di crimini e si è persino tentati di guardare con simpatia lo slancio che porta i semplici militanti a volere aiutare i più sfavoriti e a lottare per una maggiore giustizia sociale, per la libertà o per la pace. Bisogna aggiungere, tuttavia, che un simile ideale non ha nulla di specificamente comunista, ma è condiviso da altri movimenti sociali o religiosi. Ciò che caratterizza il comunismo non è l'ideale di armonia finale, ma la via scelta per raggiungerla: sottomissione delle scelte personali a quelle del partito, esclusione di una parte della popolazione (le classi nemiche), presa di potere rivoluzionaria e dittatura del proletariato, abolizione della proprietà privata come delle libertà individuali. È anche l'elogio incondizionato dell'Unione Sovietica o di altri stati comunisti, divenuti l'incarnazione della giustizia, della pace e del benessere. Comportarsi come se queste scelte non facessero parte integrante del programma comunista deriva o dalla dissimulazione o dall'ignoranza deliberata.

Resta il fatto che, essendo grande nel caso del comunismo la parte di mistificazione, sono abbastanza frequenti le situazioni in cui dei vecchi comunisti diventano feroci anticomunisti; il caso è meno frequente fra i nazisti, il cui programma descrive relativamente bene la pratica - la loro, come spesso anche quella dei regimi comunisti. Per questa ragione, i vecchi comunisti beneficeranno sempre, e a giusto titolo, di un capitale di simpatia che sarà rifiutato ai vecchi nazisti.

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Pagina 171

Le grandi narrazioni

Tali sono i nostri criteri. Ma a che cosa li applicheremo? I fatti che costituiscono il passato non ci arrivano allo stato bruto; si presentano sotto forma di narrazioni.

La narrazione storica di un atto che non è moralmente neutro può andare nel senso del bene o del male; e concerne almeno due protagonisti, l'agente e il paziente. Ciò permette di distinguere, in ogni narrazione storica che implica una considerazione di valore, quattro ruoli principali: posso essere stato il benefattore, o il beneficiario di questo atto, così come il malfattore o la sua vittima. A prima vista, solo due di questi ruoli sono chiaramente marcati sul piano dei valori il benefattore e il malfattore -, mentre gli altri due restano neutri perché passivi, il beneficiario e la vittima. In realtà, questi due ultimi ruoli sono, per la forza della loro relazione con i due primi, connotati moralmente: essere beneficiario di un atto è una situazione ben meno gloriosa che esserne l'agente, perché segna il momento della nostra impotenza; essere vittima di un misfatto è evidentemente più rispettabile che esserne il responsabile. Riconosciamo qui i due grandi tipi di costruzione storica: la narrazione eroica, che canta il trionfo dei nostri; e la narrazione «vittimaria» (se si può usare questo termine), che dei nostri racconta la sofferenza.

Ci si potrebbe stupire di vedere figurare qui le vittime a fianco degli eroi - che tutti ammirano. Che cosa ci sarebbe di gradevole nel fatto di essere vittima? Nulla, sicuramente. Ma se nessuno vuole essere una vittima, numerosi invece sono quelli che vogliono esserlo stato, senza più esserlo: essi aspirano allo statuto di vittima. La vita privata conosce bene questo scenario: un membro della famiglia si impadronisce del ruolo di vittima perché, così, può attribuire a quelli che lo circondano il ruolo assai meno invidiabile del colpevole. Essere stato vittima vi dà il diritto di lamentarvi, di protestare e di reclamare; anziché rompere ogni legame con voi, gli altri sono obbligati a rispondere alle vostre domande. È più vantaggioso restare nel ruolo di vittima che ricevere una riparazione per l'offesa subita (supponendo che tale offesa sia reale); al posto di una soddisfazione puntuale, si mantiene un privilegio permanente: l'attenzione e dunque la riconoscenza degli altri vi sono costantemente garantite. La potenza della narrazione vittimaria è illustrata, a tutt'altro livello, dalla storia della passione di Cristo, pietra angolare della religione cristiana.

Ciò che è vero degli individui lo è ancora di più dei gruppi. Se si arriva a stabilire in modo convincente che il tale gruppo è stato vittima di un'ingiustizia nel passato, questo gli apre nel presente un credito inesauribile. Se la società riconosce che i gruppi, e non solo gli individui, hanno dei diritti, tanto vale approfittarne; ora, più grande è stata l'offesa nel passato, più grandi saranno i diritti nel presente. Anziché dover lottare per ottenere un privilegio, lo si riceve d'ufficio, per la sola appartenenza al gruppo un tempo sfavorito. Di qui la competizione accanita per ottenere non, come fra paesi, la clausola della nazione favorita, ma quella del gruppo più sfavorito.

Gli afro-americani forniscono un esempio eloquente di tale condotta. Vittime incontestabili dello schiavismo come della discriminazione razziale, condannando risolutamente queste ingiustizie, non desiderano affatto, in compenso, abbandonare il ruolo dell'ex vittima, che assicura loro un privilegio morale e politico durevole. È ciò che ha capito Louis Farrakhan, capo della «Nazione d'Islam»: «Che cosa sono sei milioni di ebrei morti, del resto, fuori dell'America?» afferma. «L'olocausto del popolo nero è stato cento volte peggiore dell'olocausto degli ebrei». A vittima, vittima e mezza; è ciò che Jean-Michel Chaumont ha potuto chiamare la «concorrenza delle vittime». È una politica augurabile? Ai nostri giorni, voci convincenti affermano che una parte non trascurabile degli insuccessi degli afro-americani proviene non solo dalle discriminazioni di cui soffrono nel presente, ma anche dalla loro incapacità di superare il passato traumatizzante, quello dello schiavismo e delle sue estorsioni; e dalla tentazione che ne consegue, come ha scritto Shelby Steele, di «sfruttare queste passato di sofferenze come una fonte di poteri e di privilegi».

È importante osservare che le gratificazioni ottenute dallo statuto di vittima non hanno alcun bisogno di essere materiali. Il debito è simbolico, e al suo fianco i vantaggi materiali sono derisori. I benefici ottenuti dal membro del gruppo che ha acquisito lo statuto di vittima sono di tutt'altra natura, come ha ben visto Alain Finkielkraut: «Altri avevano sofferto, e io perché ero loro discendente ne raccoglievo tutto il beneficio morale. [...] Il lignaggio faceva di me il concessionario del genocidio, il suo testimone e quasi la sua vittima. [...] Paragonato a una simile investitura, ogni altro titolo mi sembrava miserabile o derisorio».

Due di questi ruoli sono dunque favorevoli al soggetto, quelli dell'eroe benefattore e della vittima innocente, e due gli sono sfavorevoli, quelli del malfattore e del beneficiario passivo. Se, durante l'evocazione del passato del nostro gruppo, lo identifichiamo con le figure positive, ci gratifichiamo direttamente attribuendoci la bella figura; lo stesso accade se, parallelamente, collochiamo gli altri nel ruolo del beneficiario impotente dell'azione eroica o in quello del malfattore. Questa descrizione, tanto rituale quanto gradevole, non produce evidentemente alcun beneficio morale per colui che la enuncia.

Si sa che la storia è sempre stata scritta dai vincitori, perché il diritto di scrivere la storia era uno dei privilegi che vi concedeva la vittoria. Nel corso del nostro secolo è stato spesso chiesto che al posto o almeno a fianco di questa storia dei vincitori figuri anche quella delle vittime, dei sottomessi, dei vinti. Questa esigenza è più che legittima sul piano strettamente storico, perché ci invita a conoscere dei pezzi interi del passato prima ignorati. Ma, sul piano etico, dichiararci vittime non ci conferisce nessun merito supplementare. Che ci riconosciamo negli eroi o nelle vittime, negli aviatori che terminano la seconda guerra mondiale o nella popolazione passiva che subisce l'inferno dell'annientamento atomico, noi siamo sempre dalla parte degli «innocenti» e dei «buoni».

La sola opportunità che abbiamo di progredire sulla scala della morale consisterebbe nel riconoscere e nel combattere il male in noi stessi. Ricordare il fatto che «i miei» hanno potuto, a loro volta, essere agenti del male o destinatari passivi dell'impresa eroica degli altri, vedere in questi altri vittime o benefattori, ora non porta all'individuo nessun beneficio diretto; è solo in questo modo, tuttavia, che gli diventa possibile impegnarsi in un esame critico della propria identità collettiva, mettere la felicità altrui e la perfezione personale al di sopra dei propri interessi, e impegnarsi dunque in un'azione morale. Ricordarsi delle pagine del passato in cui il nostro gruppo non è né puro eroe né, del resto, pura vittima sarebbe, per gli autori di queste narrazioni storiche, un atto di valore morale superiore. Non c'è beneficio morale possibile per il soggetto se la sua evocazione del passato consiste nel fare bella figura, ma solo se, al contrario, essa gli fa prendere coscienza delle debolezze o degli errori del suo gruppo. La morale è disinteressata o non è tale.

La mia classificazione dei ruoli e dei loro effetti morali rischia di sembrare troppo astratta; prendiamo quindi alcuni esempi per vedere se è vero che ci si procura piacere collocandosi sia nel ruolo dell'eroe, sia in quello della vittima. Il 9 maggio 1945 è per i russi della seconda metà del secolo il giorno della vittoria finale sul nazifascismo, la fine di una guerra che è costata al paese più di venticinque milioni di morti; è dunque alla commemorazione del loro ruolo eroico che gli uomini russi si dedicano più volentieri. Ma, per i popoli dell'Europa dell'Est, questa data simboleggia la loro entrata sotto le grinfie sovietiche, essa annuncia una nuova schiavitù e non una liberazione.

Il passato è fatto di avvenimenti molteplici, dal significato indeterminato; sono i protagonisti presenti che decidono di dotare quegli avvenimenti di un valore indiscutibile. Lo stesso 8 maggio 1945 è per i francesi un giorno di orgoglio nazionale, perché i generali francesi partecipano, a fianco dei loro colleghi americani, inglesi e russi, alla firma della capitolazione tedesca. Non piace ricordare, in compenso, che questa data è anche quella dell'anniversario dei massacri di Sétif in Algeria. La popolazione algerina aveva creduto ingenuamente che, come i francesi si erano liberati dei tedeschi, così gli algerini potevano, a loro volta, liberarsi dei francesi. Questi, al contrario, a seguito della seconda guerra mondiale, cominciavano a nutrire alcuni dubbi sul loro ruolo di potenza mondiale, e si aggrappavano più fortemente al loro impero disteso su numerosi continenti; era la disfatta iniziale subita da parte dei tedeschi che li rendeva così intransigenti di fronte agli algerini. Il risultato della manifestazione di Sétif è una repressione il cui numero esatto di vittime resta molto incerto, poiché le stime variano fra 1500 e 45.000 persone.

Si potrebbe illustrare la stessa configurazione rievocando un altro episodio della storia recente (sul quale dovrò ancora ritornare): quello delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, e la controversia suscitata dal progetto di esposizione di Enola Gay, il bombardiere di Hiroshima, allo Smithsonian Institute. John Dower, storico americano specialista del Giappone moderno, ha dedicato alla questione numerosi studi; egli mostra come, secondo che la storia sia raccontata nell'ottica degli americani o dei giapponesi, essa venga rappresentata e valorizzata in modo interamente diverso. Nessuno inventa i fatti o falsifica le fonti: la selezione e la combinazione dei dati iniziali sono sufficienti.

Da parte americana si preferisce «una narrazione eroica o trionfale, in cui le bombe atomiche rappresentano il colpo finale assestato a un nemico aggressivo, fanatico e selvaggio». Da parte giapponese, invece, ciò che predomina è una «narrazione di vittimizzazione», nella quale «le bombe atomiche sono diventate il simbolo di una specie particolare di sofferenza - abbastanza simile all'olocausto per gli ebrei». Al museo di Hiroshima ci si è compiaciuti nel ruolo esclusivo di vittima, senza sollevare la minima questione concernente la responsabilità del governo giapponese nello scoppio e nel proseguimento della guerra, né nei trattamenti disumani che i prigionieri di guerra o le popolazioni civili sottomesse subivano da parte dei giapponesi. Un grande parco, dentro il quale troneggiano il museo e un monumento funebre contenente i nomi delle 176.964 vittime della bomba, permette a un milione e mezzo di visitatori annui di commemorare questo avvenimento con emozione; ma il monumento alla memoria dei 20.000 coreani, presenti sui luoghi in quanto lavoratori forzati e uccisi nello stesso momento, è situato fuori da questo territorio sacro. D'altronde nulla nella città di Hiroshima, città essenzialmente militare prima della guerra, ricorda i massacri di Nanchino, perpetrati in Cina nel 1938 dall'esercito giapponese, e precisamente dalle guarnigioni di stanza a Hiroshima, massacri le cui vittime ammontano a circa 300.000. È chiaro che tanto gli avvocati americani della narrazione eroica che i difensori giapponesi della narrazione di vittimizzazione si limitavano, gli uni e gli altri, a promuovere «i loro».

Questa differenza si è esacerbata durante le commemorazioni per il cinquantesimo anniversario, nel 1995, dell'esplosione atomica. L'aereo che ha lanciato la bomba su Hiroshima, Enola Gay, doveva figurare al centro di un'esposizione che si proponeva di mostrare al tempo stesso l'avvenimento nella sua complessità. Tuttavia, per la pressione di ex combattenti e di altri gruppi patriottici, presto sostituiti dagli eletti della nazione, il progetto di esposizione è stato annullato, perché giudicato offensivo per la memoria: non collocava più gli americani nel ruolo dell'eroe-benefattore, vincitore del militarismo del Giappone, ma suggeriva che essi erano responsabili di un massacro non interamente giustificato.

A che cosa somiglierebbe una narrazione in cui l'autore evita di identificarsi tanto nell'eroe quanto nella vittima? John Dower ce ne offre l'esempio nel suo studio delle reazioni americane e giapponesi all'anniversario di Hiroshima. Poteva riconoscersi in ciascuno dei due gruppi: appartenente all'uno, il lavoro lo ha condotto a conoscere intimamente l'altro. Risultato, il titolo che ha dato a questa terza versione dei fatti, dopo «Hiroshima come vittimizzazione» (il punto di vista giapponese) e «Hiroshima come trionfo» (il punto di vista americano), è: «Hiroshima come tragedia».

Perché una tragedia? Sicuramente, innanzitutto, perché la storia ha una predilezione per gli avvenimenti gravi: la felicità non fa evento, la narrazione idilliaca non è un ospite frequente delle opere stonche. Poi perché, nella storia, il bene e il male non si incarnano mai allo stato puro. La seconda guerra mondiale (in questo assai diversa dalla prima) potrebbe tuttavia passare per un buon candidato alla ripartizione senza equivoco: se Hitler incarna incontestabilmente il male, ogni lotta contro di lui non è forse marcata con il segno del bene? Ma ragionare così significa ammettere che il fine giustifica i mezzi e che, per vincere il nemico, va benissimo imitarlo. Fino al 1942, i governi britannico e americano denunciano la distruzione delle popolazioni civili come un atto di barbarie; ma a partire da questa data, riprendono questa tattica a loro volta. Nel febbraio del 1945, quarantamila persone appartenenti alla popolazione civile saranno uccise dai bombardamenti di Dresda. Nel marzo dello stesso anno, cento mila civili moriranno nello stesso modo a Tokyo; Hiroshima e Nagasaki devono ancora arrivare. Gli autori di questi atti, conclude Dower, «divennero eroi con il sangue delle donne e dei bambini sulle loro mani e, da questo punto di vista, i protagonisti di una narrazione tragica piuttosto che trionfalistica». La vecchia vittima ha imitato il vecchio malfattore.

Tragedia: la parola designa propriamente, ricordiamolo, non solo sofferenza e miseria; non solo assenza del bene; essa può anche insinuarsi nella narrazione di vittimizzazione. No, la tragedia risiede nell'impossibilità del bene: qualunque sia la soluzione scelta, essa genera le lacrime e la morte. La causa degli alleati è incontestabilmente superiore a quella dei nazisti tedeschi o dei militaristi giapponesi, contro i quali la guerra è giusta e necessaria; tuttavia, essa provoca una sciagura che non si può scacciare con un gesto della mano con il pretesto che è «quella degli altri». La piccola gavetta di un bambino di dodici anni polverizzata a Hiroshima, questo contenitore preservato dal caso, con il riso e i piselli carbonizzati dall'esplosione atomica, pesa quasi quanto la fortezza volante Enola Gay. È infatti la sua presenza, fra gli oggetti prestati dal museo di Hiroshima all'istituzione americana, che ha reso inaccettabile l'esposizione per i vecchi eroi. Se si ha il coraggio di pensare simultaneamente al bombardiere e alla gavetta, non si può sfuggire a una visione tragica della storia.

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IL SECOLO DI PRIMO LEVI



Il tentativo nazista per nascondere i misfatti dei campi di concentramento e di sterminio si è chiuso con uno scacco completo: pochi avvenimenti della storia contemporanea, come ho detto, sono così ben documentati. I sopravvissuti ai campi si sono spesso sentiti come investiti da una missione - testimoniare - e non hanno mancato di farlo, alcuni subito dopo la liberazione, altri quaranta, addirittura cinquant'anni dopo. Tutte queste testimonianze sono commoventi, spesso sono, per di più, ricche di senso. Uno di questi testimoni ha acquisito una notorietà e un riconoscimento mondiali: Primo Levi.

Questo ebreo nato nel 1919 sarà deportato ad Auschwitz nel febbraio 1944 e ne uscirà, appena vivo, un anno più tardi. Il suo primo libro di testimonianza, Se questo è un uomo, esce in Italia nel 1947 senza suscitare grande interesse. Negli anni seguenti, Levi conduce parallelamente due carriere, di chimico professionale e di scrittore (come Grossman, ma per tutta la vita); alcuni suoi libri, ma non tutti, rievocano ancora le sue esperienze concentrazionarie: La tregua, che racconta la sua liberazione, Se non ora, quando?, un romanzo sulla resistenza ebraica, Il sistema periodico, di cui alcune sezioni descrivono la vita nei campi, e anche alcuni racconti più brevi. Con il passare degli anni, la sua prima testimonianza si è a poco a poco imposta come un classico e, una volta in pensione, Levi si è trovato spinto a ritornare sempre più sovente sulla propria esperienza nei campi, dapprima con molte interviste, poi in un libro di riflessioni, I sommersi e i salvati. È morto nel 1987.

Primo Levi è oggi così ammirato che sta per trasformarsi in un'icona - un effetto che sicuramente non avrebbe gradito. La sua opera e il suo destino hanno suscitato numerosissime interpretazioni. Avendo io stesso scritto su di lui, vorrei qui limitarmi a una sola questione fra quelle che lo hanno occupato nei suoi testi sui campi, questione davvero centrale: quella del male.

L'atteggiamento adottato da Levi riguardo agli agenti del male si può descrivere così: né perdono né vendetta, ma giustizia. Né perdono: «Non ho tendenza a perdonare», scrive, «non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori [...] perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa». Né vendetta: «La vendetta non mi interessava; [...] ma mi stava bene così, che alle giustissime impiccagioni pensassero gli altri, i professionisti». Quali sono le ragioni di questa scelta?

[...]

La lezione che Levi trae dalla propria meditazione è disperante, e tuttavia il suo lettore esce rafforzato dalla lettura dei suoi libri. Per quale miracolo? La luce scaturisce dal modo stesso in cui Levi conduce la propria meditazione: senza urla né proclami tonanti, scegliendo scrupolosamente le proprie parole per essere sempre al tempo stesso chiaro e preciso, non accettando che gli argomenti razionali, mettendo la ricerca della verità e della giustizia al di sopra del conforto intellettuale. Il raggio di luce non viene dal mondo che Levi descrive e analizza, ma da Levi stesso: che uomini come lui abbiano abitato questa terra, che abbiano saputo resistere alla contaminazione del male, ecco ciò che diventa a sua volta una fonte di incoraggiamento per gli altri. Primo Levi, o il combattente disperato: i due termini di questa definizione hanno uguale importanza. È perché non ha voluto fermarsi alle conclusioni amare che gli si imponevano che oggi ci è particolarmente prezioso.

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