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| << | < | > | >> |Indice_______________________________________________________ Parte I La modernità trionfante _______________________________________________________ 1 I lumi della ragione 21 1. L'ideologia occidentale 21 2. Tabula rasa 22 3. La natura, il piacere e il gusto 25 4. L'utilità sociale 28 5. Rousseau, critico modernista della modernità 33 6. Il capitalismo 37 7. L'ideologia modernista 42 2 L'anima e il diritto naturale 49 1. La resistenza agostiniana 49 2. Descartes, doppiamente moderno 59 3. L'individualismo di Locke 64 4. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino 70 5. La fine della modernità pre-rivoluzionaria 74 3 Il senso della storia 81 1. Lo storicismo 81 2. La rivoluzione 85 3. La modernità senza rivoluzione: Tocqueville 90 4. La nostalgia dell'essere 93 5. La ricostruzione dell'ordine 94 6. La «bella totalità» 97 7. La prassi 100 8. Addio alla rivoluzione 108 _______________________________________________________ Parte II La modernità in crisi _______________________________________________________ 1 La scomposizione 113 1. Le tre tappe della crisi 113 2. Quattro frammenti 118 3. L'unità nascosta 121 2. La distruzione dell'Io 129 1. Ancora Marx 129 2. Nietzsche 131 3. Freud 143 4. La sociologia di fine Ottocento 155 5. Le due critiche della modernità 157 3. La nazione, l'impresa, il consumatore 163 1. Gli attori della modernizzazione 163 2. La nazione 164 3. L'impresa 169 4. Il consumo 172 5. La tecnica 175 4. Gli intellettuali contro la modernità 181 1. Horkheimer e la scuola di Francoforte 182 2. Michel Foucault, il potere e i soggetti 197 3. I clerici contro il secolo 206 5. Vie d'uscita dalla modernità 211 1. Il mercato e il ghetto 213 2. I postmodernismi 220 3. La via di mezzo 230 _______________________________________________________ Parte III Nascita del soggetto _______________________________________________________ 1. Il soggetto 239 1. Ritorno alla modernità 239 2. La soggettivazione 243 3. L'individuo, il soggetto, l'attore 246 4. L'origine religiosa del soggetto 252 5. La modernità divisa 256 6. Donne soggetti 262 7. L'altro 263 8. II ritorno del soggetto 268 9. La modernità come produzione del soggetto 271 10. Una dissociazione controllata 273 2. Il soggetto come movimento sociale 275 1. La contestazione 275 2. Il soggetto e le classi sociali 277 3. Dalle classi ai movimenti 282 4. La società programmata 287 5. L'uno o l'altro 295 3. Io non è l'Io 299 1. Le discipline della ragione 299 2. L'individualismo 302 3. La dissoluzione dell'Io 311 4. I1 miraggio della modernità assoluta 317 5. L'Io [Je] contro il Sé 320 6. Il soggetto assente 327 7. Impegno e disimpegno 330 8. L'etica 334 9. Il soggetto è storico? 338 10. La speranza 342 4. L'ombra e la luce 347 1. I due aspetti del soggetto 347 2. Il ritorno della memoria 350 3. Le trappole dell'identità 354 4. Religione e modernità 358 5. Il pericolo totalitario 360 6. Il moralismo 366 7. Libertà e liberazione 368 8. Modernità e modernizzazione 370 9. Altrimenti 375 5. Che cos'è la democrazia? 379 1. Dalla sovranità popolare ai diritti dell'uomo 380 2. La libertà negativa 382 3. La cittadinanza 384 4. La rappresentatività 385 5. I partiti 386 6. Il liberalismo non è la democrazia 388 7. La teoria della democrazia di Jürgen Habermas 391 8. La democratizzazione 398 9. Lo spazio pubblico 402 10. La personalità democratica 405 _______________________________________________________ Punti d'arrivo _______________________________________________________ 1. Immagini della società 409 2. Il ruolo degli intellettuali 420 3. La piena modernità 424 4. Percorsi 427 5. Tappa 430 _______________________________________________________ Bibliografia 435 Indice dei nomi citati 443 Indice analitico 446 |
| << | < | > | >> |Pagina 11PresentazionePresenza centrale nelle nostre idee e nelle nostre pratiche da oltre tre secoli la modernità è oggi messa in discussione, respinta o ridefinita. Ma che cos'è la modernità? L'idea di modernità, nella sua forma più ambiziosa, fu l'affermazione secondo cui l'uomo è ciò che fa, e dunque deve esistere una corrispondenza sempre più stretta tra la produzione, resa più efficace dalla scienza, dalla tecnologia o dall'amministrazione, l'organizzazione della società regolata dalla legge e la vita personale, mossa dall'interesse ma anche dalla volontà di liberarsi da tutte le costrizioni. Su cosa si basa questa corrispondenza tra una cultura scientifica, una società ordinata e individui liberi, se non sul trionfo della ragione? Essa sola istituisce una corrispondenza tra l'azione umana e l'ordine del mondo; quella corrispondenza che tante concezioni religiose, nonostante il finalismo proprio delle religioni monoteistiche basate su una rivelazione, già avevano cercato di instaurare. La ragione anima la scienza e le sue applicazioni; inoltre, comanda l'adattamento della vita sociale ai bisogni individuali o collettivi; infine, sostituisce all'arbitrio e alla violenza lo stato di diritto e il mercato. L'umanità, agendo secondo le sue leggi, procede contemporaneamente verso l'abbondanza, la libertà e la felicità. Proprio questa affermazione centrale è stata contestata o respinta dai critici della modernità. In cosa la libertà, la felicità personale o la soddisfazione dei bisogni sarebbero razionali? Ammettiamo che l'arbitrio del principe e il rispetto di consuetudini locali e professionali si oppongano alla razionalizzazione della produzione e che questa esiga che cadano le barriere, che arretri la violenza e che si instauri uno stato di diritto. Ciò peraltro non ha niente da spartire con la libertà, la democrazia e la felicità individuale, come ben sanno i francesi, il cui stato di diritto si è costituito insieme alla monarchia assoluta. Che l'autorità legale razionale sia associata all'economia di mercato nella costruzione della società moderna non basta - tutt'altro - a dimostrare che lo sviluppo e la democrazia siano legati reciprocamente dalla forza della ragione. Essi sono uniti dalla comune lotta contro la tradizione e l'arbitrio, dunque negativamente, non positivamente. La stessa critica vale, a maggior ragione, contro il presunto legame tra razionalizzazione e felicità. La liberazione dai controlli e dalle forme tradizionali di autorità consente la felicità ma non la garantisce; richiede la libertà ma contemporaneamente la sottopone all'organizzazione centralizzata della produzione e del consumo. L'affermazione secondo cui il progresso sarebbe il cammino verso l'abbondanza, la libertà e la felicità, e questi tre obiettivi sarebbero strettamente legati gli uni agli altri, non è che un'ideologia costantemente smentita dalla storia. Inoltre, dicono i critici più radicali, il cosiddetto regno della ragione non coincide forse con l'influenza crescente del sistema sugli attori, con la normalizzazione e la standardizzazione che, dopo aver distrutto l'autonomia dei lavoratori, si estendono al mondo del consumo e della comunicazione? Questo dominio si esercita talvolta liberamente, talvolta in modo autoritario, ma in tutti i casi questa modernità, anche e soprattutto quando si richiama alla libertà del soggetto, ha come fine la sottomissione di ciascuno agli interessi di tutti, si tratti dell'impresa, della nazione, della società oppure della ragione stessa. E non è forse in nome della ragione e del suo universalismo che il dominio dell'uomo occidentale maschio, adulto e istruito si è esteso sul mondo intero, dai lavoratori ai colonizzati, dalle donne ai bambini? Come simili critiche potrebbero non risultare convincenti alla fine di un secolo dominato dal movimento comunista, che impose a un terzo del mondo regimi totalitari fondati sulla ragione, sulla scienza e sulla tecnica? Ma l'Occidente risponde che da lungo tempo ormai, da quando la Rivoluzione francese si trasformò in Terrore, diffida di questo razionalismo volontarista, di questo dispotismo illuminato. Lentamente, infatti, a una visione razionalistica dell'universo e dell'azione umana ha sostituito una concezione più modesta, puramente strumentale, di una razionalità messa sempre più al servizio di domande, di bisogni che, via via che ci si inoltra in una società di consumo di massa, sfuggono viepiù alle regole cogenti di un razionalismo centrato sull'accumulazione piuttosto che sul consumo dei più. Infatti, questa società dominata dal consumo e più recentemente dalle comunicazioni di massa è distante dal capitalismo puritano cui si riferiva Weber non meno che dal richiamo di tipo sovietico alle leggi della storia. Ma altri critici insorgono contro questa concezione dolce della modernità. Non si perde forse essa nell'inconsistenza; non accorda la massima importanza alle esigenze mercantili più immediate, dunque meno importanti? Non è forse cieca in quanto riduce la società a un mercato e non si cura né delle diseguaglianze che essa accresce né della distruzione dell'ambiente naturale e sociale che essa accelera? Per sfuggire alla forza di questi due tipi di critiche, molti si appagano di una concezione ancora più modesta della modernità. Per costoro, il richiamo alla ragione non fonda alcun tipo di società; esso è una forza critica che dissolve i monopoli come le corporazioni, le classi o le ideologie. La Gran Bretagna, i Paesi Bassi, gli Stati Uniti e la Francia sono entrati nella modernità mediante una rivoluzione e il rifiuto dell'assolutismo. Oggigiorno, quando la parola rivoluzione è carica più di connotazioni negative che positive, si parla piuttosto di liberazione, si tratti della liberazione di una classe oppressa, di una nazione colonizzata, delle donne dominate o delle minoranze perseguitate. Dove porta tale liberazione? Per gli uni, all'eguaglianza delle opportunità; per gli altri, a un multiculturalismo ben temperato. Ma la libertà politica non è soltanto negativa, quando è ridotta d'impossibilità per chiunque di giungere al potere o di restarvi contro la volontà della maggioranza, secondo la definizione formulata da Isaiah Berlin? La felicità è semplicemente la libertà di seguire la propria volontà o i propri desideri? Insomma, la società moderna tende a eliminare tutte le forme di sistema e tutti i princìpi di organizzazione per essere soltanto un flusso molteplice di mutamenti, dunque di strategie personali, relative all'organizzazione o politiche, regolate dalla legge e dai contratti? Un liberalismo così coerente non definisce più alcun principio di governo, di gestione o di educazione. Esso non garantisce più la corrispondenza tra il sistema e l'attore, obiettivo supremo dei razionalisti dei lumi, e si riduce a una tolleranza che è rispettata solo in assenza di crisi sociale grave e che giova soprattutto a quanti dispongono delle risorse più abbondanti e più varie. Una concezione così debole della modernità non si vanifica da sé? È questo il punto di partenza dei critici postmoderni. Nella vita moderna, nella moda e nell'arte moderna, Baudelaire vedeva la presenza dell'eterno nell'istante. Ma non era forse una semplice transizione dalle «visioni del mondo» fondate su stabili princìpi religiosi o politici verso una società poststorica, tutta fatta di varietà dove il qui e l'altrove, il vecchio e il nuovo coesistono senza pretesa di egemonia? E questa cultura postmoderna non è forse incapace di creare, non è forse ridotta a riflettere le creazioni delle altre culture, di quelle che si consideravano portatrici di una verità? Dalla sua forma più dura alla sua forma più debole, più modesta, l'idea di modernità, quando è definita mediante la distruzione degli antichi ordini e mediante il trionfo della razionalità, oggettiva o strumentale, ha perso la propria forza di liberazione e di creazione. Essa stenta a resistere alle forze avverse almeno quanto il generoso richiamo ai diritti dell'uomo fatica a resistere all'ascesa del differenzialismo e del razzismo. Ma occorre forse per questo passare nel campo avverso e aderire al ritorno in forze dei nazionalismi, dei particolarismi, degli integralismi, religiosi o no, che sembrano crescere ovunque, nei paesi più moderni come in quelli più brutalmente sconvolti da una modernizzazione forzata? Comprendere la formazione di simili movimenti richiede, certo, un'interrogazione critica sull'idea di modernità, quale si è sviluppata in Occidente, ma non può giustificare in alcun modo l'abbandono, contemporaneamente, dell'efficacia della ragione strumentale, della forza liberatrice del pensiero critico e dell'individualismo. Eccoci giunti al punto di partenza di questo libro. Se noi rifiutiamo il ritorno alla tradizione e alla comunità, dobbiamo cercare una nuova definizione della modernità e una nuova interpretazione della nostra storia «moderna», così spesso ridotta all'ascesa, necessaria e liberatrice al contempo, della ragione e della secolarizzazione. Se la modernità può essere definita solo attraverso la razionalizzazione e se, viceversa, una visione della modernità come flusso incessante di mutamenti tiene troppo poco conto della logica del potere e della resistenza delle identità culturali, non diviene forse chiaro che la modernità si definisce proprio grazie a questa separazione crescente tra il mondo oggettivo, creato dalla ragione in accordo con le leggi della natura, e il mondo della soggettività, cioè anzitutto dell'individualismo, o più precisamente di un appello alla libertà personale? La modernità ha infranto il mondo sacro, che era naturale e divino al tempo stesso, trasparente alla ragione e creato. Essa non l'ha sostituito con quello della ragione e della secolarizzazione, rinviando i fini ultimi in un mondo che l'uomo non potrebbe più raggiungere; essa ha imposto la separazione tra un soggetto sceso dal cielo sulla terra, umanizzato, e il mondo degli oggetti, manipolati dalle tecniche. All'unità di un mondo creato dalla volontà divina, dalla ragione o dalla storia, ha sostituito la dualità di razionalizzazione e soggettivazione. Ecco quale sarà lo sviluppo di questo libro. Esso rievocherà anzitutto il trionfo delle concezioni razionalistiche della modernità, malgrado la resistenza del dualismo cristiano che animò il pensiero di Descartes , le teorie del diritto naturale e la dichiarazione dei diritti dell'uomo. Poi seguirà la distruzione, nel pensiero e nelle pratiche sociali, di questa idea di modernità, sino alla completa separazione tra un'immagine della società come flusso di mutamenti incontrollabili in mezzo ai quali gli attori elaborano strategie di sopravvivenza o di conquista, e, d'altro canto, un immaginario culturale postmoderno. Infine, proporrà di ridefinire la modernità come relazione, carica di tensioni, tra la ragione e il soggetto, tra la razionalizzazione e la soggettivazione, tra lo spirito del Rinascimento e quello della Riforma, tra la scienza e la libertà. Posizione ugualmente distante sia dal modernismo oggi in declino sia dal postmodernismo il cui fantasma si aggira per ogni dove. Da che parte bisogna ingaggiare la battaglia principale? Contro l'orgoglio dell'ideologia modernista o contro la distruzione dell'idea stessa di modernità? Gli intellettuali hanno scelto più frequentemente la prima risposta. Il nostro secolo, che ai tecnologi e agli economisti appare l'epoca della modernità trionfante, è stato dominato intellettualmente dal discorso antimodernista. Tuttavia, oggi, mi sembra più reale l'altro pericolo, quello della dissociazione completa del sistema dai suoi attori, del mondo tecnico o economico dal mondo della soggettività. Più la nostra società sembra ridursi a un'impresa che lotta per sopravvivere su un mercato internazionale, più al tempo stesso si diffonde ovunque l'ossessione di un'identità che non è più definita in termini sociali, si tratti del nuovo comunitarismo dei paesi poveri o dell'individualismo narcisistico dei paesi ricchi. La separazione completa della vita pubblica dalla vita privata comporterebbe il trionfo di poteri che sarebbero definiti ormai soltanto in termini di gestione e di strategia, e di fronte ai quali i più si ripiegherebbero entro uno spazio privato: ciò scaverebbe un abisso senza fondo là dove si trovava lo spazio pubblico, sociale e politico, e là dove erano nate le democrazie moderne. Come non vedere in una simile situazione una regressione verso le società in cui i potenti e il popolo vivevano in universi separati, quello dei guerrieri conquistatori da una parte, quello delle persone comuni chiuse in una società locale dall'altra? Soprattutto, come non vedere che il mondo è diviso più profondamente che mai tra un Nord, ove regnano lo strumentalismo e il potere, e un Sud, che si chiude nell'angoscia della propria identità perduta? Ma tale rappresentazione non corrisponde del tutto alla realtà. Noi non viviamo completamente in una situazione postmoderna, di dissociazione completa tra il sistema e l'attore, ma almeno altrettanto in una società postindustriale, che io preferisco chiamare programmata, definita dall'importanza centrale delle industrie culturali (medicina, istruzione, informazione), ove un conflitto centrale contrappone gli apparati di produzione culturale alla difesa del soggetto personale. Questa società postindustriale costituisce un campo d'azione culturale e sociale ancora più fortemente istituzionalizzato di quanto non fosse la società industriale oggi in declino. Il soggetto non può dissolversi nella postmodernità poiché esso si afferma nella lotta contro i poteri che impongono il proprio dominio in nome della ragione. L'estensione senza limiti degli interventi dei poteri scioglie i1 soggetto dall'identificazione con le proprie opere e dalle filosofie troppo ottimistiche della storia.
Come ricreare alcune mediazioni tra economia e cultura? Come reinventare la
vita sociale e in particolare la vita politica, la cui decomposizione attuale,
quasi ovunque nel mondo, è il prodotto di questa dissociazione tra gli strumenti
e il senso, tra i mezzi e i fini? Ecco quale
sarà più tardi il seguito politico di questa riflessione, che cerca di salvare
l'idea di modernità sia dalla forma conquistatrice e brutale che
le ha dato l'Occidente sia dalla crisi che essa subisce da un secolo a
questa parte. La critica della modernità qui presentata vuole liberarla
da una tradizione storica che l'ha ridotta alla razionalizzazione e introdurre
in essa il tema del soggetto personale e della soggettivazione.
La modernità non si basa su un principio unico e ancor meno sulla
semplice distruzione degli ostacoli che si oppongono al regno della ragione;
essa è fatta dal dialogo tra la ragione e il soggetto. Senza la ragione, il
soggetto si chiude nell'ossessione della propria identità; senza
il soggetto, la ragione diviene lo strumento della potenza. In questo
secolo, abbiamo conosciuto sia la dittatura della ragione sia le perversioni
totalitarie del soggetto; le due figure della modernità, che si sono combattute
o ignorate, potranno finalmente comunicare e imparare a convivere?
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