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| << | < | > | >> |IndiceQuesto libro 9 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Di come possa un geologo tentare di raccontare alcune storie d'Italia diverse dal solito e, caso assai strano, quasi tutte svoltesi in assenza di uomini che, cosa ancora più strana, non hanno potuto lasciare gran segno di sé almeno fino a 10.000 anni fa. Di come dopo, gli uomini, abbiano ampiamente recuperato il tempo perduto producendo danni inimmaginabili per una specie sola, e di cosa si possa fare adesso. Di come la memoria degli uomini sia clamorosamente più corta di quella della Terra e di come questo porti ad alcuni errori di prospettiva. Di batteri, cetrioli e facoceri. QUANDO VOGLIO RENDERMI CONTO dell'effettiva portata di alcuni degli eventi che capitano agli uomini, prendo un bel cartoncino bristol e con una matita ci traccio sopra una riga lunga un metro esatto. Faccio corrispondere a questa linea l'età della Terra: un metro sono 1000 millimetri, che vengono così a corrispondere - in questa similitudine - a 4,5 miliardi di anni. Dove collocare su questa retta l'uomo, la sua storia, anche la più antica, le sue opere, le sue civiltà? La nascita di Cristo, gli antichi Egizi, i Babilonesi, le civiltà protostoriche o anche il Paleolitico: dove mettere il segno? Prendiamo per esempio la comparsa di Homo sapiens avvenuta circa 200.000 anni fa, un lasso di tempo che, a noi che non ricordiamo neppure il nome dei nostri bisnonni, sembra indubbiamente enorme. Se chiedessi di posizionare sul cartoncino questo evento, qualcuno potrebbe piazzarlo a metà, qualcun altro a pochi decimetri dall'inizio; alcuni azzarderanno un punto a solo pochi centimetri dal margine della retta. In ogni caso, sarebbero tutte risposte sbagliate: lo spessore della punta della matita è infatti troppo grande per rappresentare in scala quei 200.000 anni. La nostra specie occupa solo qualche centesimo di millimetro. Ma anche se volessimo segnare il punto della scomparsa dei dinosauri, che risale a 65 milioni di anni fa, avremmo qualche problema: solo 145 millimetri a partire da oggi. E prima? E tutto il resto? Tutto il resto è pianeta senza uomini e con pochi mammiferi, e prima solo rettili e prima solo invertebrati e prima ancora organismi unicellulari. Per tutti i millimetri che ci vogliono per arrivare a un metro, per tutti i milioni di anni che sono necessari ad arrivare alla nascita del pianeta. Ciononostante noi uomini ci collochiamo al vertice di una piramide al di sopra della quale nessuno ci ha mai posto e non ci rassegniamo al fatto di contare, nella storia naturale, come un cetriolo o un facocero, pur essendo fatti esattamente degli stessi elementi. Certo, in questa presunzione molto giocano la costruzione culturale e la consapevolezza di sé: posso scrivere dell'importanza relativa degli uomini solo perché sono soggetto e insieme oggetto della mia riflessione. Ma questo, tutto sommato, non sposta il punto del discorso sull'economia del pianeta. Un tempo così antico può comunque essere letto, basta avere gli strumenti per farlo. È come un diario di pietra che non potrà mai essere sfogliato per intero, ma nel quale sono in realtà impresse anche le risposte ad alcune delle domande più impellenti dell'uomo contemporaneo a proposito del proprio futuro terrestre. È un libro lungo 4.500 milioni di anni - le cui pagine sono le rocce e le cui righe sono i fossili - il cui ordine è stato sconvolto per sempre dalle forze interne della Terra ed è stato oggetto delle ricerche di filosofi, uomini di scienza, geologi e naturalisti di tutto il mondo. Non c'è fine a quanto si può scoprire dentro una roccia: mondi inaspettati scanditi dall'ordine dei granelli di sabbia o dalla presenza di organismi unicellulari cristallizzati magari da centinaia di milioni di anni. La comprensione del concetto di tempo geologico non è immediata: volendo fare un'altra similitudine, se paragonassimo l'età della Terra a un anno solare - e dunque ponessimo la nascita del pianeta al 1° gennaio e l'oggi alla fine dell'anno - la storia delle civiltà umane non occuperebbe che gli ultimi secondi prima della mezzanotte del 31 dicembre. In questo paragone, un giorno equivale a 12 milioni di anni e ogni secondo che passa vale circa 140 anni. È questa la prospettiva del tempo profondo, un concetto nuovo anche per la storia del pensiero, un concetto senza il quale non sarebbe stata possibile l'elaborazione della relatività di Einstein e molte delle elucubrazioni più acute sull'uomo avrebbero un senso assai più modesto. Appena due secoli fa nessuno avrebbe immaginato una Terra più antica di qualche migliaio di anni e la profondità del tempo si fermava ai diluvi biblici. Nessun fisico è riuscito in passato a svolgere il filo dell'età della Terra, neppure il più illustre - Lord Kelvin - che poneva la nascita del pianeta a 90 milioni di anni fa. Per farlo occorrevano gli scienziati della Terra, i geologi. | << | < | > | >> |Pagina 19Uomini o caporali?Se siamo ancora in vita - come specie umana - è perché batteri e virus hanno un precipuo, evidente interesse alla nostra sopravvivenza. Ciononostante, siamo pur sempre stati in grado di misurare qualcosa di imperscrutabile come il moto dei corpi celesti e di partire alla scoperta dell'universo. Ciononostante, siamo in grado di modificare profondamente il paesaggio terrestre e produciamo arte e cultura. La domanda di fondo è: può un'energia così insignificante e casuale come quella della vita avere influenza su un pianeta tanto enorme come la Terra? Ecco, forse proprio questo è uno dei segreti di Gaia, cioè della Terra stessa: ogni suo elemento è in sé una parte - dovrei chiamarla correttamente gilda - di un superorganismo auroregolato unico e nello stesso tempo frutto dell'interconnessione globale fra vita, suolo, oceano e atmosfera. In questo quadro puramente fisico gli uomini hanno importanza solo in quanto «organismi respiratori straordinariamente prolifici»: non è poco, forse, ma non è certo tutto. L'uomo non è al centro dell'universo - come i risultati della sua avventura intellettuale potrebbero far pensare -, ma certo ne è una delle componenti più complesse e non ancora interamente svelate. Il suo percorso merita forse un'attenzione maggiore di quella eventualmente dedicata ai batteri, ma la sua importanza è solo di contesto, come giustamente potrebbe far rilevare Gaia, se potesse parlare. | << | < | > | >> |Pagina 27Pessimismo terrestreSi dice: ma oggi stiamo tutti meglio, viviamo più a lungo e c'è più benessere. Può darsi, ma chi paga il prezzo di questo preteso benessere se non l'ambiente e gli altri viventi? E cosa si farà quando la Terra avrà esaurito risorse e fonti energetiche o, semplicemente, cibo e acqua? Quanti uomini ancora può sostenere il pianeta? È vero che l'incremento demografico sta rallentando, ma è altrettanto vero che la crescita assoluta resta elevata: oggi ci sono 3 miliardi di persone in più che nel 1960 e soprattutto nel Terzo Mondo (dove vivono i 4/5 della popolazione mondiale) la crescita continuerà inalterata fino a sfiorare nel prossimo futuro i 7 miliardi di abitanti. Il concetto di densità di popolazione che imparavamo a scuola (popolazione totale/superficie totale) oggi non ha più molto senso perché fondamentalmente fuorviante. L'Egitto ha una densità di popolazione di 68 abitanti per chilometro quadrato, ma se si prende in considerazione, più correttamente, un indicatore di densità (popolazione totale/superficie utile), cioè se si escludono le aree inadatte alla vita e agli usi umani, si deve parlare di 2000 abitanti per chilometro quadrato. La Terra effettivamente abitabile è più che sovraffollata. Del resto la popolazione umana è aumentata più rapidamente di quanto previsto dal reverendo Malthus tre secoli fa: le diete sono migliorate, si vive più a lungo, si sta complessivamente meglio. Ma non è detto che ci sarà cibo per tutti, e in ogni caso l'espansione agricola sarà costosa in termini ambientali: già oggi usiamo tutta la terra migliore e più vicina alle fonti irrigue. La Terra non può trasformarsi in un gigantesco orto perché questo comporterebbe deforestazione, perdita di specie, depauperamento delle falde, erosione accelerata dei suoli e pesanti inquinamenti da pesticidi e fertilizzanti. D'altro canto, oggi 800 milioni di persone muoiono per fame e 1,2 miliardi sono povere. Siamo proprio sicuri che le cose si siano messe meglio per tutti? Per quello che riguarda il cibo, poi, vale sempre il paradosso cinese. Se tutti gli abitanti della Cina volessero mangiare lo stesso quantitativo di carne che mangiano quelli degli Stati Uniti avrebbero bisogno di 49 milioni di tonnellate di carne all'anno, che significa 343 milioni di tonnellate di cereali all'anno destinate all'allevamento: una cifra spaventosa. Se volessero improvvisamente diventare consumatori di pesce come i giapponesi, avrebbero bisogno di 100 milioni di tonnellate di pescato, cioè tutto quello che si cattura oggi. Già adesso non c'è più spazio, cibo, acqua per tutti, ma gli occidentali approfittano del fatto che i bisogni degli altri sono ridotti rispetto ai propri. Per dirla tutta, agli occidentali è consentito emettere quantità di anidride carbonica che non sarebbero permesse se tutti gli altri non ne emettessero molta meno della media: in pratica, noi respiriamo meglio perché gli altri respirano appena. La crescita demografica ha altre pesanti conseguenze: aumenta la povertà, perché presto la metà degli individui del pianeta si troverà al di sotto dell'età lavorativa, quindi sarà non produttiva, e perché i nuovi posti di lavoro, data la grande quantità di braccia a disposizione, saranno concessi solo a salari bassi. Tutte le comunità animali limitano le proprie nascite naturalmente, se l'ambiente non ne premia l'espansione; l'uomo è l'unico a comportarsi diversamente. Se prendiamo poi in esame il problema cruciale della deforestazione ci rendiamo conto che si hanno ragioni da vendere per coltivare un sano pessimismo dell'intelligenza. Il tasso di deforestazione - che pure sembra devastante risulta in realtà sottostimato se si considerano anche i tempi necessari per la riforestazione, perché ci vogliono 100 anni per ottenere una foresta vera anche se solo 10 per considerarla tale. Il valore di una foresta, però, non sta nella somma dei singoli alberi proprio come il valore di un computer non sta nel prezzo dei suoi chips in silicio. Però gli organismi internazionali (come la Fao) riconoscono come foresta: gli spazi che hanno copertura arborea superiore al 10 per cento di superficie (comprese tundre e deserti); i settori deforestati e poi messi a coltura fino a che non siano permanentemente destinati ad altro uso; tutto ciò che i governi nazionali dichiarano come tale (con un chiaro rischio di sovrastima per evitare warnings internazionali); tutte le aree ripiantumate anche di recente (come dire che le piantagioni equivalgono alle foreste!); tutte le foreste tropicali ormai tramutate in boscaglie o incolti che non si rigenerano, ma che vengono considerati come foreste a tutti gli effetti. Forse le cose stanno addirittura peggio di come sembra. La deforestazione sulla Terra esiste da quando esistono gli uomini: circa 10.000 anni fa c'erano 6 miliardi e 200 milioni di ettari di foreste, oggi ne restano 4 miliardi (cioè il 30 per cento in meno). Ogni anno va perduto un territorio forestato grande come la Grecia. E a poco vale sottolineare che le foreste sono fondamentali per la vita sulla Terra perché assorbono anidride carbonica quando crescono (e la restituiscono all'atmosfera quando bruciano o vengono tagliate). Nel 1972 a Roma uno studio del Mit (Massachusetts Institute of Technology) su iniziativa del Club di Roma, pose il problema dei limiti dello sviluppo, senza però aver ancora compreso la capacità del mercato di alzare il prezzo di un bene quando c'è eccesso di domanda, incoraggiandone dunque un uso più parco e aumentandone la disponibilità nel tempo. Per questo quello studio viene citato - erroneamente - come sbagliato: le previsioni restano corrette, i tempi erano male indicati. Il problema, indubbiamente, esiste, anche se spesso portato all'attenzione del pubblico in modo sbagliato. Sfruttando l'attrazione che da sempre esercitano le apocalissi, chi si occupa di queste tematiche conia titoli a effetto e innalza i toni drammatici. È anche da questo tipo di approccio che nasce il catastrofismo ambientale, che pare spesso invocare un intervento del divino o della Natura per risolvere situazioni che improvvisamente diventano troppo grandi e complesse. D'altra parte, gli eventi naturali a carattere catastrofico sono in costante aumento per frequenza e numero di vittime, specie nel Sud del mondo. Prendiamo per esempio l'Arno: se oggi si ripetessero le piogge del novembre del 1966, l'alluvione che ne seguirebbe sarebbe molto più devastante di quella di quarant'anni fa (come a dire che il rischio naturale è aumentato). Se si vuole uno sviluppo pulito del Terzo Mondo - che magari consenta la conservazione delle foreste - il prezzo lo debbono necessariamente pagare i Paesi più ricchi, che sono i responsabili del depauperamento delle risorse ambientali complessive del pianeta. Il 6 per cento della popolazione mondiale, quella degli Stati Uniti, consuma il 30 per cento delle risorse e dell'energia del pianeta: come possono non nascere contrasti da questa situazione di divario? Se fossimo produttivi come gli svizzeri (e non come il Ciad), consumatori parchi come i cinesi (e non come gli Usa), egualitari come gli svedesi (e non come l'India) e disciplinati come i giapponesi (e non come l'ex Jugoslavia) forse le cose potrebbero funzionare meglio. Ma il pianeta resterebbe quello, unico e limitato. L'ecologia può indicare una via d'uscita, basta che la si cominci a considerare per quella che è, una scienza a metà strada fra biologia e geologia, e comunque ben diversa dall'ambientalismo, che si coltiva per passione (o per moda) e che studia l'insieme dei rapporti degli organismi con il mondo esterno. L'ecologo ha la stessa dignità scientifica del fisico, anche se si stenta a riconoscerlo. La soluzione, ci suggerisce l'ecologia, è quella di accettare la realtà di vivere in un mondo limitato, di imparare a vivere chiedendo di meno. Anche se nel mondo odierno sono considerati tabù, i limiti esistono di fatto e vengono superati solo in virtù dell'inerzia del mondo naturale. Ma i capitali si esauriscono, prima o poi, anche presso la banca della natura: quando lo avremo capito sarà comunque troppo tardi. | << | < | > | >> |Pagina 78Di cosa sono quei blocchi di granito apparentemente ammucchiati sulle Serre di Vibo Valentia e di come c'entri il paese più povero d'Italia. CI SI DEVE INNALZARE FINO A 1000 METRI di quota - nel mezzo delle serre vibonesi -, in una Calabria che puoi immaginare solo se hai già visto la Sila, ma che Sila non è. Dappertutto boschi e vere e proprie foreste. Però non quelle originarie - che nessuno sa come potessero essere -, ma abeti rossi alti fino a 30 metri, neanche fossimo sulle Alpi, e in più strane querce, anch'esse affusolate come abeti con le chiome curiosamente slanciate verso l'alto in competizione per la luce. Non c'è sottobosco fra gli alberi e si procede spediti, ma, come in ogni foresta, appena ci sei dentro non sai più se ti trovi ancora ai suoi margini o già immerso nel cuore. Dossi e vallecole e poi cocuzzoli e avvallamenti si succedono senza che ci si possa orizzontare: se non ti guida qualcuno non vedrai altro che pietre e rocce tutte uguali. [...]
Ma se quelli sono blocchi di granito - e il granito in natura ne crea
raramente di tale fattura - allora chi li ha messi gli uni sugli altri? E perché
qualcuno avrebbe dovuto sobbarcarsi la fatica di spostare macigni di tonnellate
(fino a 15) e sovrapporli? Cosa significano i megaliti delle serre di Vibo, anzi
i megaliti di Nardodipace, il paese più vicino? Quando si spostano massi di
quelle dimensioni la forza non basta, ci vogliono tecniche avanzate di
trasporto: leve, rulli, ruote, funi e slitte. Non solo, ci vogliono
organizzazione del lavoro, progettazione e una società tesa al raggiungimento di
un obiettivo. Una società evoluta, insomma, che sarebbe dovuta esistere oltre
7000 anni fa.
Significati di pietra
Analizzando il «sito A», in località Sambuco (quello su cui mi sono arrampicato e che è stato sgomberato dalla vegetazione), non si può non rimanere colpiti da quella che sembra una testimonianza ancestrale anche a chi non possegga elementi di conoscenza specifica. Ma è proprio in questi casi che bisogna procedere con circospezione: noi uomini abbiamo un gran bisogno di mistero, di irrazionale, di soprannaturale e siamo inoltre portati a vedere la mano dei nostri simili (o di un dio) dove l'unico artefice è la natura. Il sito sembra una specie di altare naturale in cui qualcuno riconosce tre colonne appoggiate su una specie di piccola piattaforma che, a sua volta, sembra insistere su una base quadrangolare; il tutto sopra un terrazzamento del suolo. La piccola spianata attorno al presunto altare è costellata di massi di diverse dimensioni, che sembrano rotolati dalla sua sommità e che sono stati aggrediti dall'erosione più in profondità. Alcuni paiono avere una forma a cuneo, come se rispondessero a una precisa volontà costruttiva. Chi li interpreta come da attribuirsi alla mano dell'uomo rileva che non si dovrebbe trattare di monumenti funebri o tumuli, quanto piuttosto di elementi architettonici di un tempio che aveva anche funzioni di osservatorio astronomico. Le rocce sono spesso segnate da glifi - graffi o segni - la cui origine antropica mi appare dubbia, visto che segni del genere li può comunque lasciare nelle rocce anche l'erosione «cipollare» dei graniti. Bisogna superare alcuni dossi prima di arrivare in località Ladi, dove si trova l'altra «emergenza» litica di difficile interpretazione («sito D»). Da lontano non si scorgono altro che tre «pilastri» composti da massi di granito giustapposti, ma sono elementi diversi per dimensioni e non sono allineati in verticale, anzi sembrano scivolati come quando si «stira» un mazzo di carte dalla sommità lasciando immobile la base. Qualcuno ha supposto che la «colonna» centrale sia in realtà una trabeazione caduta, e che ci si trovi quindi alla presenza dei resti di un dolmen. Accanto alla struttura principale osservo un masso fortemente concavo nella parte superiore, dagli spigoli vivi: anche a Yosemite ho visto forme simili ma nessuno lì dubitava della loro origine naturale. Su un altro macigno di granito ormai ricoperto dal muschio e quasi interamente verde si nota una specie di ovale inciso come da una punta: forse una pellicola in via di erosione, forse il segno di una mano umana. Tutto attorno spuntano altri affioramenti di blocchi granitici che qualche volta sembrano avere una disposizione intenzionale e per i quali si ipotizzano usi votivi o funerari. Altre volte si tratta di accumuli chiaramente naturali, anche se qualcuno vi attribuisce un carattere di unicità e quindi una destinazione sacra. Altrove però, in Calabria (Serra San Bruno, Cardinale), sono noti accumuli di pietre difficili da spiegare solamente con le leggi della natura. Tento una sintesi. La mano dell'uomo sopra quella della natura per innalzare strutture religiose o - secondo altri osservatori astronomici che potessero svelare il ciclo delle stagioni (le misurazioni effettuate hanno rivelato dimensioni astronomicamente significative, che richiamerebbero le posizioni di alcune stelle e della Luna). Ma le superfici orizzontali che dividono i blocchi possono avere anche un'origine diversa da quella umana: possono essere fratture di raffreddamento del granito, tracce dell'antichissima solidificazione del magma. Difficile discriminare chiaramente su questo aspetto, soprattutto dopo migliaia di anni di erosione. Su una cosa però sono tutti d'accordo, e cioè sul fatto che i terremoti qui si siano fatti sentire fin dalla notte dei tempi: il caos che regna attorno a ciò che resta di un presunto intervento ordinatore da parte dell'uomo è segno chiaro di sismi ancestrali. | << | < | > | >> |Pagina 95Di quando il più forte terremoto del Mediterraneo colpì Reggio Calabria e Messina, delle cause e delle possibilità che si ripeta ancora. Dell'incapacità di rapportarsi con il mondo naturale di chi sta costruendo, proprio lì, il ponte a campata unica più lungo del mondo. È UNA FREDDA MATTINA D'INVERNO DEL 1909: sulla Plaja di Catania si radunano alcune persone che hanno viaggiato tutta la notte per arrivare in tempo da Messina, i loro occhi sono gonfi per il sonno e per il dolore. I pescatori catanesi hanno da poco tirato in secca un «mostro» marino - forse uno squalo bianco - lungo quasi 5 metri, dopo aver battagliato per ore a largo di Capo Santa Croce, prima per non farsi sottrarre il delfino pescato da poco, poi per desiderio di vendetta o gusto di caccia. Lo hanno arpionato con le fiocine, in tempi in cui anche la mattanza dei tonni doveva essere vagamente meno cruenta. U tunnu palamitu di funno lo chiamano ancora laggiù: in realtà si deve probabilmente trattare di un Carcharodon carcharias, diciamo probabilmente perché nessuno zoologo o biologo fece in tempo a vederne la carcassa, che fu subito condotta alla sardigna municipale per la distruzione. Le interiora, però, furono conservate. | << | < | > | >> |Pagina 106Nella relazione di progetto si ammette che la zona è una delle più sismiche del mondo e che il rischio è elevato, ma non si constatano tracce di faglie attive (!). Il clamore di un'affermazione simile (come si concilia una zona molto sismica con l'assenza di attività è un autentico mistero) viene aggirato appoggiandosi alla teoria del «terremoto caratteristico» - in questo caso quello del 1908 - che si ripresenterebbe ogni 1000-1500 anni ed escludendo del tutto la possibilità teorica di terremoti più deboli, ma pur sempre violenti (6-6,6 magnitudo Richter). Come a dire che è prevista solo l'eventualità che si ripeta un terremoto come quello del 1908, ma non prima di un millennio. Secondo la documentazione di progetto sarebbe una sola faglia «cieca», seppellita a 3000 metri dal fondo dello stretto di Messina, la responsabile dei sismi nella zona. Eventuali faglie superficiali non sono invece riscontrabili perché si rendono «visibili» solo in corrispondenza dell'attivazione di quella principale, quella cieca, appunto. Cioè, niente faglie attive in superficie perché tutto dipende da una profonda che però, essendo invisibile, non può essere studiata, guarda tu il caso.Tutto ciò sa di «bersaglio alla texana»: prima si spara su una parete, poi si disegna la sagoma del bersaglio, che risulterà perfettamente scontornato. Molti studiosi oggi contestano la teoria del terremoto caratteristico che, comunque, resta una teoria, e hai voglia a ricordare quante volte in geologia le cose non sono state previste. Dato che in questo caso non sono possibili osservazioni geologiche sul campo, visto che la faglia è invisibile e altre non se ne muovono (se non con quella), non sarà che la teoria del terremoto caratteristico non è applicabile in questa regione? Senza contare che in realtà sono state scoperte diverse faglie attive sottomarine nell'area, che in qualcuno generano grosse preoccupazioni in quanto una loro riattivazione, in concomitanza di sismi anche non eccezionali, potrebbe determinare lo scivolamento dei blocchi a valle dei piloni di sostegno e mettere a rischio la tenuta del ponte. Il fatto che i progettisti assicurino che, in caso di terremoto, i cedimenti (15 centimetri) e gli spostamenti (12 centimetri) del terreno saranno contenuti e che non ci sarà «liquefazione delle sabbie» (un fenomeno particolarmente pericoloso per le costruzioni, caratteristicamente indotto dai sismi) ma, casomai, addensamento, per via del consolidamento preliminare che sarà effettuato, non sposta le considerazioni fatte in precedenza. Pur ammettendo che la zona è ad altissimo rischio geologico, non si utilizzano a livello progettuale i dati che potrebbero scaturire da ulteriori studi approfonditi e da monitoraggi. In definitiva, la stima della pericolosità sismica è poco credibile proprio per la dichiarata impossibilità di effettuare studi sull'attività sismica delle singole faglie. Il dubbio grave è che gli impatti non siano stati valutati in maniera approfondita per evitare di constatare la non fattibilità geologica del progetto. | << | < | > | >> |Pagina 119Domanda finaleLe prime volte che ho tenuto conferenze sul ponte a Reggio Calabria e a Messina ero quasi insultato e tutti insistevano nel volere la grande opera senza neppure farsi sfiorare dal dubbio. Negli ultimi due anni i reggini e i messinesi hanno compreso la gravità della prospettiva e assediano i dibattiti domandando e chiedendo spiegazioni: se c'è qualcuno che non avrà alcun vantaggio dal ponte, quelli saranno proprio gli abitanti di Reggio e Messina. Mancheranno cioè proprio i passeggeri più regolari, quelli a cui il ponte dovrebbe fare un gran favore: gli accessi alle rampe, infatti, saranno collocati talmente lontano dai rispettivi centri abitati da rendere comunque e sempre preferibili i traghetti o gli aliscafi. Il ponte non è sicuramente un'alternativa valida per il traffico locale e sono molti i reggini e i messinesi a rendersene finalmente conto. Si potrebbe addirittura affermare che il ponte raccoglie consensi in ragione inversa alla lontananza da esso: più si è vicini meno lo si comprende e giustifica. Come uomo di scienza, di dubbi sul costruendo ponte sullo stretto di Messina ne coltivo più di uno. Ma non ho voluto accennare in queste pagine ai probabili cambiamenti che si verificherebbero nelle correnti ventose in quota, alle modifiche nelle rotte migratorie degli uccelli, all'interruzione degli itinerari di spostamento dei grandi cetacei che sarebbero certamente spaventati dall'ombra del ponte sul mare, e ad altre sicure alterazioni degli ecosistemi siciliano e calabrese. E non voglio ricordare il romanticismo di certe albe passate sul ponte (del traghetto) a perdersi nel blu cobalto del mare di Sicilia, o del profumo degli arancini caldi nel sole tiepido di aprile. Ho voluto solo illustrare lo stato di dissesto idrogeologico in cui verseranno le aree che dovranno fare da spalla al ponte e ribadire che il ponte è brutto e inutile e forse pericoloso, che è profondamente diseducativo per tutto quello che riguarda i rapporti uomo-natura, che è eticamente riprovevole e politicamente fariseo, che difende interessi di corporazione e che offre dubbi benefici rispetto agli elevatissimi costi. E che tutto questo non dipende dalla parte politica che lo ha proposto - lo hanno fatto tutti, da Craxi a Rutelli a Prodi a Berlusconi. Se i dubbi di natura tecnica e scientifica sono così tanti, se il buon senso è venuto drammaticamente a mancare e tutti sono solo abbagliati dal miraggio di un'opera meramente dimostrativa, e, soprattutto, se non ci sono evidenti benefici di tempo e vantaggi per il traffico e, anzi, si stornano risorse utili altrove... ma allora, a cosa e a chi serve il ponte sullo stretto di Messina? | << | < | > | >> |Pagina 165Di come i geologi possano contribuire a svelare il mistero di Atlantide, confermando l'idea di un archeo-geo-giornalista che l'isola misteriosa possa essere la Sardegna. Di cosa sono i megatsunami e degli schiaffi che hanno tirato alle antiche civiltà. È FORSE IL MITO PIÙ ANCESTRALE E AFFASCINANTE, di sicuro è quello più persistente nella memoria e nell'immaginario degli uomini di ogni latitudine, attorno a cui sono stati scritti centinaia di libri e per decifrare il quale si è indagato di più, dalla Grecia alla Turchia alla Gran Bretagna, perfino al Giappone: quanto saremmo sorpresi di scoprire che la risposta - come la lettera di Poe - è stata sotto i nostri occhi da sempre? Come la prendereste se qualcuno vi rivelasse che la fantastica Atlantide era, in realtà, la Sardegna? [...] È il momento di cambiare completamente prospettiva e di stravolgere le nostre convinzioni sull'antichità più remota, quella di quando gli uomini avevano appena preso coscienza di essere popoli e i fenomeni naturali incidevano in profondità nella compagine sociale e negli animi. Immaginate una fantastica processione all'incontrario: un flusso di leggende, di miti, di eroi e di mostri che riprendono possesso dei luoghi che qualcuno aveva fatto loro abbandonare quando decise di spostare a Gibilterra ciò che era sempre stato tra Africa e Sicilia. Sì, c'è un colpevole, Eratostene - il più grande geografo dell'antichità -, artefice della confusione successiva e, in realtà, creatore del mito dell'introvabile Atlantide. Di prove a sostegno se ne riscontrano a decine: da quelle etimologiche (come il clamoroso rovesciamento letterale dell'Heracles nel Milqart punico, potendosi leggere l'uno come il contrario dell'altro), a quelle toponomastiche (Tartesso, che in Spagna non si è mai trovata e che in Sardegna c'è ancora oggi), a quelle archeologiche (reperti fittili decisamente identici in posti ritenuti antipodali), ai tempi di navigazione degli antichi (che proprio non tornano per arrivare a Gibilterra), alle evidenze più concrete, quelle messe in luce dalla geologia. Ogni attraversamento in nave delle Colonne d'Ercole prima di Eratostene - che ridisegnò il mondo antico - viene descritto dagli antichi come difficile a causa dei fondali limacciosi e delle secche, ma a Gibilterra non c'è neanche un centimetro di fango, visti i 300 metri di profondità. Le moderne carte fisiografiche e batimetriche segnalano che c'è un solo posto in cui il Mediterraneo diventa fiume di fango, il Canale di Sicilia, come sa chiunque si sia mosso in Tunisia verso le isole Kerkenna: boe di segnalazione e una vera e propria «pista» obbligata da seguire per le imbarcazioni che conducono lì, pena l'inevitabile impaludamento. E indovinate qual è la prima isola che si incontra verso nord appena fuori dal canale... Ma attenzione, se cambiano di posto le Colonne d'Ercole cambia il mondo: gli dei del Tramonto, i miti dell'Occidente, Atlantide: tutto torna a essere qui vicino, nel vero Atlantico che non è mai stato oceano.
In realtà nessuno tra gli antichi colloca con precisione le Colonne a
Gibilterra, ma, dopo che Alessandro Magno sconvolse la geografia invadendo le
terre dell'alba, qualcuno si potrebbe essere preso la briga di risistemare il
mondo - diventato all'improvviso più vasto - anche sulle carte, trovando forse
più conveniente porre all'estremo occidentale del Mediterraneo il limite del
conosciuto. Una specie di bilanciamento allo sconfinamento orientale di
Alessandro, con Delfi a campeggiare nella zona centrale. L'oracolo di Apollo,
d'altra parte, era una specie di servizio segreto dell'antichità - altro che
iniziazione ai misteri per il desiderio ancestrale degli uomini di adire
all'iperuranio -, e questo implicava la necessità di riservatezza sulle notizie
che i navigatori riportavano dalle rotte commerciali, che vennero dunque
mantenute segrete per secoli e trasmesse solo a coloro che ne erano degni: se
anche Platone fosse stato a conoscenza della vera posizione di Atlantide, non
l'avrebbe certo rivelata nei suoi dialoghi.
Dopo il viaggio: riflessioni sparse
Per secoli gli uomini hanno cercato Atlantide in giro per gli oceani, oppure l'hanno considerata una semplice metafora platonica. Invece era lì, davanti ai loro occhi, proprio dove si apre la pianura del Campidano, mare di terra fra i bastioni del Sulcis e la Sardegna sudorientale. Lì si facevano tre raccolti l'anno e il clima era eccezionalmente dolce, lì ci sono piombo, zinco, argento e la società era metallurgica fino dagli albori, lì c'erano i Tyrrenoi, i «costruttori di torri» - i nuraghes -, cioè gli antenati degli Etruschi e magari pure dei Fenici, già sfuggiti da Oriente quando sulla Turchia imperavano gli Ittiti e poi rimbalzati, dopo un evento misterioso, a fare da servi ai faraoni in Egitto, ormai conosciuti come Shardana. Ancora lì, infine, la catastrofe: un terremoto e un maremoto che hanno colpito il Campidano distruggendo i nuraghes meridionali e ricoprendoli di fango, una melma che ha reso poi malsana l'aria e ha costretto a umilianti migrazioni quelli che, in definitiva, sono i progenitori di tutti noi. Certo, così bisogna riscrivere la storia riformattando il disco rigido ormai vecchio e intasato della nostra cultura classica, e un giornalista-archeologo (e un po' geologo) ci invita a farlo con argomenti chiari e avvincenti. È possibile che occorrano ancora altre prove - sondaggi geologici nel Campidano che trovassero tracce di antichi maremoti, le cosiddette tsunamiti, rocce di maremoto, convincerebbero anche i più scettici -, forse ci saranno resistenze da parte di chi ha finora ricostruito la storia dei miti come un'introspezione onirica collettiva, ma a pensarci bene anche questa ipotesi nasce da un sogno, solo che resta lì quando ti svegli e a farci i conti sono le nostre radici: è come se un pezzo di noi tornasse finalmente al suo posto, verso le terre del tramonto da cui siamo venuti. | << | < | > | >> |Pagina 291Del Grand Tour, dei viaggiatori mitteleuropei, e di un Paese che ci è cambiato sotto gli occhi ARRIVAVANO STREMATI DA VIAGGI IN CARROZZA che sfiancavano gli stessi cavalli e poi da ore di battello nelle giornate di scirocco. Giungevano distrutti da giorni di strade polverose in una terra che conservava intatte tutte le caratteristiche dell'inesplorato o, peggio, delle terre di nessuno, regno di briganti e tagliagole. Avevano paura a ogni svolta che si presentassero banditi in armi pronti a derubarli e a ucciderli sul posto. Temevano per i tradimenti dei gendarmi e degli stessi accompagnatori, dormivano male e mangiavano peggio per mesi, tutto questo per visitare l'Italia più di due secoli fa e soprattutto il Sud, il luogo più vicino al paradiso. Il Grand Tour era il viaggio di formazione obbligato dei giovani intellettuali e artisti aristocratici dell'Europa del Nord e prevedeva per tutti le stesse tappe, simile al classico sentimental journey anglosassone per romanticismo, ma con l'aggiunta della volontà conoscitiva e, qualche volta, scientifica. Nei racconti dei viaggiatori del Grand Tour, l'Italia era un territorio fantastico e imponente, dove la natura dettava ancora le sue leggi alla vita e alla stessa storia. Il Meridione era una specie di Paese incantato dove, nei crepuscoli interminabili, i bambini si accosciavano attorno all'invisibile cerchio di calore lasciato a terra dal ferro delle ruote appena forgiate. Si partiva da Genova o da Torino e si arrivava a Roma per le feste di Natale, per spingersi poi fino a Napoli prima dell'estate, sfuggendo al caldo micidiale di quelle latitudini. Questo almeno fino alla scoperta dei resti di Pompei ed Ercolano - e alla riscoperta del Vesuvio -, che porta a includere nell'itinerario canonico il fenomeno naturale più spettacolare del mondo prima che i templi di Paestum e di Segesta spostassero più a sud il baricentro del viaggio. Centinaia di chilometri di strade ciottolose e di locande non sempre di prima qualità in un clima quasi tropicale in cui lo scirocco non dava alcuna tregua, per giungere non solo a Napoli capitale d'Europa, ma anche ai suoi straordinari vulcani (nonostante Mark Twain li ritenesse di gran lunga inferiori a quelli delle allora Isole Sandwich). I vulcani attivi prima di tutto. L'ascensione al vulcano non è mai solo viaggio «fisico», è soprattutto viaggio all'interno di sé e verso una spiritualità superiore. È la ricerca del momento primo della creazione del mondo: la lava bollente, quando c'è, il contatto primordiale con l'universo, la vista verso l'inferno. La lava veniva descritta in tutti i particolari, così come i minerali straordinari che i fluidi profondi creavano in superficie, ma la sensazione era quasi sempre di desolazione: solo pochi scrivevano di aver provato un misto di attrazione-repulsione per il baratro. Ciononostante, l'Italia di allora non coincide con il ritratto che ne ha reso Hans Christian Andersen: ci sono anche i libri «cattivi» che raccontano del Mezzogiorno come non avrebbero descritto neppure i lati più sperduti dell'Africa. In quei libri, l'Esperia non è più la terra dall'ospitalità leggendaria e gli stessi monumenti di Roma diventano soltanto vecchie rovine irriconoscibili, dominio di puttane e magnaccia. E si viaggia male - in questi ricordi-incubi non sempre in buonafede di viaggi spesso neppure effettuati -, si dorme in locande somiglianti a «tane spaventose», infestate dai pipistrelli e gestite da figure quasi mitologiche per quanto orride e abiette. Cibi incredibilmente immondi, se si pensa alla grande tradizione gastronomica italiana di sempre: uova marcite e creste di pollo strappati per di più a pletore di mendicanti che per tutta la notte continuano a implorare cibo impedendo il sonno del viaggiatore. La storia del Grand Tour è durata più o meno 200 anni, ma non si è svolta sempre uguale a se stessa. Precedentemente - nel XIII secolo - le mura di Napoli erano incantate e neppure le mosche potevano entrare in città, perché le statuette di Virgilio erano magiche e ne proteggevano l'accesso. Erano successivamente quasi solo i pellegrini a spostarsi nel Mezzogiorno d'Italia. Poveri di corpo, ma ricchi di spirito, si recavano a Roma o in Terra Santa e neppure si accorgevano di un Vesuvio incombente o dello scoglio bianco degli imperatori romani. Nei programmi dell' Academie Française, il viaggio in Italia divenne parte di un vero e proprio percorso cognitivo interiore, prima di essere collezione di immagini forti o approccio con la natura. Poi è cambiato qualcosa. Solo 200 anni fa «la felicità accarezzava le pietre e le rocce d'Italia», il luogo della Terra dove più di ogni altro vivere era oltremodo piacevole. Il viaggiatore dei secoli XVII e XVIII, di provenienza germanica o anglosassone, e particolarmente quello francese, dimenticava il senso di angoscia della vita solo perdendosi fra le città e le campagne di quello che doveva essere un Paese ancora in un magico equilibrio, dove la percezione della natura era stata trasformata in arte. Non c'era neanche bisogno di muoversi o affrettarsi, una volta calcato il suolo italico, bastava aprire gli occhi per essere pervasi da una felicità incombente, che nessuno aveva mai provato prima, neppure nei giorni della giovinezza. Che Paese straordinario doveva essere l'Italia di neppure due secoli fa, inconsapevole dello scempio futuro e del degrado, ma già istradato sulla via dell'esaurimento della propria civiltà magnifica e in qualche modo «superiore». E che Paese fantastico doveva essere il Meridione d'Italia, a quel tempo, da Roma a Napoli a Palermo: una specie di paradiso terreno che permetteva le visioni più suggestive, specialmente da quelle bocche infernali aperte sulle viscere della Terra che sono i vulcani; Paese di cardilli addolorati e di incantamenti.
Certo, è una visione romantica un po'
demodé,
in fondo chi può dire di averla direttamente vissuta, e non solo attraverso i
racconti degli scrittori del
Grand Tour?
Ed è vero che non era una penisola felice, il Mezzogiorno d'Italia, né un
paradiso terreno, ma solo un susseguirsi di colline di argilla
che franano perennemente a mare. Ma eravamo nel XVIII secolo, gli italiani del
Mezzogiorno sembravano disporre di un dono particolare che permetteva loro di
mettere in luce straordinari punti di vista dell'ambiente naturale e
armonizzarli con quanto di nuovo andavano costruendo. Cosa sia accaduto in
seguito per far andare perduto quel Paese felice, per trasformare «il giardino
di Europa» nel territorio del disagio ambientale ho provato a spiegarlo nelle
pagine precedenti, ma non sono ancora sicuro di averlo compreso.
La musica di questo libro è
Un'altra vita,
una vecchia canzone di Franco Battiato che nel
refrain
dice: «... non servono tranquillanti o ideologie, ci vuole un'altra vita...».
A avercene.
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