Copertina
Autore Michel Tournier
Titolo Il Re degli ontani
EdizioneGarzanti, città, 2009 [1987], Nuova biblioteca 73 , pag. 464, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3,5 cm , Isbn 978-88-11-68363-6
OriginaleLe Roi des aulnes
EdizioneGallimard, Paris, 1970
TraduttoreOreste del Buono
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa francese
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Indice


Nota di Oreste del Buono                      9

I   • Scritti sinistri d'Abel Tiffauges      11
II  • I piccioni del Reno                   151
III • Iperboreo                             177
IV  • L'orco di Rominten                    217
V   • L'orco di Kaltenborn                  265
VI  • L'Astroforo                           355

'Allemagne, notre mère à tous...'           393


 

 

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Pagina 13

3 gennaio 1938. Sei un orco, mi diceva a volte Rachel. Un Orco? Cioè un mostro meraviglioso, riemergente dalla notte dei tempi? Io ci credo senz'altro, alla mia natura meravigliosa, voglio dire a questa segreta connivenza che unisce in profondità la mia avventura personale al corso delle cose, e le permette d'inclinarlo nel senso giusto.

E credo pure d'essere uscito dalla notte dei tempi. Mi ha sempre scandalizzato la frivolezza degli uomini che si preoccupano appassionatamente di quanto sarà di loro dopo la morte e si disinteressano completamente di quanto è stato di loro prima della nascita. L'aldiqua val bene l'aldilà, tanto più che, probabilmente, ne detiene la chiave. Io, appunto, c'ero già mille anni fa, centomila anni fa. Quando la terra era ancora una palla di fuoco vorticante in un cielo d'elio, l'anima che la faceva ardere, che la faceva avanzare, era la mia. D'altronde la vertiginosa antichità delle mie origini basta a spiegare il mio potere soprannaturale: l'essere e io, camminiamo da una tale eternità fianco a fianco, ci teniamo compagnia da una tale eternità che, senza provare reciprocamente un affetto particolare, ma in grazia di una reciproca abitudine vecchia come il mondo, c'intendiamo, e non ci neghiamo nulla.

Per quel che riguarda la mostruosità...

Tanto per cominciare, cos'è un mostro? L'etimologia riserva già una sorpresa piuttosto sconvolgente: mostro viene da mostrare. Il mostro è colui che viene mostrato — con il dito, nelle fiere, nei circhi, eccetera. E, dunque, più un essere è mostruoso, più deve essere esibito. Ecco quel che fa drizzare il pelo a me che posso vivere solo nell'oscurità e che sono convinto di venir lasciato vivere dalla folla dei miei simili a causa d'un malinteso, il malinteso dell'ignoranza.

Per non essere un mostro, bisogna che uno sia simile ai suoi simili, sia conforme alla specie, sia fatto a immagine dei suoi genitori. Oppure che uno disponga di una progenitura che ne faccia il primo anello d'una nuova specie. Poiché i mostri non si riproducono. I vitelli a sei zampe non durano in vita. Il mulo e il bardotto nascono sterili, come se la natura volesse tagliar corto con un esperimento che giudica irragionevole. E proprio in questa constatazione che rintraccio la mia eternità, la mia eternità fa le veci dei genitori e della progenitura. Vecchio come il mondo, come il mondo immortale, io posso avere solo un padre e una madre putativi, e figli adottivi.

...

Rileggo quanto ho scritto. Mi chiamo Abel Tiffauges, ho un garage a Place de la Porte-des-Ternes, e non sono pazzo. Tuttavia quanto ho scritto va considerato con assoluta serietà. Allora? Allora il seguito avrà la funzione essenziale di dimostrare — o più esattamente di illustrare — la serietà delle righe qui sopra.


6 gennaio 1938. Disegnato al neon nel cielo umido e nero il cavallo alato del Mobilgas stinge sulle mie mani, per spegnersi immediatamente. Questo palpito rossastro e il sentore di grasso rancido che impregna ogni cosa intorno a me compongono un'atmosfera che odio, e di cui, tuttavia, inconfessabilmente mi compiaccio. Non mi basta tirare in ballo l'abitudine: mi è familiare come il calore del mio letto o la faccia che la mattina ritrovo nello specchio. Ma, se per la seconda volta mi sistemo, con una stilografica nella mano sinistra, davanti a questa pagina bianca — la terza dei miei Scritti sinistri è perché ho la certezza d'essere arrivato a un momento decisivo della mia esistenza e perché conto almeno in parte su questo diario per evadere dal garage, dalle mediocri occupazioni che m'invischiano, in un qualche senso, da me stesso.

I segnali sono ovunque. Ma solo una luce o un grido folgoranti riescono a forare la nostra miopia o la nostra sordità. Dai miei anni d'iniziazione al collegio Saint-Christophe, non ho mai smesso di osservare i geroglifici tracciati sulla mia strada o di ascoltare confuse parole mormorate ai miei orecchi, senza capirci nulla, senza ricavarne altro che qualche dubbio supplementare sulla condotta della mia vita, ma anche, è vero, la prova reiterata che il cielo non è vuoto. Questa luce, le circostanze più mediocri l'han fatta scaturire ieri, e non ha finito d'illuminare il mio futuro.

Un banale incidente mi impedisce temporaneamente l'uso della mano destra. Ho voluto con qualche colpo di manovella rimettere in moto i pezzi d'un motore che le batterie non parevano in grado di rianimare. Un contraccolpo della manovella mi ha preso a tradimento, ma per fortuna mentre avevo il braccio rilassato e la spalla pronta a cedere. L'urto, l'ha sopportato tutto il pugno, e mi pare proprio d'averne sentito scricchiolare i legamenti. Poco è mancato che vomitassi dal dolore, e sotto il grande involucro di garze e cerotti posato davanti a me avverto ancora battere un polso lancinante. Incapace di sbrigare un qualsiasi lavoro in garage con una sola mano, sono venuto a rifugiarmi al secondo piano, in questa stanzetta in cui ammucchio i libri dei conti e i giornali vecchi. Tanto per distrarmi, ho cercato di scarabocchiare parole senza conseguenza su una pagina di taccuino.

È stato allora che ho trovato d'improvviso la rivelazione che sapevo scrivere con la mano sinistra! Sì, senza esercitazioni preliminari, senza impaccio né lentezza, la mia mano sinistra traccia fermamente caratteri compiuti, privi d'ogni malaccortaggine puerile, e per di più in nulla somiglianti alla mia scrittura abituale, quella della mano destra. Tornerò su questo avvenimento sconvolgente di cui sospetto l'origine, ma qui all'inizio mi è parso opportuno annotare le circostanze che mi hanno fatto per la prima volta servire della penna al solo scopo di vuotare il mio cuore e proclamare la verità.

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Pagina 33

25 gennaio 1938. Il collegio Saint-Christophe occupa a Beauvais le antiche costruzioni dell'abbazia cistercense dallo stesso nome, fondata nel 1152 e soppressa nel 1785. Del Medioevo restano appena le volte della chiesa abbaziale restaurata, e l'essenziale del collegio è installato nell'immenso edificio abbaziale costruito da Jean Aubert nel XVIII secolo. Questi particolari sono importanti, poiché l'atmosfera di rigore e d'austerità cui eravamo sottomessi doveva senz'altro qualcosa alle origini e alla storia di quei muri. Da nessuna parte tale atmosfera era avvertibile più che nel chiostro, l'architettura mediocre del quale risaliva al XVII secolo, adibito come luogo di ricreazione per gli interni la mattina prima dell'arrivo degli esterni e la sera dopo la loro partenza. Avevamo diritto solo alle gallerie e potevamo appena ammirare dal di sopra della balaustrata che lo circondava il piccolo giardino, diligentemente amministrato dal padre di Nestor, piantato di sicomori che l'estate diffondevano una luce celeste, ornato al centro da una vasca sbreccata dove vegetava un mucchio di felci. La tristezza che emanava dal luogo era resa più opprimente, e addirittura respirabile, dagli alti muri elevantisi da ogni lato.

In assenza degli esterni che costituivano il nostro legame vivente con il mondo di fuori, ci ritrovavamo dunque due volte al giorno in questa prigione verde che tra noi chiamavamo l'acquario. I giochi vivaci vi erano proscritti, e d'altronde lo spirito del luogo sarebbe bastato a soffocare qualsiasi velleità, ma avevamo pur sempre la facoltà d'andare e venire, di parlare, in modo che l'acquario — più ancora della cappella, del refettorio e dei dormitori — era il luogo di riunione abituale degli interni, il punto di concentramento dei centocinquanta ragazzi sottoposti a una vita collegiale, ripiegata, reclusa. Nestor vi si mostrava raramente, allo stesso modo, l'ho già detto, che non era dei nostri la sera in refettorio. Tuttavia non era assente — anzi — e i suoi due factotum, Champdavoine e Lutigneaux, s'incaricavano di trasmettere i suoi messaggi e i suoi ordini. Si trattava di solito d'un traffico d'influenze favorito in parte dal sistema molto sottile delle punizioni e delle esenzioni dalle punizioni in vigore al Saint-Christophe, e in parte dal potere occulto che Nestor esercitava in quel settore essenziale.

La gamma delle punizioni del Saint-Christophe, la conoscevo persino troppo, poiché la percorrevo incessantemente da un capo all'altro. C'era il "plotone", lunga fila d'allievi condannata per un quarto d'ora, una mezz'ora, un'ora o più, a girare in silenzio sotto il portico, il "sequestro" che proibiva al punito di rivolgere la parola a chicchessia, se non per rispondere alla domanda di un insegnante o di un sorvegliante, l'"erectum" che obbligava il punito a mangiare al refettorio solo, a un tavolino, e in piedi. Ma avrei sopportato mille volte tutte queste vessazioni pur di non sentire più accollata al mio nome l'orribile formula che mi preannunciava angoscia e umiliazione: "Tiffauges ad colaphum!". Perché allora bisognava lasciar la classe, salire due piani e imboccare un corridoio deserto per spingere infine la porta dell'anticamera del prefetto addetto alla disciplina. Là, ci si costringeva su un inginocchiatoio stranamente collocato al centro della stanza davanti alla porta dell'ufficio, e si doveva agitare una campanella posata per terra a portata di mano. Un inginocchiatoio, l'inginocchiarsi, una campanella che suonava flebilmente, non posso impedirmi oggi di vedere in quel rito punitivo una satanica parodia dell'elevazione. Non era, infatti, per compiere un atto d'adorazione che si andava ad colaphum! La campanella aveva suonato, l'attesa poteva variare da qualche secondo a un'ora, e costituiva la parte più raffinatamente insopportabile della punizione. Alla fine, prima o poi, la porta dell'ufficio si apriva tempestosamente, il prefetto ne balzava fuori in un furioso vorticar di sottana tenendo nella mano sinistra un biglietto di scarcerazione. Si precipitava sull'inginocchiatoio, prendeva a schiaffoni il colpevole, gli metteva in mano la prova che la sua pena era scontata, e scompariva nello stesso vortice di movimento.

Un sistema d'esenzioni consentiva di sfuggire alle diverse punizioni secondo un tariffario calcolato con finezze da casuisti. Le esenzioni erano piccoli rettangoli di cartone bianco, blu, rosa o verde — secondo il loro valore — che ricompensavano i buoni voti o i primi posti nei compiti in classe. Sapevamo così che nella mente dei padri sei ore di plotone avevano lo stesso valore di una giornata di sequestro, di due giorni d'erectum o di un colaphus, ed erano riscattati da un primo posto in un compito in classe o da due secondi posti, tre terzi posti o quattro voti al di sopra del 16. Ma l'allievo punito preferiva spesso soffrire e conservare le esenzioni, poiché queste permettevano anche di guadagnare una "piccola uscita" (la domenica pomeriggio) o una "grande uscita" (l'intera domenica).

Tuttavia il sistema restava quasi sempre teorico e come colpito da paralisi, perché a dispetto dello spirito della comunione dei santi e della reversibilità dei meriti, i padri avevano deciso che le esenzioni dovevano essere per forza personali — il numero del beneficiario figurava sul rettangolo di cartone — e che ne potevano usufruire solo coloro che le avevano meritate. Ed erano proprio coloro che ne mietevano di più — i buoni allievi, i secchioni, i preferiti dagli insegnanti e dai sorveglianti — che ne avevano meno bisogno, dato che una strana protezione pareva allo stesso tempo allontanare dal loro capo plotone, sequestro, erectum e colaphus. Ci voleva proprio tutto il genio di Nestor per ovviare a una simile imperfezione.

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Pagina 160

Essendo di statura e forza inconsuete, con i commilitoni Tiffauges poteva mostrarsi chiuso, poco cordiale, indifferente alle loro preoccupazioni quotidiane. Chiunque altro sarebbe stato tacciato di boria, lui veniva invece considerato uno stupido o, nel caso migliore, un orso in fondo non cattivo. Non se ne curava, valutando la distanza invalicabile che la sua singolare vocazione creava tra i compagni e se stesso. Questa guerra, questa "drôle de guerre" come si diceva allora, nella quale loro erano stati sbattuti senza sapere perché e non riuscivano che a guardarsi in faccia l'un l'altro con uno sgomento a seconda dei casi ilare o lamentoso, era una faccenda sua, un suo affare personale, nonostante lo spaventasse e andasse infinitamente oltre la sua comprensione. Sapeva che le tribolazioni erano appena cominciate, che vi sarebbero state altre catastrofi, altri sismi storici di cui il suo destino era gravido. Secondo lui non c'era nulla, neppure quell'assegnazione alla sezione colombofila del reggimento, che non rientrasse in un piano generale che lo riguardava, e che non contenesse la scintilla di una più alta vocazione.

Si era infatti convertito presto alla mania del sottotenente Bertold, e i piccioni rappresentavano ormai la sfera tenera e tiepida della sua esistenza. I suoi lunghi giri per la campagna alsaziana, all'inizio soltanto felici diversivi alla monotona promiscuità militare, erano presto diventati cacce appassionate, e i piccioni avevano smesso di essere graditi pretesti di evasione per trasformarsi in creaturine amate e desiderate, ciascuna ricca di una propria insostituibile personalità. Un'impazienza febbrile lo dominava ogni mattina quando leggeva le lettere dei proprietari di piccioni colpiti dall'ordine di requisizione segnalanti all'autorità militare la propria colombaia; e, raggiunta al termine di una spedizione una fattoria isolata o una proprietà trincerata dietro vecchie mura, l'emozione gli stringeva la gola mentre la sua grande mano si richiudeva sui corpicini palpitanti, nella consapevolezza che avrebbe portato via quelli che gli sarebbero piaciuti. D'altra parte, si era reso conto che molti proprietari di piccioni non compivano il loro dovere patriottico, facevano orecchio da mercante, e omettevano di scrivere al comando di Erstein non tanto per negligenza quanto per geloso attaccamento ai loro uccelli. E proprio quelli lui voleva più ardentemente vedere, toccare e possedere, perché essendo i più amati dovevano anche essere i più desiderabili.

Trascurando sempre più le offerte spontanee che gli giungevano, arrivò presto a condurre un'inchiesta permanente presso i commercianti e la polizia per scoprire la colombaia clandestina ricca di meravigliosi esemplari ma sottratta alle sue voglie. Prese anche l'abitudine di volgere sempre un occhio al cielo per cogliere il passaggio di un piccione solitario, e cercare grazie a quello di risalire a un allevamento segreto.

Fu così che una bella mattina d'aprile — precisamente il 19, una data che gli si incise nella memoria — dopo aver seguito il corso dell'Ill sino all'uscita di Benfeld, avverti vagamente uno splendore argenteo solcare il cielo sulla sua testa, verso un rado sipario di pini. Vi si avvicinò e cominciò a esaminarli uno per uno, con l'aiuto di un binocolo da cui non si separava mai. Non dovette cercare a lungo, il piumaggio d'argento dell'uccello spiccava vivacemente contro l'oscuro magma dei rami. Era un animale meraviglioso, tutto ali, con una testa molto piccola posata orgogliosamente su un gozzo di neve, gonfio come la prua d'una nave. Beccava distrattamente pinoli, svogliato, come per occupare in qualche modo una breve sosta. Poi prese slancio, e filò ad ali spiegate sopra i tetti di un gruppo di case. "Se è in migrazione non lo rivedrò mai più", pensò Tiffauges con una stretta al cuore.

Tornò immediatamente a Benfeld e interrogò il veterinario, identificato dalla targa sulla porta. No, nei dintorni non c'erano colombaie degne di questo nome. Però c'era una vedova, Madame Unruh (gliene indicò la casa), che allevava in una mediocre voliera qualche esemplare curioso.

Madame Unruh (che non aveva risposto all'ordine di requisizione) accolse Tiffauges con disprezzo misto a diffidenza. Aveva qualche piccione, certo, ma si trattava di esemplari di razze pure e rare, accuratamente selezionate da suo marito. Il professor Unruh, studioso di genetica, aveva dapprima organizzato un allevamento sperimentale per osservare il persistere o il perdersi di certi caratteri ereditari durante successive generazioni. Poi era restato preso nel gioco, affezionandosi da collezionista a esemplari eccezionali per bellezza, purezza del tipo o anche bizzarria, e nella colombaia che aveva lasciato alla sua morte, sopravvenuta recentemente, era difficile distinguere la parte della scienza e la parte del piacere. Equamente indifferente a entrambe, la vedova continuava a prendersi cura degli ultimi piccioni, che considerava quasi una vivente eredità di suo marito.

Parlava con eloquenza, freddamente, senza mostrare alcuna premura di far entrare Tiffauges e di accompagnarlo alla colombaia, e lui dovette farsi avanti con fermezza per indurla a precederlo.

Era una abitazione ricca che sarebbe apparsa banale se le pareti non fossero state popolate di piccioni imbalsamati di ogni grandezza e colore. C'erano dei colombacci grigiocenere, delle blondinette dai riflessi marezzati, dei tombolieri, dei colombi di roccia, dei coda di pavone tremolanti, dei rondinella e persino un cravattato cinese e un tamburo di Dresda. Ogni supporto su cui l'uccello era immobilizzato nell'attitudine che la fantasia dell'imbalsamatore gli aveva assegnato era accompagnato da una scheda genealogica e genetica. Attraversarono due grandi stanze le cui pareti coperte di ali spiegate e irte di becchi avventati contrastavano con mobili e tappezzerie rigorosamente borghesi — due universi evidentemente, quello del professore e quello di sua moglie, che per tutta la vita s'erano fiancheggiati senza mescolarsi, come acqua e olio stratificati in un bicchiere — e arrivarono a una specie di veranda che si apriva su un giardinetto così piccolo che era stato possibile trasformarlo in voliera sovrapponendovi un reticolato a cono. Là, su arbusto scheletrito, su bacchette di bambù, all'ingresso di una fila di scomparti da colombaia svolazzava una fauna vivente strana quanto l'altra, dato che vi si potevano riconoscere un tomboliere, un capitombolante, un tunisino, un carrier, un cappuccino e persino due esemplari di quei gozzuti appollaiati su zampe smisurate e con la testa nascosta dietro un gozzo mostruosamente gonfio.

Mentre Tiffauges contemplava con un certo disagio questa collezione vagamente esoterica, vagamente teratologica, notò, rannicchiato contro uno scomparto, un grosso uovo di piume rosse, apparentemente privo di zampe e di testa, perfettamente ovale. Gli si accostò con curiosità, e tese la mano. Subito l'uovo si dissociò per dar luogo a due bei piccioni del colore delle foglie morte, perfettamente simili. Strettamente uniti, con le zampe e la testa rientrate, riuscivano a formare la piumosa massa ovoidale che aveva attirato la sua attenzione. Tiffauges li prese tutti e due insieme e li esaminò da conoscitore, cercando invano un particolare che permettesse di distinguerli uno dall'altro. Quando alzò gli occhi, lo stupì vedere la faccia severa di Madame Unruh illuminata da un sorriso dolcissimo:

«Signore», gli disse, «dal modo in cui maneggiate questi uccelli vedo che siete un vero colombofilo. Ci vogliono lunghi anni di intimità con loro per arrivarci. E anche una autentica vocazione. Persino mio marito non era più abile di voi. Quanto a me, lo assistevo nei suoi esperimenti facendo del mio meglio, ma lui non sperava di riuscire a iniziarmi a quest'arte bella e misteriosa...».

Tiffauges, tenendo un piccione in ciascuna mano, li avvicinava e li allontanava come due parti di uno stesso oggetto semplice e armonioso spezzato da un urto accidentale. Ogni volta che i due fratelli entravano in contatto, si riunivano a forma d'uovo con un automatismo di riflessi che mobilitava tutte le loro parti. Pareva quasi che venissero attirati e saldati uno all'altro da una forza magnetica.

«Questi piccioni sembrano molto comuni», spiegò Madame Unruh, «ma in realtà sono gli esemplari più paradossali della collezione del professore. Sono gemelli artificiali. Per curiosità mio marito volle ripetere gli esperimenti del maestro giapponese Morita. Introducendo nell'uovo, a contatto con il disco embrionale, infimi frammenti di tessuto di rana o di topo, si provoca un'irritazione cellulare che si manifesta con lo sviluppo di due o tre creature separate oppure di mostri doppi. In questo modo abbiamo prodotto uccelli con due teste. Non sono sopravvissuti».

Prima di andarsene con i gemelli, Tiffauges interrogò Madame Unruh sul piccione argenteo che cercava. La donna si rifece subito diffidente, si schermì con espressioni evasive che ignoravano l'uccello raro pur senza negarne del tutto l'esistenza. Tiffauges era sulla porta, e stava per salutarla definitivamente, quando un gran rumore d'ali attirò la sua attenzione verso un gracile cotogno che vegetava contro il muro della casa. Il piccione argenteo vi s'era appena posato e tubava dolcemente, con il petto gonfio, ostentando arie di sufficienza. Sembrava pienamente conscio del proprio splendore, con quella testa lunga e sottile dai grandi occhi viola sormontata da piume bianche — un "ciuffo", in gergo colombofilo —, quel corpo affusolato di cui l'attaccatura delle ali lasciava indovinare la forza muscolare, e soprattutto con quella veste metallica, platinata, che pareva appartenere al regno minerale più che al regno animale.

Tiffauges tese la mano, — la sua mano che, l'aveva constatato senza stupore sin dall'inizio, non spaventava i piccioni — e prese l'uccello che gli spiegò subito sul pugno le dodici penne timoniere della coda aperte a ventaglio, segno di sottomissione, omaggio di uccello all'uccellatore. Fu allora che notò la faccia di gesso e le labbra tremanti di Madame Unruh.

«Signore», balbettò poi la donna con sforzo, «non posso certo impedirvi di portarmi via anche questo. Ma sappiate che, per arricchire di una sola unità la vostra colombaia militare, mi togliete quanto ho di più caro al mondo dopo la morte del professore. Di questo uccello mio marito aveva voluto fare la colomba simbolica del nostro amore e della nostra unione. E molto più che un semplice volatile, è...».

S'era interrotta vedendo Tiffauges sciogliere imperturbabile la correggia del coperchio della gabbia da viaggio che portava a tracolla. Vi lasciò scivolare l'uccello d'argento, e la guardò in faccia. Allora la signora capì che, se il piccione platinato per lei era un simbolo, per Tiffauges era molto di più ancora, e che tutte le sue suppliche avrebbero urtato contro quell'imperativo predace che era la sua caratteristica più inflessibile e meno umana.

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"D'ora in poi", aveva detto Hitler nel discorso al Reichstag del 1935, "il giovane tedesco sarà progressivamente educato di scuola in scuola. Lo si prenderà in consegna nella prima infanzia per non lasciarlo sino all'età della pensione. Nessuno potrà dire di essere stato abbandonato a se stesso in un qualsiasi periodo della sua vita". Provvisoriamente, tuttavia — per mancanza di personale qualificato — il bambino di meno di dieci anni non era ancora inquadrato. Ma da quell'età le bambine entravano nel Jungmädelbund, i bambini nel Jungvolk. A quattordici anni venivano rispettivamente incorporati nel Bund Deutscher Mädel (BDM) e nella Hitler Jugend (HJ). Vi restavano sino ai diciott'anni, per passare in seguito nel Servizio del Lavoro (Arbeitdienst), poi nella Wehrmacht.

Gli Jungmannen delle Napola seguivano una trafila più continua, e dunque ancora più costrittiva. Incorporati all'età di dodici anni, lasciavano la scuola a diciott'anni dopo avere acquisito da una parte una formazione scolastica tradizionale, dall'altra una formazione militare intensa, centrata secondo la loro scelta, sull'esercito, la Luftwaffe, la marina o le Waffen-S.S. A quest'ultime andava il favore di più della metà degli Jungmannen. Il reclutamento veniva effettuato attraverso due canali, le candidature spontanee e la ricerca nelle scuole comunali. Le candidature sarebbero certo bastate a riempire le Napola il cui numero non superò mai la quarantina, ma i ragazzi sarebbero allora usciti nella gran maggioranza dagli ambienti borghesi — figli di militari di carriera e di funzionari di partito — e la filosofia populista del Reich esigeva una più vasta apertura ai bassi ceti. Bisognava essere in grado di produrre statistiche attestanti una conveniente percentuale di figli d'artigiani o d'operai o di contadini. A tale scopo gli insegnanti rurali erano invitati a presentare a una commissione itinerante i ragazzi che parevano loro rispondere alle norme della candidatura. Raccolti in centri, venivano allora sottoposti a una selezione razziale e fisica severa — chi portava occhiali veniva escluso a priori — poi a esami fisici e intellettuali. In effetti, la qualità primordiale su cui ritornavano instancabilmente le istruzioni del reclutamento, era il Draufgängertum: occorreva che il ragazzo fosse prima di tutto un ardito, in altri termini, che manifestasse un istinto di conservazione il più atrofizzato possibile. Per chi mancasse di Draufgängertum alcune prove cui i candidati dovevano far fronte avrebbero assunto un significato esplicitamente suicida: buttarsi in acqua dall'altezza di dieci metri — sapendo o non sapendo nuotare — superare ostacoli mascheranti trappole invisibili — fossato, cavallo di frisia, eccetera — lasciarsi cadere dal secondo piano di una casa in una coperta tesa dai più grandi, oppure, accovacciati in una trincea individuale scavata in qualche attimo, passare sotto una fila di carri armati in movimento, cingolato contro cingolato. La selezione era abbastanza severa affinché anche il livello intellettuale fosse superiore alla media, ma la guerra aveva considerevolmente compromesso l'insegnamento non militare delle Napola. I richiami alle armi non cessavano d'assottigliare il corpo degli insegnanti — all'origine tutti ufficiali S.S. — e Tiffauges fu testimone poco dopo il suo arrivo d'un cambiamento che consacrò la fine dell'insegnamento scientifico e letterario a Kaltenborn, la sostituzione di tutti gli ufficiali insegnanti con insegnanti civili. La buona volontà e la competenza degli insegnanti e professori in pensione, mobilitati d'urgenza come palliativo a quella partenza in massa, non potevano compensare la loro mancanza di prestigio agli occhi degli allievi nella cittadella irta d'armi e di motti mortiferi. Quegli uomini d'una certa età, dispensatori di discipline che la violenza della guerra faceva apparire irrisorie — c'erano tra loro un professore di greco e un professore di latino — sgraziati nei loro panni civili, incapaci di adottare il ritmo trepidante della Napola, erano presi in giro, soffocati di chiasso, scoraggiati. Sparirono uno dopo l'altro, tranne un seminarista di teologia protestante dello Stift di Königsberg, l'allievo pastore Schneiderhan, impermeabile alle peggiori angherie, il quale s'intestò a resistere e finì per assicurarsi una posizione di preminenza in quella gabbia di ragazzi-belve.

La giornata cominciava alle sei e quarantacinque con le sonerie elettriche tremolanti furiosamente nei corridoi delle camerate. Subito, una galoppata di tute rosse invadeva le scale e il cortile principale, dove si svolgeva un allenamento mattutino. La sala delle docce dove le centurie si succedevano di cinque in cinque minuti fumava come una cucina di streghe. Alle otto, tutti erano radunati in uniforme sullo spalto per il saluto alla bandiera (Flaggenparade). Poi venivan rotte le righe, e gli allievi irrompevano nel refettorio dove li aspettavano un surrogato di caffè e due fette di pane senza companatico. In seguito aveva inizio il sapiente carosello che distribuiva le centurie nelle classi per le lezioni e lo svolgimento dei compiti, sui campi sportivi, nelle palestre oppure nei vari punti della campagna e dei laghi del circondario dove avevano luogo l'addestramento al cavallo, ai remi o all'uso delle armi, negli stand di tiro e nelle armerie.

Tiffauges osservava il funzionamento della pesante macchina. Poiché la disciplina era ferrea e gli allievi erano scelti con cura, girava a pieno regime, senza stridore, al suono delle trombe, dei pifferi, dei tamburi e soprattutto dello scalpiccio degli stivali. Ma a colpir maggiormente Tiffauges erano gli energici canti proferiti da voci dure e limpide che esplodevano a ogni momento e parevano rispondersi da un punto all'altro della cittadella e degli immediati dintorni. Si chiedeva se sarebbe mai riuscito a trovare il suo posto in quella macina di ragazzi in cui anime e corpi venivano affilati al servizio d'una stessa causa. Proprio la perfezione degli ingranaggi e la terribile energia che li muoveva lo avrebbero sempre escluso, ma lui sapeva che nessuna organizzazione è al sicuro dal granello di sabbia, e che, intanto, il destino lavorava per lui.

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Allemagne, notre mère à tous...
Gérard de Nerval



Mio padre e mia madre si son conosciuti alla Sorbona quando preparavano, lui l' agrégation di tedesco, lei la licence di tedesco. La famiglia si trovò dunque piazzata, già dalla fondazione, sotto il segno della «Germanistik». Il destino volle, è vero, che non insegnassero né l'uno né l'altra. Mio padre aveva scelto proprio la data giusta del suo esame di concorso: agosto 1914. Dal primo giorno, la Germania gli riservò delle prove più rudi di quelle del tema e della versione, e l'armistizio lo trovò ferito alla testa all'ospedale del Valde-Grâce. Nel frattempo aveva perduto il gusto della Germanistik, ma, essendosi conservata fedele alle tradizioni familiari almeno mia madre, noi siamo cresciuti con sempre un piede in Germania, tanto più che gli affari di mio padre lo portavano in giro per tutta l'Europa, compreso l'Oltrereno.

Ho sofferto un poco a scuola per non poter spiegare con una parola ai miei compagni la professione di mio padre. Loro erano figli chi d'un medico, chi d'un droghiere, chi d'un architetto, qualcosa di chiaro, insomma. Mio padre aveva creato e dirigeva il B.I.E.M., sigla misteriosa la cui esistenza era comunque attestata da un timbro su tutti i dischi messi in commercio. In realtà, il Bureau International des Editions Musico-Mécaniques regolava il movimento dei contratti e dei diritti d'autore della musica registrata eseguita in un paese diverso da quello «avente diritto», e vigilava che il denaro arrivasse il più presto possibile nelle tasche di chi di competenza. Era molto semplice e insieme molto complicato. Si era dovuta creare in ogni paese aderente all'intesa una società nazionale affiliata e più o meno alle dipendenze del B.I.E.M. Ognuna aveva un proprio nome, un proprio stile e un proprio padrone che facevano le spese della maggior parte della conversazione paterna, che ci avviluppava in un'atmosfera cosmopolitica e misteriosa, non sprovvista d'un qualche fascino. Quelle società si chiamavano AEPI in Grecia, STAGMA in Germania, MECHANLIZENZ in Svizzera, ZAIKS in Polonia, AUSTROMECANA in Austria, BRITICO in Inghilterra. I loro rispettivi capi sfilavano in casa nostra con i loro accenti e i loro regali per i più piccini, i quali successivamente assaporavano torroni spagnoli, dei marzapani tedeschi, dei pasticci inglesi, dei panettoni italiani o delle grosse olive nere greche. Avevamo le nostre bestie nere e i nostri pieferiti, ma nessuno godeva tra noi di una popolarità eguale a quella della STAGMA tedesca, a capo della quale, con un atto che rasentava la provocazione, quella testa rotta di nostro padre aveva posto un francese ben colorito dal nome, tipico del Giura, di Pierre Crétin. Vecchio seminarista spretato, quel buon gigante dalla barba rossa, dall'appetito formidabile e dalla memoria d'elefante, trovò il modo di passare circa quarant'anni a Berlino senza mai smettere comunque di storpiare la lingua di Goethe. Ci volle addirittura l'Armata rossa per snidarlo dalle rovine dei suoi uffici e obbligarlo a far ritorno in Francia dove ebbe difficoltà ad acclimatarsi, tanto più che si portava dietro una moglie e dei figli, avendo vistosamente dimenticato di possederne già l'equivalente a Parigi. Adorammo la sua moto, il suo zaino, le sue braghe di cuoio corte, la sua disarmante sfacciataggine e la sua sbalorditiva erudizione. Conosceva l'Europa centrale e i relativi musei come le sue tasche, e si divertiva a ritrovare incorporato nello sproloquio della guida lo sfondone storico da lui stesso raccontato nel corso della sua visita precedente.

Dalla parte materna la fonte tedesca risale al fratello di mio nonno, Gustave Fournier, che fu prete, e insegnò il tedesco al collegio Saint-François di Digione. Disponeva anche lui di una forte tempra e di una cultura enciclopedica, meno fantasiosa, però, di quella di Pierre Crétin. Dopo il 1918, compì il pesante sacrificio di non tornar più in Germania. Troppi suoi allievi d'un tempo erano caduti al fronte. E per vari punti il fratello minore Edouard, mio nonno, era una sua replica ridotta; erborista, flautista, storico d'arte, lo fu al pari dell'altro, ma, essendo il cadetto, come per dovere, con un certo ritardo sul fratello maggiore. Mi sono dimenticato di dire che il minore aveva nutrito qualche velleità di seguire il primogenito al grande seminario e di prendere a sua volta l'abito talare. I genitori sentenziarono che ne bastava uno di preti in famiglia, e rimandarono Edouard agli studi di farmacia. Devo la mia esistenza a questa vocazione — parrebbe senza grandi sofferenze.

Nel 1910 l'abate condusse per la prima volta la nipote — mia madre — in Germania. Presero alloggio a Friburgo in Brisgau in una casa dello studente cattolico retta dalle suore, l'Albertus Burse, che accoglieva qualche raro ospite straniero — debitamente raccomandato — nel periodo in cui le vacanze universitarie svuotavano le camere e i refettori. Da quella data — e quando la Francia e la Germania non si trovano in guerra — Ralphine torna ogni anno all'Albertus Burse. In più di sessant'anni, ha visto succedervisi generazioni di suore e di madri superiore, e può parlare all'ultima di queste come una «anziana» a una novizia. Naturalmente, vi ha portato anche i figli, appena sono stati in età presentabile, e l'atmosfera ovattata e incerata, le luci dei corridoi la notte, la cucina — che i nostri gusti parigini giudicavano in rovina — della vetusta casa figurano tra i pezzi più solidi del nostro museo archeologico familiare, insieme con il maiale al cui ingrassamento si dedicava Ambrosius, l'uomo di fatica di quella città delle donne, con i bambini poveri che sfilavano nell'atrio d'ingresso e ai quali io stesso servivo la minestra, e con, a Pasqua, l'agnello pasquale biscottato e tutto inzuccherato e inalberante tra le zampe anteriori quel bastoncino che terminava in un pio orifiamma di carta dorata, capace di scacciare nell'immaginazione delle suore la troppo sospetta lepre dalla bigoncia piena di cioccolata della mitologia pagana tedesca.

I miei primi ricordi avvolti in questa atmosfera così particolare e così suggestiva risalgono all'epoca in cui il nazismo dilagava in Germania. Nelle strade, c'era una festa continua politica e militare. A ogni ora del giorno e della notte il fragore di una banda che guidava una sfilata, le luci di una fiaccolata, il clicchettio dei cingolati sul selciato ci attiravano fuori casa. Ma ogni rumore moriva alla soglia dell'Albertus Burse in cui, rincasando, ritrovavamo — gli occhi e gli orecchi ancora pieni di bagliori e violenze — il mormorio delle preghiere e il rintocco delle campane.

Friburgo, era la città.

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