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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Armando Torno 7 Introduzione 11 Nota dell'autore 18 I. INTERPRETARE LA MONTAGNA 19 1. Montagna e alpinismo 20 2. Tecnica e arrampicata 21 3. Camminare e pensare, scalare e sciare 25 4. Tra orizzontale e verticale, hóros e óros 29 5. Coltivare, amare, pregare 33 6. Radicamento e liberazione 35 7. Monti e montagna 40 8. Centro del mondo 42 9. Vuoto alpi-mistico 44 II. MISTICA E ALPINISMO 51 1. Elimina tutto 53 2. Ascesa e ascesi 54 3. Gradi alpi-mistici 56 4. Monte di Dio 61 5. Ascendere e discendere 64 6. Ritorno al mondo 65 7. Gravità terrestre e rapimenti celesti 69 8. Silenzio e parola 71 9. Lode in Paradiso 74 III. IN CAMMINO VERSO IL PENSARE 77 1. Soffio, ombelico, preghiera 78 2. Respiro e cammino 79 3. Spirito e forza 82 4. Pesanteur e grazia 83 5. Sentiero e svolta, passo e traccia 84 6. Via, moto, teologia 85 7. Passaggi estremi 87 8. Pensare al limite 88 9. Camminare, danzare, pensare 89 IV. TOPOLOGIA DELLA LIBERTÀ 91 1. Balzo e passo, scivolamento e staticità 93 2. Istante átopos e atemporale 94 3. Fra due abissi, caduta e rischio 96 4. Abnegazione, cordata, religione 98 5. Rinuncia, prontezza, attesa 100 6. Vertigine e stupore, estasi e separazione101 7. Grazia e libertà 103 8. Scelta e inizio 105 9. Inizio e fine, sopravvivere 107 V. METAFISICA DALLA CIMA 109 1. Inaccessibilità e inabbandonabilità 111 2. Monte e metafisica 112 3. Valle e vuoto, vento e vacuità 117 4. Terra e cielo 118 5. Vetta e abisso 120 6. Realtà e analogia, simbolo e trascendenza122 7. Via sovrannaturale 124 8. Vita o morte, sventura e avventura 126 9. Monte bianco e croce 128 VI. AGENTI NATURALI 133 1. Natura ventura 134 2. Cinque elementi 136 3. Cicli e metamorfosi 137 4. Colori solari o divina luce 138 5. Cristalli e pietre 139 6. Laghi che cantano 142 7. Tramonti e aurora 143 8. Aureole e arcobaleno 143 9. Antichi vulcani 144 VII. ESSERI CELESTIALI 147 1. Trepidante natura 148 2. Acqua sorgente 149 3. Nascita boschiva 150 4. Alberi mediatori 150 5. Essenze e fiori 152 6. Pascolare e saltare 152 7. Uccelli e voli sonanti 153 8. Sole nero 153 9. Angeli di bene 154 VIII. COMUNITÀ FUTURA 157 1. Città, montagna, Paradiso 158 2. Solco montano e città naturale 163 3. Contrade alpine e civiltà ideali 166 4. Monte della pace 168 5. Culture e feste alte 171 6. Spazi per dire di sì 175 7. Esser d'oc 178 8. Debole forza della lingua 179 9. Differenza e comunione 180 IX. AMORI STELLARI 185 1. Cime vicine 186 2. White-out e T'ai Chi 187 3. Santità bianca o theotókos 189 4. Nuvole e mani, lingue e fulmini di fuoco 191 5. Montagna e mare 193 6. Volti di Dio 194 7. Stelle che salgono, stelle che cadono 196 8. Ombra del cielo 197 9. Uno due Trinitas 198 Postfazione-intervista di Reinhold Messner 203 Indici 211 |
| << | < | > | >> |Pagina 11In una caleidoscopica visione, composta di ottantun brevi capitoli, cercherò di accompagnare il lettore in altrettanti passi differenziati, a ripercorrere sentieri e luoghi, esperienze e riflessioni, domande, gioie e disperazioni, che io stesso ho provato grazie alla montagna. Tenterò di affrontare anche questioni centrali per l'uomo: la libertà e il rischio, la pace e il rapporto con gli altri, l'origine del linguaggio e il futuro della vita, il perché del male e l'esperienza del nulla (eppure anche del divino) tangibile attraverso ogni minima creatura, approfondendole in situazioni vissute fra la bianca neve e gli aghi sempreverdi, i massicci monti e le alte cime acuminate. Infatti la montagna è altamente istruttiva, può suggerire soluzioni ai più complicati interrogativi filosofici o ai nostri problemi quotidiani, non ritrovabili altrove. Che si voglian considerare questioni ecologiche, alpinistiche o educative, politiche, religiose o esistenziali, alimentari, linguistiche o musicali, o tante altre ancora, la montagna non solo insegna, ma anche appassiona; perché in ogni modo la si percorra, da qualsiasi prospettiva la si veda, essa è sempre profondamente vera, secondo una ricchezza semplice e inesauribile, sperimentalmente esemplare per ciascun uomo e tutte le creature. Si tratta, quindi, di un ripensamento filosofico delle tante dimensioni montane, anzi di una vera e propria dichiarazione d'amore, svolta in un cammino personale verso la montagna, nel cui ritmo, tuttavia, ciascuno potrà entrare attraverso svariate vie. | << | < | > | >> |Pagina 201. Montagna e alpinismoAlpe dice di luogo elevato, svettante altissimo e bianco in concatenazioni infinite. Alpinismo è anelito all'elevatezza ed elevazione all'alta luminosità delle innevate Alpi prospicienti il cielo, amore per la molteplicità alpina (vera e suprema unità delle differenze) nell'unicità della vetta: quella ogni volta singola cima che nella sua peculiarità venga avvicinata. Perché non dire allora alpinismo i differenti modi dell'abitare le Alpi: fra terra e cielo, nella regione montana che sale verso l'altissimo? Non ne sarebbe l'incarnazione dello spirito, seppur nella sua forma mitigata, aggraziatamente misurata ma costantemente illuminata? È possibile sottrarre l'alpinismo dall'esser mera attività sportiva di cittadini? È l'alpinista a insegnare a salire l'alpe al montanaro o non è piuttosto il montanaro a indicare la via della montagna all'alpinista? Rispetto ad alpe, montagna indica sempre elevazione, sporgenza dal suolo, mostrando più la massiccità che la bianchezza, la ferma e potente mole che la celestiale, alba e incontaminata purezza. Ma è solo questa solida verità montana a rivelare all'uomo la via della montagna, il metodo e il cammino per stabilmente muoversi fra terra e cielo, acqua e roccia, vuoto e pieno, morte e vita. Senza montagna non c'è alpinismo. Infatti quando l'alpinismo fa a meno della montagna non è più tale, non più disposto a illuminazioni, non dico rarefatte e celestiali, ma semplicemente alpine, candidamente proprie a uno spazio sacro nella sua quotidiana e operosa umiltà, con discrezione aperta a ciò che sempre sovrasta, come di noi mortali più grande. Senza montagna l'alpinismo diventa mero divertimento, diporto, arrampicata detta appunto 'sportiva', con la sua eliminazione della cima come meta e infine della stessa parete naturale come via. O, addirittura, risulta secolarizzazione e appiattimento dello spazio libero e del tempo eterno alpini, rare dimensioni ancora sacre, alle miopi illusioni tecniche della pianura evoluta, cioè dei più in-civili cittadini, stravolti senza fine in geometrizzazioni del suolo e accelerazioni dell'istante. Tanto che rispetto alle città, reali e persino ideali, potremmo dire l'ambiente alpino 'eutopico', un buon-luogo, piuttosto che un luogo immaginariamente 'utopico' o 'atopico', cioè del tutto senza-luogo.
L'alpinismo deve ritornare alla montagna, anzi andare alla montagna per
ripartire dalla montagna più di quanto non abbia già fatto sinora. Ed è
sicuramente propria allo spirito alpinistico anche questa ricerca e sfida.
Ma alla montagna non deve soltanto tornare l'alpinismo, bensì in generale
l'uomo, se vuole ancora darsi la possibilità, forse quella estrema, di aprire
una via al futuro abitare, esistendo pacificamente teso fra terra e cielo.
2. Tecnica e arrampicata Reinhold Messner è colui che per primo al mondo ha scalato gli 8848 metri del Chomolungma solo, respirandone l'aria sottile senza bombole per l'ossigeno. Questo grazie alla sua intuizione — ma anche capacità e irrefrenabile passione — di trasferire il metodo di spedizione caratteristico delle nostre Alpi alle più grandi montagne della Terra, facendosi interprete di tutte le più alte vette della catena himàlayana in 'stile alpino'. Tale via essenziale, discreta, rinunciataria addirittura, è consistita nel trasportare tutto l'occorrente minimo con sé e nel concludere, se non in giornata, con pochi bivacchi l'ascensione. Rinunciando ai superflui apparati: spedizioni, campi base avanzati, respiratori con aria artificiale, corde fisse, lo scalare himàlayano di Messner si è quindi svolto spesso del tutto senza corde e chiodi, solo con piccozza e ramponi, tenda, fornelletto e sacco a pelo, nonché talvolta in solitaria (come nelle sue seconde scalate del Nanga Parbat e dell'Everest). Ma prima che originale himàlaysta egli è un alpinista, è stato colui che senza assicurazioni e compagnie assicurative ha percorso tutte le più difficili pareti delle Alpi. E prima ancora che alpinista, dichiara di essere un "contadino di montagna", un "montanaro" (Die Grenzen der Seele wirst du nicht finden [Non troverai i confini dell'anima], 1996; Berg Heil. Heile Berge? Rettet die Alpen [Salute alla montagna. Montagne salve? Salvate le Alpi], 1997). Formidabile arrampicatore, ma innanzitutto alpinista. Grande alpinista classico, tuttavia in primis montanaro. Reinhold Messner non è un cittadino che si volge alle montagne per sport, cioè divertimento, evasione, o per mera reazione alla gabbia d'acciaio in cui consiste la civiltà contemporanea, benché sicuramente disdegnata. Né vuole conquistare e appiattire le montagne alle tante tecniche inventate dagli inquietanti uomini di pianura. Incarnando piuttosto una "filosofia della rinuncia", nell'alpinismo rifiuta, non avendone mai fatto uso, bombole d'ossigeno compresso, chiodi a espansione, telefonini cellulari e in genere ogni artificio tecnico con cui si tenti sempre più di neutralizzare il pericolo proprio alla montagna. Pericolo che quanto più venga esorcizzato e assicurato con la tecnica, tanto più in modo imprevedibile e rovinoso si abbatterà su chi non abbia pazientemente e gradualmente imparato ad avvicinare, attraverso una costante paura, il rischio e persino la morte, con umile soggezione e istruttiva assimilazione. Occorre tuttavia pensare, riflettere portando le questioni così fermamente sollevate sino alle loro conseguenze più radicali, estreme: operazione critica tipicamente filosofica. Pensando all'estremo, dove fissare il limite dell'espediente tecnologico? Se l'uomo è un essere naturalmente culturale, non sarà culturalmente cioè naturalmente tecnologico? Sono forse esenti da artificialità non soltanto la tecnica di corda doppia, che si appende, dipendendone in toto, a un solo e sempre più lontano appiglio, ma anche chiodi e moschettoni, rinvii e fettucce, corde e cordini, lacci e lacciuoli, volti semplicemente al fine di rendere sicura, di 'assicurare' un'ascensione cosiddetta 'libera'? Addirittura gli abiti per ripararsi dal freddo e le scarpe per camminare, non solo piccozza e ramponi, sono alcunché di naturale? Quale il limite della tecnica nell'arrampicare? E stabilire un limite non significa già impostarne il possibile superamento? Un limite potrebbe consistere nella non permanenza dell'apparato tecnologico nel luogo tuttavia tecnicamente frequentato, attraverso espedienti che l'uomo porti personalmente con sé come semplice prosecuzione del piede o della mano, secondo le proprie 'naturali' aspirazioni o contorsioni mentali. Non dunque aiutati da schiere di portatori o elicotteri ausiliari, consoni ad altri tipi di spedizioni, magari ben più bellicose. Su questa linea si collocano i divieti di edificare nuovi rifugi ad alta quota o di costruire impossibili funivie, nonché di fissare su ogni parete spits (dal latino sputum), quei chiodi a espansione ben meno biodegradabili degli 'sputi' a cui alluderebbe il gergo anglofono degli arrampicatori, necessitanti la perforazione della roccia con un trapano, affinché possano essere fissati. Forse il limite potrebbe anche estendersi, ad esempio, all'estremo di utilizzare solo prodotti esclusivamente frutto di attività artigianale, anziché industriale, addirittura di produzione personale, nel caso di certi strumenti essenziali: corde, vestiario e scarpe comprese. Infatti telefoni, elicotteri, trapani e bombole d'ossigeno non sono artigianalmente, ma solo tecnologicamente producibili. Altrimenti, se soltanto il contatto diretto fra uomo e natura (montana) fosse accettabile, allora non tanto la forma di assicurazione con corda per la progressione in scalata o arrampicata 'libera', ma sicuramente la tecnica di corda doppia dovrebbe considerarsi un totale artificio strumentale e innaturale: comporta infatti spostare di novanta gradi e oltre la camminabilità di un piano da parte dell'uomo, affidandola solo alla tenuta di una corda (su corda) ancorata. Eppure questo uso buono della tecnica, ritenuto corretto in quanto limitato, un po' come l'artificiosa naturalità dei cosiddetti parchi 'naturali', non considera quanto la forma principale e dominante della tecnicizzazione della natura non stia soltanto negli apparati costituiti e impiantati o costruiti e usati, ma invece innanzitutto nel pensiero umano postosi (o posto) in tale dimensione tecnica. La tecnica non è un mezzo neutrale, adatto a ogni fine, né lo spazio tecnico della mente contemporanea può essere usato bene o male, a seconda delle interiori intenzioni: più o meno positive o negative. La tecnica è mezzo e fine assieme, riduzione di ogni fine ai mezzi per perseguirlo e quindi sostituzione del mezzo stesso, assolutizzato, per nulla mediatore potenziale, all'esistenza che essa sembrerebbe voler soccorrere, sostenere, amplificare. Infatti il suo imporsi come alcunché di già predisposto e organizzato, soltanto da ripetere in maniera seriale e automatizzata, elimina ogni esistere effettivo, in particolare un futuro che sia ancora aperto e incerto, catturandolo in una programmazione senza finalità esterne alla propria stessa riaffermazione. La tecnica è allora incapace di assicurare la vita, di esser mezzo utilizzabile per comprenderne il divenire, realizzarne la vivacità, operarne le ricchezze imprevedibili e inesauribili. Dunque anche quando non si costituisca a mezzo per un fine, raggiunge essa già il proprio fine, cioè la fine di ogni libera riflessione sul fine, sui fini ultimi, sul senso del nostro esistere e agire. Quella tecnica, prima ancora che apparato tecnologico effettivo, è una dimensione culturale peculiare, che imponendosi all'uomo, svuotandone i pensieri, programmandone le attività, prevedendone i desideri e assicurandone quasi l'immortalità, di fatto si afferma come realtà altamente spirituale, onnipervasiva, benché riducente l'uomo a passivo materiale da lavoro e di consumo. Se infine la tecnica ha condotto l'uomo a non pensare, è perché essa stessa è un sostituto del pensiero, benché inventato dal pensiero umano stesso, non un mezzo neutrale nelle sue mani. È dunque il semplice pensiero, nell'uomo, non già la tecnologia concreta, accettata o persino rifiutata, a poter far saltare ogni idea di immediato rapporto fra esseri umani e natura. Se non si comprende come solo una rivoluzione nel modo di pensare potrebbe trovare nuove forme di armonia fra uomini e natura e ogni essere possibile, la diatriba fra naturalisti e tecnologicizzati, entrambi più o meno involuti o raffinati, non condurrà che alla lunga agonia, indefinitiva, del mondo attuale: sia da un punto di vista tecnico, sia naturale, insensato. Non è allora forse decisiva l'alternativa, interna allo stesso alpinismo classico, fra progressione naturale e tecnicizzata, fra scalata libera (anche da assicurazioni con corde) e arrampicata (almeno in parte) artificiale. Essa è rappresentata per un versante da Paul Preuss, castissimo arrampicatore, capace di aprire in solitaria e autentica libera e privo di qualsivoglia assicurazione vie di quinto grado, richiudendole immediatamente ridiscendendole senza corda doppia, disarrampicando sui propri passi, e per l'altro versante da Emilio Comici, pioniere e teorizzatore non solo del sesto grado, cioè dell'arrampicata artificiale, ma anche dell'assicurazione continua e della tecnica di discesa in corda doppia: estremi di cui entrambi furono rispettivamente incarnazioni ideali, irripetibili, ma purtroppo anche vittime naturali. Né sono comunque dirimenti sia la importante diatriba fra arrampicata sportiva e alpinismo classico, sia quella fra uso strumentale dell'arrampicata all'alpinismo e riduzione dell'alpinismo a escursionismo naturalistico. La rivoluzione alpina è di pensiero, nel senso che solo un nuovo inizio di civiltà (o montanità, si dovrebbe dire), aperto da una filosofia avvenire favorita dall'esclusività dello spazio montano, potrà ascoltare, vivere, pensare in cammino una diversa dimensione umana e assieme naturale, al di là dei tecnicismi di fatto e di ragione, nonché delle reazioni o repulsioni da questi suscitate. | << | < | > | >> |Pagina 48L'esperienza in negativo dell'ulteriorità del risultato, la tangibilità nel vuoto del limite della vita, pur non dando di per sé alcunché di positivo, non ripagando con moneta analoga quanto si è sacrificato, rinunciando, lungo la via alpina, tuttavia può almeno condurre ad una conversione interiore. E gli alpinisti sanno quanto una conversione nel procedere possa talvolta risolvere una via impossibile, o talaltra salvare dalla caduta. Accade a volte, attraverso esperienze limite e negative, una conversione dell'anima all'attenzione ad ogni forma di vita, non più distratta dalle grandi chimere di ombre falsamente orizzontali. Non si tratta propriamente di mutare il proprio passo, quanto piuttosto di convertire l'anima, attraverso l'alpi-misticismo della rinuncia, all'attenzione per il limite: ad approssimarlo, sino a toccarlo a mani vuote. La propedeuticità e gradualità dell'approccio alla paura, al limite, alla morte, al vuoto, rispetto all'eccesso di assicurazioni e tecnologicizzazioni, non solo garantiscono una maggior riuscita sulle vie davvero singolari, ma educano soprattutto all'esistere quotidiano, attento alla vita perché dotto sui suoi estremi limiti.Ecco allora che il vero alpinismo non è riservato ai falliti della vita comune o, via da essa, alla fuga. Alpinismo autentico, tutt'uno con l'umile fare montanaro, è far di ogni ricerca e attiva conoscenza montana occasione, assieme, di attingimento del fondo abissale, tangibile solo in negativo, della vita, e rinnovamento dell'ascolto attivo del pullulare naturale in ogni minima, discreta forma esistenziale. Esso rivela un misticismo naturale, umile e operoso, contemplativo e laborioso, terreno e celestiale, libero e in ascolto di ogni alterità eventuale, vivamente presente in montagna. Il ritorno al mondo è tutt'uno con la fuga da esso, nell'alpinismo come nella mistica, non solo cristiana. Anzi, non si tratta propriamente né di fuga né di ritorno, bensì di radicamento nell'elevazione, di affinamento nell'ascolto, nel rispetto, nel fare — attraverso percorsi alpi-mistici, candidi e rinunciatari, sottili e certi, percorribili con passi saldi e a mani vuote. | << | < | > | >> |Pagina 157Sai che un giorno non esistevano città? In montagna, lo provi. Sai che è possibile una vita in comune, fra singolari persone, senza norme, violenze, prevaricazioni? Fra le montagne, ancora, ne risuona l'eco. Non per reattivo conservatorismo, che cerchi in un lontano passato ciò che né ha, né è capace di cercare, vivere, inventare. Ma perché l'esempio di rare culture sopravvissute, fra le cerchie alpine e non solo, ci mostri la creatività propria alla estrema differenziazione, resa necessaria in alta montagna, di lingue e modi di vita, di lavoro artigianale o di raccolta e coltivazione, di feste e musiche, armonia e competizione. Se non hai rinunciato a sperare in un futuro pacifico per l'uomo, se almeno, benché disilluso, ancora hai un vuoto spazio in te disposto ad accogliere un sorriso, una nota, un gemito volto ad una possibile condivisione, ecco che fra le popolazioni abitanti, in umiltà e discrezione, le terre alte, troverai tante vie differentemente volte alla comunione. Ai margini del mondo, ai limiti del sopravvivere, senza leggi scritte, confini, muri, tuttavia attorniate da alte catene protettive, loro svettante liberazione tempratrice che fa alzare lo sguardo al cielo in verticale, le genti di montagna attendono pazienti al loro piccolo bisogno quotidiano, intuendone concretamente il saldo legame ad un senso, un destino, un volere sempre ancora superiore. Nell'apertura alla differenza assoluta celestiale, certa e indicibile, liberante e inesorabile, sta la capacità di ascolto, dialogo, comunità fra le tante differenze orizzontali. Solo educandoti fra i monti, tu singolo irripetibile, potrai ancora sperare di saper dire di sì, in spontaneo coro polifonico, a una futura pace. | << | < | > | >> |Pagina 200Ogni teismo e ogni politeismo e ogni dualismo non è che — inunilateralmente — in Dio. Perché non c'è altri che Dio, ma solo nell'esclusione positiva dell'altro da Dio, Dio non è che non-altro che Dio, non altro che non-altro, cioè l''Egli stesso', uno e onnicomprensivo, irrevocabilmente libero e uno. Allora si può pensare anche il male in Dio, persino la scandalosa sofferenza inutile, degli innocenti, dei bambini — come non accettò in Ivan Karamazov Fëdor Dostoevskij (Brat'ja Karamazovy [I fratelli Karamazov], 1878-1880), e già prima di lui, in eresia dei puri, Giovanni di Lugio nel Liber de duobus principiis (Libro dei due principi, 1230 circa). Ma male in Dio non-voluto da Dio né precedente, bensì posto nel suo toglimento in cui, eternamente, Dio è Dio come affermazione dell'essere e scelta del bene cioè, al tempo stesso e senza tempo, negazione del nulla e sconfitta del male senza che non-essere e negatività precedessero la vittoria ab aeterno su di essi di Dio. Dio autoorigina se stesso come essere e bene, nel trionfare su male e non-essere — che conserva quindi da sempre negati: eterno passato mai stato presente, ombra di Dio senza adombramento, in Dio come contro Dio ma assieme come superati da Dio.| << | < | > | >> |Pagina 208[...] Cosa pensa, allora, Reinhold Messner della sempre maggiore messa 'in sicurezza' di molte vie alpinistiche, del tentativo di 'assicurare' ogni passo, anche di chi si reca in alta montagna?"Senza il pericolo la montagna non è montagna, ma è un gioco sterile. Posso far costruire una montagna artificiale, anche in una grande sala, e lì fare degli allenamenti o delle gare. Questo si fa oggi, ed è una forma di abilità nell'arrampicarsi. Però non è quello che è l'alpinismo. All'alpinismo è necessaria la difficoltà, l'esposizione, l'essere fuori nella wilderness, in un ambiente selvaggio e desolato, e anche il rischio. Il fascino delle montagne è dato dal fatto che sono belle, grandi, pericolose". Quale via suggerire all'alpinismo del futuro? Cos'è ancora possibile fare?
"Sono molto contento che l'alpinismo non sia ancora fatto. Io ho fatto il
mio alpinismo, Walter Bonatti ha fatto il suo alpinismo... Però per la prossima
generazione l'alpinismo è ancora da fare. Quello che sarà l'alpinismo del futuro
non è espresso attraverso la parete o la cima o gli ottomila metri.
Esiste esclusivamente attraverso la nostra fantasia: noi diamo alla parete, alla
cresta, allo strapiombo, all'alta quota quello che è il valore che vogliamo poi
affrontare. È sempre una questione nostra. La montagna in sé non dice niente,
finché l'uomo non si avvicina. La montagna diventa soltanto difficile, faticosa,
pericolosa, se noi ci avviciniamo. È una questione esclusivamente del come ci
avviciniamo, per vedere poi alla fine chi ha fatto storia, chi è stato
d'avanguardia. Per le prossime generazioni l'alpinismo sarà ancora da fare.
Avvicinandoci alle montagne, noi inventiamo quello che è l'alpinismo del futuro.
Non è fatto niente, tutto è ancora da fare".
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