Copertina
Autore Jacopo Tondelli
Titolo Mitra e kippà
SottotitoloViaggio nelle viscere di Israele e Palestina
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007, Formiche , pag. 176, cop.fle., dim. 12x17x1,3 cm , Isbn 978-88-317-9281-3
PrefazioneDavid Bidussa
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe paesi: Israele
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Indice


  7 Prologo

 11 Una guerra, un funerale

 27 Nella bolla di Tel Aviv

 43 Gerusalemme, l'avamposto e la profezia

 63 Dal Mediterraneo al Giordano
 64   Michael Nitzan – Striscia di Gaza, dicembre 2004
 77   Edoardo Recanati – Cisgiordania, agosto 2005

 87 L'ultima battaglia di Arik

109 Gesù, il Messia e l'ultima battaglia

125 Hamasland

125 Ringraziamenti


147 Postfazione
    di David Bidussa
147 Premessa
150 Un conflitto di lunga durata
152 La scena e le parole dell'evacuazione
157 I termini del conflitto e lo scenario della crisi
159 I caratteri strutturali della crisi di Israele
166 Lo scenario del conflitto oggi
174 Riferimenti bibliografici


 

 

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Pagina 11

Una guerra, un funerale



Al decimo giorno di guerra, Gerusalemme era intasata ogni ora di più. Sul nord del paese la pioggia di katiusha continuava a scrosci battenti, improvvisa, asimmetrica: che fosse una strategia, o che fosse la tecnologia approssimativa degli hezbollah è questione da poco. L'effetto immediato, naturale, fu il terrore, il senso di insicurezza, la fuga: l'esodo costante, per molti l'ennesimo, di chi scappava da nord a sud, a decine di migliaia. I telegiornali israeliani raccontavano poche storie di stoico eroismo, degli impavidi cittadini che di lassù non si muovevano perché «questa è la mia terra». La massa silenziosa di chi raccattava i bagagli e sulla spinta del più umano tra i sentimenti, la paura, scendeva verso sud, non trovava in quei drammatici giorni molti narratori. Che forse avrebbero dovuto anche affondare penna e carriera nei macroscopici errori dei vertici politici e militari dello stato ebraico. Gli stessi errori che senza pietà una commissione d'inchiesta del parlamento israeliano ha messo nero su bianco un anno dopo, spogliando il primo ministro Ehud Olmert dei proclami e lasciandolo nudo, come crudi sono sempre i fatti. Qualcosa di simile, in fondo, era accaduto ventiquattro anni prima per l'invasione del Libano voluta dal ministro della difesa Ariel Sharon e culminata nella tragedia di Sabra e Shatila. Silenzi e propaganda ancora una volta si mischiavano, regolari com'è regolare il ritorno della guerra, seguendo il secolare copione che chiede di non deprimere le truppe. In un paese dove per costituzione e per necessità, da sempre, truppe e cittadinanza si sovrappongono fino a perdere i contorni della distinzione.

Come ai tempi della prima guerra del Golfo, quando Saddam sputò alcuni missili su Tel Aviv, Gerusalemme diventò il rifugio naturale di chi temeva la morte che piove dal cielo. A proteggerla dalle smanie di Nasrallah era la fortunata congiunzione della distanza geografica, troppa per i suoi katiusha, e della sacralità islamica. Meno decisivo, a dispetto delle fratellanze della retorica panaraba, il fatto che Gerusalemme sia largamente popolata di cittadini arabi, almeno a considerare i pochi riguardi che Nasrallah usò nei confronti dei palestinesi d'Israele che popolano il nord martellato per settimane dai razzi. Le vittime arabe, donne e bambini compresi, non sembrarono tuttavia incrinare la fratellanza antisionista. Nel silenzio assordante di un mondo arabo dominato da satrapie, opportunismi e fanatismi, capitava perfino di sentire spiegazioni generose, e perdoni preventivi dati senza nemmeno una trattativa, senza chiedere niente in cambio. Ai bordi della piscina del villaggio pacifista di Neve Shalom, a due passi dalla sua villa le cui vetrate guardano le viti e le foreste del mezzo d'Israele, un benestante arabo israeliano originario proprio della Galilea mi spiegò calmo e rilassato: «Sappiamo bene che non era intenzione di Hezbollah far del male ai nostri fratelli in Galilea». Quasi scandalizzato del mio scandalo riprese, olimpico: «In guerra capita di morire per il fuoco amico».

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Pagina 30

Nella leggerezza improvvisa di una notte da homeless, la ventinovenne israeliana che era con me raccontava meglio di tutti la fatica di vivere il dubbio o — peggio — la certezza che qualcosa non funzioni, o non funzioni più nelle vene d'Israele. Nata e cresciuta nell'aria binazionale e bilingue di Haifa, Neta è figlia di una famiglia di sionisti laici e nazionalisti. Di quei sionisti onesti e convinti, prima generazione di nati in Israele da europei scampati alla catastrofe, un pugno di anni dopo la nascita dello stato. Educati a loro volta da genitori che si vergognavano di quel passato di massacro «subito passivamente» — come insegnava la retorica del nuovo ebreo plasmata per forgiare un Israele di combattenti veri —, la generazione dei genitori di Neta è forse quella che più di tutti ha contribuito a costruire l'ossatura del paese che Neta e i suoi fratelli, per quanto riluttanti, dovranno presto o tardi ereditare. I padri dei trentenni di oggi per lo più non hanno visto la guerra del 1948, il sanguinolento mito fondativo del paese, ma hanno imparato presto a essere grati a chi l'aveva combattuta. Una generazione che a dieci anni ha visto un vecchio tedesco trascinato davanti a un tribunale per processare con lui — nelle parole del presidente Weissman — «tutta la storia dell'antisemitismo», e che non ha però potuto leggere in ebraico Hannah Arendt che raccontava la banalità del male, almeno fino al 2000, anno in cui la censura allentava le maglie. Una generazione che, infine, ha pagato il dazio di scampare il '48 combattendo gli interminabili Sei giorni del 1967 e conoscendo la prima non-vittoria dell'esercito israeliano, nel Kippur, del 1973. «Quando dico a mio padre di abituarsi all'idea che presto o tardi me ne andrò da qui per tornarci solo in vacanza, prima si arrabbia e poi si rattrista» mi raccontava Neta nella notte surreale della Sin City d'Israele. Non è difficile crederle, quando racconta la delusione di un padre che ha dato alla luce dei figli perché, prima di tutto, amassero il loro paese, un'idea di spazio condiviso da una comunità che ha bisogno di tutti per difendersi. Un paese cui essere grati perché, da ebrei, gli si deve la vita già oggi e — Dio non voglia — tanto più domani, quando il lupo dell'antisemitismo ricomincerà a ululare e a mordere. Se mai ha smesso di farlo.

Ci sono molti modi di essere figli di quella generazione di padri, nell'Israele di oggi. Una sera più tardi, ad esempio, sedevo nella vecchia area portuale di Tel Aviv, sempre con Neta a garantire per la mia identità rubata agli occhi del paese, e una coppia di amici israeliani. Anche Boas e Meidal sono figli di quegli stessi padri, e forse figli più degni. O quantomeno più riusciti, più a immagine e somiglianza loro. So che sanno perché io sono nel paese, inviato da un quotidiano italiano per seguire il ritiro da Gaza. Me lo chiedono lo stesso, perché sia io a entrare in argomento. Mi chiedono cosa farò nei giorni a venire, e cosa ho fatto in quelli appena prima. Con i suoi occhietti neri brace, segno indelebile dei cromosomi marocchini di Marrakesh o di Fez ereditati, Meidal controlla le mie credenziali. «So che sei stato nella mia Haifa, l'altro ieri. Che ci facevi?» Ho la certezza che Meidal lo sappia, che ci facevo. «Dovevo fare un'intervista all'università di Haifa». «A chi?» «A Ilan Pappe». Scenetta preparata, studiata nel dettaglio, dalla giovane e bella sefardita. «Ok, non voglio saperne niente, cambiamo argomento». Poche ore dopo scoprii di aver avuto ragione: sapeva già di Pappe. Ma non voleva mancare il colpo di fingersi sorpresa, annoiata, innervosita dalla visita di un giovane giornalista europeo all'intellettuale più indesiderato d'Israele. Il traditore, l'odiatore di sé, il provocatore per eccellenza. Quello di cui meglio sarebbe non parlare proprio, neanche in Israele, figuriamoci in un'Europa che già odia – atavicamente, quasi geneticamente – la stella di Davide. Pappe l'antisemita, l'antisionista che firma appelli perché il mondo boicotti Israele e l'accademia in cui lavora. Lui. Ancora oggi Meidal parla malissimo di me, dice che odio Israele, che voglio addirittura vedere il paese distrutto: essermi professato favorevole a una spartizione della terra, proclamando l'indiscutibile diritto d'Israele di esistere e difendersi, non mi ha evidentemente emendato dal peccato originale di essere un giornalista europeo e di sinistra. Inutile provare a relativizzare, con tutta l'onestà autoanalitica che potevo, ogni mia appartenenza politica. O provare a spiegare che ho firmato cento appelli per Israele di quelli che, a sinistra, bastano ancora a finire fuori – e senza alcun rimpianto – dall'album di famiglia.

L'imperativo di «cambiare argomento» era peraltro un'altra calcolata finzione. Nel linguaggio mediorientale vuol dire: parliamone, ma sappi che ti darò torto dall'inizio alla fine. E così ne parliamo, davanti a un piatto di pesce fritto, sorseggiando la leggera e gradevole birra israeliana. Ilan Pappe è solo un pretesto, un modo per parlare degli occhi del mondo su Israele e, soprattutto, di quelli di Israele sul resto del mondo. Proprio mentre settemila giornalisti da cinque continenti seguono lo spostamento di ottomila famiglie coloniche. Uno per famiglia, o quasi.

«Prima di uscire – racconta Meidal – guardavo la tivù. Ho visto un soldato piangere mentre accompagnava una donna fuori dalla sua casa di Gush Katif. Pensavo: cosa piangi a fare, femminuccia? Ma mentre lo pensavo mi sono accorta che anch'io stavo piangendo». È un'autonarrazione onesta, quella di Meidal, dichiaratamente contraddittoria e profondamente israeliana, proprio nelle sue contraddizioni. Quel che pensa del ritiro da Gaza Meidal non me lo dice, non qui. Se ha in testa uno scenario politico lo vedremo: ma nel parlare di sé di fronte all'evento, il quadro razionale viene dopo quello emotivo. La cittadina Meidal, come tutti diventata adulta nella cittadinanza vestendo la divisa dell'esercito, si innervosisce di fronte alle lacrime. Femminuccia, sbrigati, fai il tuo lavoro, portala via, e senza cerimonie. Ma c'è un «ma» grosso: negli stessi «territori» dove si è mille volte combattuto «l'altro» – il palestinese, il terrorista – il soldato israeliano, nell'agosto del 2005, obbedisce a degli ordini contro la volontà di quelli, proprio quelli, che fino a ieri era lì a proteggere. E se anche lo aveva fatto controvoglia, se anche gli sembrava che l'esistenza di Gush Qatif non avesse alcun senso, mai aveva pensato che un pezzo di nazione ebraica potesse essere abbandonata al suo destino. Forse per la prima volta, davanti alla tivù che mostrava delle operazioni militari, Meidal e chissà quanti giovani ex soldati o riservisti come lei avevano un dubbio: identificarsi col soldato che era stata anche lei, come naturale e come sempre, o con la sua controparte scenica che, per la prima volta, non era «l'altro» ma un pezzo di sé?

Il faticoso momento di schizofrenia collettiva l'aveva peraltro spiegato come meglio non si poteva il comandante della divisione meridionale dell'esercito israeliano, Dan Harel. «Provo un dilemma morale mai conosciuto, fino a oggi, in tanti anni di servizio nell'esercito». In tanti anni di servizio il comandante Harel deve averne viste di cotte e di crude, e sotto la sua responsabilità morti e feriti si sono contati a centinaia, tra i palestinesi. «Mai una volta che il dilemma morale gli fosse venuto allora: gli viene adesso perché deve evacuare poche migliaia di ebrei che vivono in una situazione folle e pericolosa per tutto il paese. E senza far male a una mosca, oltretutto» mi disse qualche giorno più tardi Zeev Sternhell, un monumento vivente della cultura storiografica mondiale e uno tra gli ultimi e più fieri figli dei Lumi. Nell'animo del comandante Harel e non solo, il dilemma morale scattava e si dichiarava proprio in quel momento, e non era ipocrisia, ma fotografia di una società e di un paese che si percepiscono soli, unico bene di se stessi, unico valore condiviso tra i consociati. L'essere una nazione e un corpo: il pianto di ciascuno è il pianto di tutti, e la battaglia combattuta e persa solo da alcuni è comunque la sconfitta della nazione. Del resto, basta prendere le statistiche sulla popolarità delle operazioni per capire uno stato di stress emotivo difficilmente comprensibile da distanza: a due mesi dall'inizio del ritiro oltre il 70% degli ebrei israeliani erano assolutamente favorevoli, mentre nei giorni dell'agosto di Gaza il fronte del sì raggiungeva a stento la metà della popolazione ebraica.

Le difese impenetrabili alla riflessione che decenni di guerre, di terrorismo barbaro e di educazione mirata ha costruito nella società israeliana mi sorprendevano ancora, dopo tanti anni, in quella sera bagnata dal vento di Tel Aviv. La posizione di Meidal e Boas sulla «situazione» – parola magica e onnicomprensiva, usata in Israele per parlare di politica – è lineare: il punto è che non c'è soluzione. Evitiamo addirittura di chiederci se l'occupazione sia moralmente, politicamente, giuridicamente giusta o ingiusta: non cambierebbe nulla, se anche finisse. E allora tanto vale lasciare i coloni dove sono, evitando a questo paese altri traumi, altre lacrime, altre incontrollabili lacerazioni. All'obiezione sulla mancanza di democraticità dell'occupazione si risponde che in nessun paese arabo c'è la democrazia. Al mio provocatorio «Beh, in Iraq adesso sì», si fa finta di niente. Al tentativo di tornare alla storia mediorientale dal 1967 a oggi si risponde con la mitologia buonista del salvatore di fronte al selvaggio palestinese che, alla fine di quei drammatici Sei giorni, attendeva Tsahal esponendo le bandiere israeliane. Ma se lo straniero si fa impertinente e qualche libro l'ha letto, se insiste troppo nell'indicare le contraddizioni interne a un argomentare dogmatico e che non risponde mai alle domande, allora c'è la carta segreta. Alla terza Goldstar anche Meidal e Boas la usano: «Tu non vivi qui, non puoi capire». Ma ci ho vissuto. «Sì, ma non sei israeliano». Il diritto di parola cosciente, almeno in caso di disaccordo insanabile, lo regala il passaporto: «noi» contro il resto del mondo.

Per la prima volta, quella sera, un argomento che sempre mi era parso offensivo, o semplicemente cretino, mi si presentava nella forma del dubbio: e se fosse vero che non posso capire? Se fosse vero che non si può comprendere senza appartenere a quell'organo, a quel corpo pulsante che è la nazione israeliana, senza aver ereditato la storia ebraica riscritta sotto le bandiere con la stella di Davide, senza aver combattuto nell'esercito dopo aver visitato tante volte il memoriale dell'Olocausto, senza aver perso amici nelle armi e parenti tra gli scoppi? Anche il dogmatismo degli altri, a volte, aiuta a pensare con un dogma di meno, magari smontando il fondamento naturale stesso del lavoro di chi vuole raccontare, e lo vuol fare – come si insegna – il più possibile «dall'interno». Ma dentro a una società si può provare a entrare, dentro a un corpo no.

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Pagina 46

A Mea Sharim, intanto, non si curano troppo dell'iperpolitica che innerva di sé ogni simbolo religioso. Loro semplicemente attendono con i pesanti pastrani che gli avi portarono con sé dal gelo dell'Europa: di padre in figlio tutto si deve conservare, la tradizione vince la geografia e la storia. E per vincere il tempo si combattono anche le regole dello spazio, del clima, del rovente luglio di Gerusalemme. Anche quando dal deserto del Negev puntando a nord soffia hamsim, il vento caldo che incendia l'aria fino a cinquanta gradi, vanno al Muro del Pianto ad attendere il Messia e la ricostruzione del tempio che solo Lui può compiere. E poi tornano a Mea Sharim con le fronti rigate di sudore che cola fino a perdersi in barbe inestricabili. Da secoli attendono e per altri secoli attenderanno, con in testa quelle pelli di lontra che riparavano gli avi dal gelo di salsedine che tira dove si pesca l'aringa. Il resto del mondo li repelle e costerna, ampi cartelli implorano all'ingresso la pietà e il rispetto dei visitatori: meglio se rinunciano a visitare quello scampolo di passato, ma se proprio vogliono farlo, sia con abiti rispettosi, che coprano come si deve i corpi, soprattutto femminili. Ai quali, per essere di scandalo a Mea Sharim, basta semplicemente indossare i pantaloni e non la gonna. Uno scandalo che riempi gli occhi spenti, ma improvvisamente curiosi, degli uomini di ogni età. E tanto è forte la cortina protettiva che dal latte materno si stende e scivola fino alla bara che i bravi bambini proteggono gli occhi dei fratelli minori dallo scempio. In un canicolare pomeriggio d'estate, ad esempio, è capitato di vedere una sorella maggiore beneducata, sui sei anni, fare schermo con tutto il proprio corpo sugli occhi del fratellino, al passaggio del demonio che vestiva i calzoni e, ingenuamente, rivolgeva un saluto e un sorriso: come si fa coi bambini. Un abbraccio forte, strettissimo, in cui le due chiome rosse da infanti mitteleuropei si mischiavano: perché le pupille vergini non inquadrassero i contorni della contaminazione, che quelle già forgiate della bimba conoscevano, e sapevano distinguere e temere. Perché di là fuori il mondo spinge, preme, perfino a Gerusalemme. Si capisce in fretta, con poche passeggiate sul filo della proibizione e conoscendo un paio di dati, perché Israele abbia addirittura inventato un numero verde pubblico, a disposizione dei figli di Mea Sharim che abbiano voglia e bisogno di diventare grandi altrove.

Dello stato d'Israele a loro interessa poco, edificato com'è sul potere degli uomini e non sulla Promessa compiuta in imperscrutabile onnipotenza dal Signore. E forse gli interesserebbe anche meno, se a quel socialismo nazionale pensato da Ben Gurion, a quel welfare sovrabbondante, generoso e incurante dei meriti non dovessero comunque molto: a cominciare dalla miseria di sussistenza che è garantita nei loro decadenti quartieri di Gerusalemme, a Mea Sharim e non solo, dove non si lavora ma solo si prega, e si studia il Talmud, e ancora si prega. Il costo di quelle proli infinite, che per accordo fondativo non prestano allo stato in guerra le loro braccia e le loro vite di potenziali reclute, ricade su tutto il paese. Che finora ha pagato, ma con sempre meno entusiasmo.

La faciloneria e il pressappochismo degli occhi del mondo di stanza in Medioriente confondono spesso la lunga, irrazionale attesa del piccolo popolo di credenti di Mea Sharim con il vivere temerario di quanti invocano o praticano l'avamposto, cioè i nazionalreligiosi, coloni e non. Forse perché entrambi dichiarano una vita fondata integralmente sull'ebraismo come unica misura dei propri passi. Ma a conoscerli appena poco, confonderli proprio non si può. Perché se l'attesa abbarbicata alle tradizioni di altri secoli e continenti è l'anima profonda di Mea Sharim, il popolo dei coloni che ha maledetto il generale Sharon per la decisione di lasciare Gaza vive di un sentimento che al messianismo tradizionale è speculare e opposto: l'impazienza. Anche loro, certo, vogliono il terzo tempio: ma perché aspettare il Messia se possiamo ricostruirlo noi, sembrano dire, quando ogni anno provocatoriamente sfidano l'odio palestinese per posare la prima pietra del nuovo tempio a pochi passi da dove, oggi, s'innalza la cupola d'oro della moschea di Omar. Quello tra il popolo delle colonie e gli eterni figli del ghetto di Mea Sharim è un conflitto fondativo e forse insanabile, che sorge dalle radici dello stato d'Israele e naturalmente segna anche il colore dei suoi frutti. Neri come la pece, con gli occhi persi e gli occhiali spessi, gli uomini e le donne di Mea Sharim si pensano come perpetuazione vera di una storia millenaria che al silenzio e ai tradimenti dell'Impronunciabile non può che rispondere con la fede. Arriverà, il Messia, perché così è scritto, e solo nella fedeltà piena al Libro sta il compimento di una vita ebrea. Mentre un'altra vita strettamente ebrea – ma colorata, e soprattutto d'arancione, a partire dall'ultimo agosto del Grande Israele – è quella dell'avamposto, dei coloni. Sono figli di quella nazione ebraica che non sa o non può o non vuole più, in nessun caso, sciogliere il legame tra l'ebraismo, che da millenni si tramanda col Libro e la parola, e la più riuscita ideologia politica novecentesca: il sionismo. Non fu semplice trovare una chiave teologica, una via religiosa che consentisse di giustificare la voglia di uno stato degli uomini che portasse però il nome di quello che solo la volontà dell'Eterno poteva edificare. Non fu facile né immediato convincere i rabbini che Israele doveva nascere con la diplomazia e le guerre: altro che terra del latte e del miele, di valli rigogliose di ulivi e viti a schiudersi al passaggio del Messia. Ci volle la scienza teologica di un grande rabbino lettone, Avraham Kook, e di suo figlio Rav Kook jr, per trovare la combinazione misteriosa in grado di saldare contraddizioni che parevano insanabili: l'attesa messianica di una promessa tutta divina da un lato, la voglia di essere nazione di ebrei atei e socialisti come Ben Gurion, dall'altro. L'Israele dei sionisti avvicinerà la venuta dei Tempi messianici, conclusero i padri del sionismo religioso, che soli lo renderanno perfetto compimento della profezia. Anche per questo Israele imperfetto e premessianico, quindi, è giusto combattere e resistere. La protezione omnicomprensiva di un welfare invadentissimo e la promessa mantenuta di costruire uno stato semiconfessionale altrettanto indiscreto, pur macchiato da cuspidi avanzate di laicità sociale e legislativa, hanno certo aiutato un compromesso sul campo, dopo che la dinastia dei rabbini Kook ne aveva costruito un affascinante percorso di pensiero.

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Era l'estate del 1982 e Beirut prendeva fuoco dopo che il ministro della Difesa, Ariel Sharon, aveva commesso il più grave errore strategico della sua grandissima carriera di militare, decidendo l'invasione del Libano e imponendola a un esecutivo riluttante. A Gerusalemme, alla fine di un'estate resa indelebile da un'altra guerra, raccoglieva le sue parole il taccuino di Oriana Fallaci. Lei progressista, lei filopalestinese, lei pronta a esplodere di indignazione e di rabbia prima che, venti anni più tardi, a queste si accompagnasse l'orgoglio. Allora, nel 1982, quella guerra in Libano, quella Beirut di calcinacci e disperazione, Oriana ce l'aveva ancora fresca negli occhi. E con l'umoralità dilagante che ha sempre amato, voluto e rivendicato estrarre dal suo personalissimo kit professionale, la rinfacciò tutta a chi l'aveva decisa. Ad Ariel Sharon. Una delle tante interviste con la storia che intrisero il mito di Oriana. Ma una tra le poche — forse l'unica — che l'autrice rinnegò, vent'anni esatti più tardi, con le polveri del Ground Zero ancora e per sempre sospese. Quasi stupefatta di quel militante incontro con una leggenda vivente dell'infinito secolo breve, la Fallaci ricordò in Sharon, o in lui lo rilesse coi suoi nuovi occhi di rabbia e malattia, un senso di pietà e vergogna della violenza sconosciuto agli arabi. Fino a rimproverare a se stessa, in un altrettanto raro slancio autocritico, di aver difeso i palestinesi più di quanto meritassero. Per un attimo solo fu così in piena sintonia con lo Sharon che, fresco premier, rimpianse pubblicamente di non aver fatto uccidere Arafat allora, nel 1982, quando aveva il Rais a tiro e ancora lontano dalle protezioni diplomatiche riservategli poi in qualità di quasi capo di un quasi stato. Ancora più tardi, nel 2004, dalle memorie lontane di quella Beirut incendiata del 1982, Oriana vide riemergere i tratti giovanili di Osama Bin Laden, incrociato nella hall di un albergo, e impressosi sul suo affollato rullino mentale per «un'occhiata di antipatia. Anzi, di ostilità». Il passo pesante del carrarmato Sharon messo a fuoco allora era ormai depositato nel fondo di un passato, professionale e ideologico, cui lei non apparteneva più, tanto da farle dubitare del proprio realismo di allora. L'irreale, inafferrabile, inspiegabile pulviscolo di morte del Ground Zero, invece, ancora ben per aria.

Altri fantasmi, altre polveri popolavano l'immaginario della giornalista, alla fine dell'agosto del 1982, quando in Israele incontrò quell'Ariel Sharon già inseguito nei giorni dell'assedio di Beirut, vissuto in prima persona da entrambi, seppur in posizione diversa. «So che lei è qui per aggiungere uno scalpo alla sua collezione» le disse in apertura Sharon, sfoderando un sense of humor riconosciutogli anche dai suoi avversari di sempre e riferito, con implicita soddisfazione, dalla giornalista fiorentina. E lo scalpo, Oriana, se lo prese, ricordando a Sharon che lei a Beirut aveva visto cadere dal cielo, sulle teste dei civili, una quantità di fuoco come non l'aveva conosciuta in nessuna guerra, lei che le aveva viste tutte e che da tutte s'era portata uno scalpo, dopo che Arik aveva vanamente, ma poco persuasivamente spiegato alcune scelte strategiche con la volontà di risparmiare vittime civili. E quando la Fallaci chiese conto a Sharon del diritto dei palestinesi a uno stato, lui rispose con franchezza disarmante. «Ma i palestinesi una patria ce l'hanno! È la Palestina che si chiama Giordania, un tempo Transgiordania. Senta, questa storia dei palestinesi mi imbarazza da almeno dodici anni, e più ci penso e più mi convinco che la Giordania è l'unica soluzione. Quel che conta per me è che una Palestina già esiste, e per questo non c'è alcun bisogno di crearne una nuova. E aggiungo che noi non dovremo mai permettere che nasca un altro stato palestinese. Non succederà mai: la Giudea e la Samaria non saranno toccate. E neppure Gaza. Scordatevelo». Poi i toni si accesero fino a degenerare in un litigio che – come annotava un impietoso editoriale del «Time» di un mese più tardi, tutto dedicato all'invadenza della questione israele-palestinese sui media statunitensi – sarebbe valso a entrambi i coscienti attori, l'intervistatrice e l'intervistato, la prima pagina sul «Post».

Ma oltre la linea d'ombra delle civetterie mediatiche di due personaggi che non vi si sono mai sottratti, quell'intervista del 1982 ha il grande merito del giornalismo migliore: perché ferma il tempo e lo fotografa con esattezza e precisione. Dice, certo, chi era Oriana Fallaci. Ma dice, soprattutto, chi era Ariel Sharon. Niente stato palestinese, niente restituzione dei territori alla cui occupazione Arik aveva volonterosamente contribuito nel 1967, e la Giordania come orizzonte definitivo, finale, di una soluzione all'annosa vicenda dei palestinesi. Alla fine dell'estate di Beirut, dunque, così parlò Ariel Sharon. Così, in poche frasi incalzate da un'intervistatrice aggressiva e coraggiosa, spiegò la più semplice, brutale, «pulita» delle soluzioni: che i palestinesi, se proprio son convinti di esistere, si spostino tutti di qualche decina di chilometri verso est. Meglio – ovvio – se spontaneamente. Agli ebrei la Palestina storica, la terra che va dal Mediterraneo al Giordano, e ai palestinesi il resto del mondo. Per carità, non che il trasferimento immaginato nei primi anni ottanta da Arik fosse un'idea nuova. Era anzi il programma storico di una parte della destra israeliana, e a suo tempo aveva solleticato addirittura il padre della patria David Ben Gurion. Ma espressa da un ministro della Difesa in carica, quindici anni dopo i sei terribili giorni del 1967, e proprio mentre Israele marciava su Beirut, assumeva tutto un altro tono. Con i muscoli di Tel Aviv ben in vista davanti al mondo, l'idea di «traslocare» i palestinesi mise a molti una gran paura, e a qualcuno un certo appetito.

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Da quel dicembre del 2003, l'estate libanese del 1982 sembrò lontana secoli, e per capirlo bastava vedere chi allora erano i nemici di Arik, e chi sono stati i migliori alleati dell'ultima, sconcertante fase della sua carriera, quando nel ritiro da Gaza il vecchio comandante condensò la nascita di uno statista in grado di prendere di petto la storia. Tra i primi firmatari della petizione che ne chiesero e ottennero le dimissioni, a suo tempo, c'era il nome di Galia Golan. La cofondatrice di «Peace now» del 2005 è stata tra le personalità pubbliche più attive nell'organizzazione dei comitati pro-ritiro, quelli che distribuivano nastri blu da attaccare alle macchine, quelli che manifestavano a Tel Aviv contro il fanatismo messianico dei coloni. A una manifestazione ufficiale per il ritiro, ricorda Galia, il suo sguardo incrociò quello di Arik. Immobili, senza sorridere o muovere la testa, si sono guardati, fissati. Senza che ci fossero parole possibili. Comitati pro-Sharon, insomma, zeppi dei suoi avversari storici, di tanti che credevano che sarebbero morti orgogliosi di non avergli mai stretto la mano e di increduli, riluttanti, pacifisti. Con tanti complimenti da parte di Avraham Yeoshua, Amos Oz e David Grossmann. Perché i cromosomi del leader si vedono nella capacità di farsi seguire, ammirare, difendere. Anche cambiando del tutto seguaci e sostenitori. O obbligando gli avversari di prima a cambiare opinione di fronte a proposte epocali, che in coscienza non si possono rifiutare.

Come molti altri prima di lui ha capito l'insostenibilità della colonizzazione, mentre resta impossibile sapere quanto, nel profondo, ne abbia definito l'ingiustizia. Certo è, però, che come nessun altro prima ha saputo agire per risolverla. Spiazzando tutti, ancora una volta. A fronte dello storico ritiro da Gaza, l'aver spaccato senza troppe remore il Likud, un partito schiavo dei suoi errori e dell'essersi legato con troppi opportunismi al fanatismo messianico del nuovo avamposto, può sembrare oggi cosa da poco. Ma l'invenzione di Kadima, in un paese che dalla sua nascita ha fatto a meno di un centro politico, sapeva di impresa epocale. Questo poteva e doveva essere.

Qualche anno fa, quando ancora era un falco, Sharon ha pubblicato un'autobiografia intitolata Il guerriero. La vita politica israeliana, vi è scritto, è come una ruota che gira incessantemente, e quel che oggi sta sotto domani sarà sopra. Ancora non sapeva, probabilmente, che la più forte incarnazione di questa ingenua metafora da militare che impugna la penna come una vanga doveva ancora arrivare. Con lui minacciato di morte, come già Rabin, intento a sgomberare i coloni e a fondare un partito «per fare la pace coi palestinesi». Di fronte a un mondo in attesa, senza sorrisi sarcastici o sconcertati per la parola «pace» stampata come un manifesto sulla sua bocca: solo con la prudente, timorosa speranza che forse – forse – quella fosse davvero la volta buona.


E invece – invece – la tarda sera del 4 gennaio del 2006, mentre si contavano ormai le settimane che separavano Israele dall'incoronazione per acclamazione del generale Arik e della sua Kadima, la vita, la carriera politica, la stessa immagine di Ariel Sharon, si sono frantumate tutte insieme. L'ictus di un corpo anziano e mai troppo curato, al collasso, ha spezzato una parabola in lineare benché imprevedibile ascesa.

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