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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione 15 Capitolo primo Rosario e presentazione del Principe - Il giardino e il soldato morto - Le udienze reali - La cena - In vettura per Palermo - Andando da Mariannina - Il ritorno a S. Lorenzo - Conversazione con Tancredi - In Amministrazione: i feudi e i ragionamenti politici - In osservatorio con padre Pirrone - Distensione al pranzo - Don Fabrizio e i contadini - Don Fabrizio e il figlio Paolo - La notizia dello sbarco e di nuovo il Rosario 65 Capitolo secondo Viaggio per Donnafugata - La tappa - Precedenti e svolgimento del viaggio - Arrivo a Donnafugata - In chiesa - Don Onofrio Rotolo - Conversazione nel bagno - La fontana di Anfitrite - Sorpresa prima del pranzo - Il pranzo e varie reazioni - Don Fabrizio e le stelle - Visita al monastero - Ciò che si vede da una finestra 111 Capitolo terzo Partenza per la caccia - Fastidi di don Fabrizio - Lettera di Tancredi - La caccia e il Plebiscito - Don Ciccio Tumeo inveisce - Come si mangia un rospo - Epiloghetto 161 Capitolo quarto Don Fabrizio e don Calogero - Prima visita di Angelica da fidanzata - Arrivo di Tancredi e Cavriaghi - Arrivo di Angelica - Il ciclone amoroso - Rilassamento dopo il ciclone - Un piemontese arriva a Donnafugata - Un giretto in paese - Chevalley e don Fabrizio - Partenza all'alba 221 Capitolo quinto Arrivo di padre Pirrone a S. Cono - Conversazione con gli amici e l'erbuario - I guai familiari di un Gesuita - Risoluzione dei guai - Conversazione con l' "uom di onore" - Ritorno a Palermo 249 Capitolo sesto Andando al ballo - Il ballo: ingresso di Pallavicino e dei Sedàra - Malcontento di don Fabrizio - La sala da ballo - In biblioteca - Don Fabrizio balla con Angelica - La cena; conversazione con Pallavicino - Il ballo appassisce, si ritorna a casa 281 Capitolo settimo La morte del Principe 299 Capitolo ottavo La visita di Monsignor Vicario - Il quadro e le reliquie - La camera di Concetta - Visita di Angelica e del senatore Tassoni - Il Cardinale: fine delle reliquie - Fine di tutto |
| << | < | > | >> |Pagina 17 [ inizio libro ]Maggio 1860"Nunc et in hora mortis nostrae. Amen." La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz'ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre. Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordine, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi, l'alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l'oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. | << | < | > | >> |Pagina 51Don Fabrizio usci seguito da Bendicò; voleva salire a trovare padre Pirrone, ma lo sguardo supplichevole del cane lo costrinse invece ad andare in giardino; Bendicò infatti conservava esaltati ricordi del bel lavoro della sera prima e voleva compirlo a buona regola d'arte. Il giardino era ancor piú odoroso di ieri; e sotto il sole mattutino l'oro della gaggia stonava meno. "Ma i Sovrani, i Sovrani nostri? E la legittimità dove va a finire?" Il pensiero lo turbò un momento, non si poteva eludere. Per un attimo fu come Màlvica. Questi Ferdinandi, questi Franceschi tanto disprezzati, gli apparvero come dei fratelli maggiori, fiduciosi, affettuosi, giusti, dei veri re. Ma le forze di difesa della calma interiore, tanto vigili nel Principe, accorrevano già in aiuto, con la moschetteria del giure, con l'artiglieria della Storia. "E la Francia? Non è forse illegittimo Napoleone III? E non vivono forse felici i Francesi sotto questo Imperatore illuminato, che li condurrà certo ai piú alti destini? Del resto, intendiamoci bene. Carlo III, lui, era forse perfettamente a posto? Anche la battaglia di Bitonto fu una specie di quella battaglia di Bisacquino o di Corleone o di che so io, nella quale i Piemontesi prenderanno a scoppole i nostri; una di quelle battaglie combattute affinché tutto rimanga come è. Del resto, neppure Giove era il legittimo re dell'Olimpo."
Era ovvio che il colpo di Stato di Giove contro Saturno
dovesse richiamare le stelle alla sua memoria.
Lasciò Bendicò affannato dal proprio dinamismo, risali la scala, traversò i saloni nei quali le figlie parlavano delle amiche del Salvatore (al suo passaggio la seta delle sottane frusciò mentre le ragazze si alzavano), sali una lunga scaletta e sboccò nella grande luce azzurra dell'Osservatorio. Padre Pirrone, con l'aspetto sereno del sacerdote che ha detto la messa e preso il caffè forte con i biscotti di Monreale, sedeva ingolfato nelle sue formule algebriche. I due telescopi e i tre cannocchiali, accecati dal sole, stavano accucciati buoni buoni, col tappo nero sull'oculare, come bestie ben avvezze che sapessero come il loro pasto vien dato soltanto la sera. | << | < | > | >> |Pagina 67Agosto 1860"Gli alberi! ci sono gli alberi! Il grido partito dalla prima delle carrozze percorse a ritroso la fila delle altre quattro, pressoché invisibili nella nuvola di polvere bianca; e ad ognuno degli sportelli volti sudati espressero una stanca soddisfazione. Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli eucaliptus, i piú sbilenchi figli di Madre Natura. Ma erano anche i primi che si avvistassero da quando, alle sei del mattino, la famiglia Salina aveva lasciato Bisacquino. Adesso erano le undici e per quelle cinque ore non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghe lente arrancate delle salite, al passo prudente delle discese; passo e tratto, del resto, egualmente stemperati dal continuo fluire delle sonagliere, che ormai non si percepiva piú se non come manifestazione sonora dell'ambiente arroventato. Si erano attraversati paesi dipinti in azzurrino tenero, stralunati; su ponti di magnificenza bizzarra si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero, mai una goccia d'acqua: sole e polverone. | << | < | > | >> |Pagina 76Al di là del breve ponte che immetteva in paese le autorità stavano ad attendere, circondate da qualche diecina di contadini. Appena le carrozze entrarono sul ponte, la banda municipale attaccò con frenetica voga Noi siamo zingarelle, primo strambo e caro saluto che da qualche anno Donnafugata porgeva al suo Principe; e subito dopo, le campane della Chiesa Madre e del convento di Santo Spirito, avvertite da qualche monello in vedetta, riempirono l'aria di baccano festoso. "Grazie a Dio, mi sembra che tutto sia come al solito," pensò il Principe scendendo dalla carrozza. Vi erano lì don Calogero Sedàra, il sindaco, con i fianchi stretti da una fascia tricolore, nuova fiammante come la sua carica; monsignor Trottolino, l'arciprete, con il suo faccione arsiccio; don Ciccio Ginestra, il notaio, che era venuto, carico di gale e di pennacchi, in qualità di capitano della Guardia Nazionale; vi era don Totò Giambono, il medico, e vi era la piccola Nunzia Giarritta che porse alla Principessa uno scomposto mazzo di fiori, colti, del resto, mezz'ora prima nel giardino del palazzo. Vi era Ciccio Tumeo, l'organista del Duomo, il quale a rigor di termini non avrebbe avuto rango sufficiente per schierarsi con le Autorità, ma che era venuto lo stesso, quale amico e compagno di caccia, e che aveva avuto la buona idea di portare con sé, per far piacere al Principe, Teresina, la cagna bracca focata con i due segnetti color nocciola al di sopra degli occhi; e che del suo ardire fu ricompensato da un sorriso tutto particolare di don Fabrizio. Questi era di ottimo umore e sinceramente blando; era disceso dalla carrozza insieme alla moglie per ringraziare, e sotto l'imperversare della musica di Verdi e del frastuono delle campane, abbracciò il sindaco e strinse la mano a tutti gli altri. La folla dei contadini era muta ma dagli occhi immobili traspariva una curiosità non ostile, perché i villici di Donnafugata nutrivano davvero un qualche affetto per il loro tollerante signore che cosí spesso dimenticava di esigere i canoni ed i piccoli fitti; e poi, abituati a vedere il Gattopardo baffuto ergersi sulla facciata del palazzo, sul frontone della chiesa, in cima alle fontane barocche, sulle piastrelle maiolicate delle case, erano lieti di vedere adesso l'autentico Gattopardo in pantaloni di piqué distribuire zampate amichevoli a tutti e sorridere nel volto bonario di felino cortese.| << | < | > | >> |Pagina 148Quando alle quattro e mezza precise gli venne annunciato l'arrivo puntualissimo di don Calogero, il Principe non aveva ancora finita la propria toletta; fece pregare il signor Sindaco di aspettare un momento nello studio e continuò, placido, a farsi bello. Si unse i capelli con il Lemo-liscio, il Lime-Juice di Atkinson, densa lozione biancastra che gli arrivava a cassette da Londra e che subiva, nel nome, la medesima deformazione etnica delle canzonette; rifiutò la redingote nera e la sostitui con una di tenuissima tinta lilla che gli sembrava piú adatta all'occasione presunta festosa; indugiò ancora un poco per strappare con una pinzetta uno sfacciato peluzzo biondo che era riuscito a farsela franca la mattina, nell'affrettata rasatura; fece chiamare padre Pirrone; prima di uscire dalla camera prese su un tavolo un estratto delle Blätter der Himmelsforschung, e con il fascicoletto arrotolato si fece il segno della croce, gesto di devozione che ha in Sicilia un significato non religioso piú frequente di quanto non si creda.Traversando le due stanze che precedevano lo studio, si illuse di essere un gattopardo imponente dal pelo liscio e profumato che si preparasse a sbranare uno sciacalletto timoroso; ma per una di quelle involontarie associazioni di idee che sono il flagello delle nature come la sua, davanti alla memoria gli passò l'immagine di uno di quei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di decorazioni e pennacchi, sfilano, arrendendosi, dinanzi a un ironico Napoleone: loro sono piú eleganti, è indubbio, ma il vittorioso è l'omiciattolo in cappottino grigio; e cosí, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu un gattopardo irritato ad entrare nello studio. | << | < | > | >> |Pagina 191I due passavano così quelle giornate in vagabondaggi trasognati, in scoperte d'inferni che l'amore poi redimeva, in rinvenimento di paradisi trascurati che lo stesso amore profanava. Il pericolo di far cessare il gioco per incassarne subito la posta si acuiva, urgeva per tutti e due; alla fine non cercavano piú, ma se ne andavano assorti nelle stanze piú remote, quelle dalle quali nessun grido avrebbe potuto giungere a nessuno; ma grida non vi sarebbero state: solo invocazione e singulti bassi. Invece se ne stavano li tutti e due stretti ed innocenti, a compatirsi l'un l'altro. Le piú pericolose per loro erano le stanze della foresteria vecchia: appartate, meglio curate, ciascuna col suo bel letto dalle materassa arrotolate che un colpo della mano sarebbe bastato a distendere... Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: "Sono la tua novizia," richiamando alla mente di lui, con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri che fosse corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l'uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso. Si ripresero; e l'indomani Tancredi doveva partire.Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull'inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano piú concreto, benché poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono diventati vecchi ed inutilmente saggi, i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perché sempre vinto, dei letti, molti che si erano offerti e che erano stati respinti dallo stimolo sensuale che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioè in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro matrimonio che, anche eroticamente, fu mal riuscito; una preparazione, però, che si atteggiò in un insieme a sé stante, squisito e breve: come quelle sinfonie che sopravvivono alle opere dimenticate cui appartengono e che contengono accennate con la loro giocosità velata di pudore, tutte quelle arie che poi nell'opera dovevano essere sviluppate senza destrezza, e fallire. | << | < | > | >> |Pagina 204Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio. Era questa una piccola stanza con ai muri, sotto vetro, alcune pernici grigie a zampette rosse, stimate rare, trofei impagliati di caccie passate. Una parete era nobilitata da una libreria alta e stretta, colma di numeri arretrati di riviste matematiche. Al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature della famiglia: il padre di don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di San Gennaro; la principessa Carolina, già vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri, seduta su una panca in un giardino, con alla destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra, ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che le recava dei fiori di campo (questa miniatura don Fabrizio se la era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi, piú sotto, Paolo, il primogenito, in attillati càlzoni bianchi di pelle, in atto di salire su un cavallo arrogante dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti: zii e zie varie non meglio identificati ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al centro della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura piú grande: era don Fabrizio stesso poco piú che ventenne, con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell'uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re, sorrideva compiaciuto, col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato. "Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del Governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri Siciliani. Le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all'esame del Governo centrale ed eventualmente alla nomina regia, e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici; per l'attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti." Il discorsetto era stato preparato da tempo; anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita: le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile, la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di San Pietro in alabastro che stava sul tavolo. Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasciò smontare. "Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto doveroso informarne lei stesso, e domandare se questa proposta sarebbe di suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale il Governo spera molto, è stato l'oggetto della mia missione qui; missione che peraltro mi ha valso l'onore e il piacere di conoscere lei e i suoi, questo magnifico palazzo, e questa Donnafugata tanto pittoresca." Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l'acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati ad esserlo. "Adesso questo qui s'immagina di venire a farmi un grande onore," pensava, "a me, che sono quel che sono, fra l'altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev'essere press'a poco come essere Senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo piú grande del principe di Làscari quando m'invita a pranzo. È chiaro. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea. E cosí non resta che la gratitudine del cuore che non si vede ed il naso arricciato del disgusto che si vede anche troppo." Le idee di don Fabrizio in fatto di Senato erano vaghissime: malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato romano: al senatore Papirio che spezzava una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che anche a suo figlio Paolo sarebbe apparso eccessivo. Lo infastidiva il riallacciarsi insistente di una frase detta talvolta da padre Pirrone: "Senatores boni viri, senatus autem mala bestia." Adesso vi era anche il senato dell'Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di grosse prebende. Vi era o vi era stato un senato anche a Palermo, ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori, civici, e di quali amministratori! Robetta, per un Salina. | << | < | > | >> |Pagina 326 [ fine libro ]Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo, che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare, e che consistesse ormai in pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno. Dopo un po' le portarono una lettera. La busta era sigillata a nero con una grossa corona in rilievo: "Carissima Concetta, ho saputo della visita di Sua Eminenza e sono lieta che alcune reliquie si siano potute salvare. Spero di ottenere che Monsignor Vicario venga a celebrare la prima messa nella cappella riconsacrata. Il senatore Tassoni parte domani e si raccomanda al tuo bon souvenir. Io verrò presto a trovarti e intanto ti abbraccio con affetto insieme a Carolina e Caterina. Tua Angelica." Continuò a non sentir niente: il vuoto interiore era completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. "Annetta," disse, "questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo."
Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi
di vetro la fissarono con l'umile rimprovero delle cose che
si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo,
quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del
cortile che l'immondezzaio visitava ogni giorno. Durante il
volo giú dalla finestra la sua forma si ricompose un
istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell'aria un
quadrupede dai lunghi baffi, e l'anteriore destro alzato
sembrava imprecare. Poi tutto trovo pace in un mucchietto
di polvere livida.
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