Copertina
Autore Maria Antonietta Trasforini
CoautoreLia Giachero, Sabrina Spinazzè, Elena Pontiggia, Anty Pansera, Laura Iamurri, Emanuela De Cecco, Giorgina Bertolino, Annalisa Cattani
Titolo Donne d'arte
SottotitoloStorie e generazioni
EdizioneMeltemi, Roma, 2006, meltemi.edu 51 , pag. 236, cop.fle., dim. 120x190x21 mm , Isbn 978-88-8353-451-5
CuratoreMaria Antonietta Trasforini
LettoreGiorgia Pezzali, 2006
Classe storia dell'arte , scienze sociali
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Indice

  7 Presentazione
    Casa delle Donne di Pesaro - Udi

  9 Introduzione
    Maria Antonietta Trasforini


    Parte prima
    Storia/storie dell'arte


 23 L'artista invisibile.
    Come il genere ha cambiato la storia dell'arte
    Maria Antonietta Trasforini

 39 Uguali, non discepole.
    Artiste nel futurismo italiano
    Lia Giachero

 57 Artiste nel Ventennio.
    Il ruolo dell'associazionismo femminile tra
    emancipazione e nazionalizzazione
    Sabrina Spinazzè

 77 Figure di artiste nel panorama italiano
    fra le due guerre
    Elena Pontiggia

 93 Artigiane/artiste-designer "e" imprenditrici
    nel Novecento italiano
    Anty Pansera


    Parte seconda
    Arte relazionale e narrazioni


113 "Un mestiere fasullo":
    note su Autoritratto di Carla Lonzi
    Laura Iamurri

133 Visioni ravvicinate e spazi della relazione.
    Artiste italiane a confronto
    Emanuela De Cecco

153 "Il lavoro del nostro corpo e l'opera delle
    nostre mani".
    Intervista all'artista e racconti di ruolo
    Giorgina Bertolino

173 Negoziare la distanza.
    Artiste italiane e arte pubblica
    Annalisa Cattani

199 Artiste nel contesto.
    Narrazioni a margine di una mostra
    Emanuela De Cecco

221 Bibliografia

233 Le autrici


 

 

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Pagina 9

Introduzione

Maria Antonietta Trasforini


Generazioni

Parlare di artiste oggi significa anche prendere atto dell'esistenza di almeno tre generazioni di studi (e di studiose) sulla presenza delle donne nell'arte, l'ultima delle quali pare ormai caratterizzata da una grande varietà di punti di vista e da una grande libertà di approcci. Come un piccolo ma significativo puzzle, il panorama teorico e narrativo che il libro disegna restituisce questa complessità, coi suoi molti punti di vista e spunti di riflessione, a volte concatenati, coerenti, consequenziali, a volte in evidente e provocatoria discontinuità con un passato recente. Così dopo la generazione di studi che ha prodotto "recupero" e visibilità, dopo quella della svolta epistemologica, una "terza generazione di studiose" – generazione della discontinuità e delle differenze –, pur ampiamente debitrice alle prime due, prende atto di molti cambiamenti avvenuti, e si interroga sul significato di una nuova presunta "pari visibilità", o quasi, fra artisti e artiste.

In queste tre approssimative categorie generazionali possono essere inserite le autrici dei saggi, ciascuna con la propria cifra di lettura sulla presenza delle donne nelle arti, tutte però accomunate da una fedeltà e una passione alle ragioni "di partenza". Questo tema, che in Italia non ha mai riscosso grande popolarità, solo da poco e dopo vicende alterne sembra aver guadagnato un'attenzione meno precaria e più costante. Gli interventi di questo volume si inseriscono in questa nuova tendenza, rivolgendosi al secolo appena terminato e all'epoca contemporanea.


Storie dell'arte e contesti

La prima parte del volume, più propriamente storica, analizza la presenza delle artiste nei mondi dell'arte italiana di un secolo — il Novecento — che possiamo arbitrariamente accorciare fino agli anni Novanta — applicando anche all'arte la definizione di secolo breve di Eric Hobsbawm.

Il suo titolo doppio Storia/storie dell'arte rende conto di come l'irruzione del punto di vista di genere abbia fatto virare l'unicità della storia dell'arte da un monopolio narrativo e di memoria maschile a una pluralità di punti di vista, di presenze e di narrazioni, in cui le artiste, le storiche dell'arte, le critiche sono protagoniste: le donne d'arte appunto del titolo del libro.

Senza voler essere esaustiva, questa prima parte mette a fuoco la presenza di artiste in alcune zone o movimenti dell'arte novecentesca italiana, collocandole nei loro contesti di relazioni oltre che di produzione di opere: dalle già conosciute futuriste, alle numerose attive durante il Ventennio, alle artiste designer e imprenditrici che attraversano gran parte del Novecento, soffermandosi — come nel saggio di Elena Pontiggia — su alcune artiste di grande rilievo solo apparentemente solitarie, ben presenti invece nei movimenti novecenteschi — dal futurismo alla Scuola Romana, dal chiarismo al MAC (Regina, Antonietta Raphäel, Edita Broglio, Paola Consolo, Maddalena Nodari, Carla Badiali).

Se un grande lascito ci viene dai quasi quarant'anni di studi internazionali sulle donne artiste, esso è dato dall'attenzione ai contesti che producono l'artista — uomo o donna — ovvero a quelle reti di relazioni sociali, culturali, formative, che contribuiscono alla realizzazione di un talento e alla sua visibilità; tanto che la cancellazione del contesto in cui "nasce" l'arte è (stata) alla base delle molte e gravi omissioni della storia dell'arte e della sua semplificante produzione di artisti eroi — sempre al maschile appunto — quasi sempre senza debiti e riconoscenze: i più scontati uomini d'arte in questo caso.

Tutti i contributi insistono sulla complessità e sui movimenti doppi e spesso contraddittori che segnano la presenza delle donne nei mondi dell'arte, rilevando conflitti del passato, ma che non sono completamente scomparsi neanche nel passato prossimo o nel presente. Si rintraccia fra i vari saggi del volume un reticolo di temi e parole chiave che si rincorrono sotto il grande territorio delle donne d'arte, senza tuttavia mai veramente unificarlo. Su alcuni di questi mi soffermerò brevemente.

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Pagina 39

Uguali, non discepole. Artiste nel futurismo italiano

Lia Giachero


Introduzione

Hermione Lee nella prima pagina del primo capitolo della sua biografia di Virginia Woolf spiega di essersi resa conto di come diventi impossibile la ricerca di obiettività quando si lavora su un argomento in merito a cui chiunque ha già la propria opinione (Lee 1996).

Gli italiani probabilmente conoscono il futurismo meno di quanto gli anglosassoni conoscano il Bloomsbury Group, ma io sono in grado di capire bene il disagio di Hermione Lee soprattutto perché, come a proposito della scrittrice inglese, così anche in merito al movimento marinettiano ci sono dei miti da sfatare. Il problema però è che è arduo saggiarne la reale consistenza e forza.

La riscoperta del futurismo è stata graduale, ma, soprattutto dopo il 1986 – l'anno in cui Palazzo Grassi ha ospitato la grande rassegna Futurismo & Futurismi –, inarrestabile. Sono stati organizzati mostre e convegni, assegnate tesi di laurea e di dottorato e pubblicati libri che hanno analizzato il movimento marinettiano sotto ogni punto di vista, sia in Italia che all'estero. Il tema è stato così sviscerato che – e anche in questo caso la simmetria con il Bloomsbury Group è perfetta – molti sono infastiditi anche solo a sentirlo citare. Ma sarebbe da ingenui ignorare che per molti altri Marinetti, e con lui il futurismo, è solo un capitolo del manuale di storia della letteratura, di solito affrontato rapidamente durante l'ultimo anno di scuole superiori (altrimenti manca il tempo per dedicarsi a Montale), e che per molti altri ancora è uno sconosciuto.

Di conseguenza, nell'accingermi a scrivere queste pagine, non so se posso permettermi di dare per scontato che tutti i lettori di questo libro sappiano che ci sono state donne nel movimento futurista. Che, lungi dall'essere emarginate, venivano incoraggiate. Che quando Marinetti, nel punto 9 del Manifesto del futurismo, ha parlato di volontà di glorificazione del "disprezzo della donna" e nel punto 10 di volontà di "combattere contro (...) il femminismo" non intendeva la donna in quanto tale, ma come simbolo del sentimentalismo tardo-romantico. Che, malgrado sia indubbiamente inesatto pensare a lui come a un campione delle rivendicazioni femminili, nei programmi politici del futurismo c'erano il voto alle donne, la parità di salari e il divorzio, il che, dati i tempi e dato il paese, non era poco. Che era orgoglioso di aver sposato un'artista, che definì "mia eguale non discepola".

Può darsi che dare per scontato tutto ciò non sia corretto e che ci si debba, invece, ancora impegnare per cancellare dalla mente dei lettori la trita e inesatta idea che i futuristi fossero fascisti e bellicisti quindi naturaliter antifemministi.

Essendo il dilemma irrisolvibile perché l'identificazione del lettore implicito non è sempre agevole, mi limiterò a suggerire, a chi eventualmente si fosse stupito nel vedere nell'indice di questo volume un saggio dedicato alla presenza femminile all'interno del futurismo, di prendere in mano due libri, Le futuriste. Donne e letteratura d'avanguardia in Italia (1909-1944) di Claudia Salaris (Salaris 1982) e The Women Artists of Italian Futurism. Almost lost to History di Mirella Bentivoglio e Franca Zoccoli (Bentivoglio, Zoccoli 1997), e di affrontare un elementare esercizio di aritmetica: contare i nomi citati. L'opera di Claudia Salaris è dedicata alle futuriste attive in ambito letterario, scrittrici e parolibere, e ne analizza trentaquattro; Bentivoglio e Zoccoli, che si occupano di pittrici, scrittrici, artiste dedite alle arti applicate e fotografe, ne prendono in esame trentotto. È un numero decisamente consistente e questo è già un dato significativo per comprendere l'atteggiamento del movimento marinettiano nei confronti delle donne. Ovviamente questo in sé non basta per trarre delle conclusioni definitive. Bisogna vedere come le donne entravano nel movimento, chi erano e di che tipo di considerazione godevano.


Modalità di ingresso nel movimento: alcuni casi

A quanto risulta dai documenti che ci sono rimasti, fondamentalmente dichiarazioni delle protagoniste stesse, il reclutamento delle futuriste non era diverso da quello dei futuristi. Di solito era Filippo Tommaso Marinetti che si accorgeva di loro perché ne aveva visto le opere e le mandava a chiamare, ma capitava anche che stesse singole artiste, che si sentivano in sintonia con il movimento, proponessero le proprie tavole parolibere, quadri o scritti. Barbara, cioè Olga Biglieri Scurto, appartiene al primo gruppo, come ha raccontato lei stessa.

Feci un quadro che si intitolava "Vomito dall'aereo". Marinetti lo vide (dal corniciaio) e gli piacque quello stile "antigrazioso", quel titolo che era un pugno nello stomaco. Mi mandò a chiamare. Un ometto pieno di energia, che parlava, saltellava, spiegava. Mi disse: "Sei una vera futurista. Fai un bel quadro. Lo manderemo alla Biennale di Venezia". Era il '38 (Madeo 1998).

Adele Gloria, invece, fa parte del secondo gruppo, quello delle coraggiose che presero personalmente contatto con Marinetti. Claudia Salaris ha raccolto la sua testimonianza.

Mi raccontò che era un'adolescente ribelle e desiderosa d'emanciparsi quando, dopo l'ennesima lite in famiglia, volle inviare una poesia a Marinetti. La busta, spedita a Roma senza indirizzo, giunse a destinazione e la poesia fu stampata sulla rivista ufficiale del movimento: «Futurismo». In seguito Marinetti, trovandosi a Catania per una conferenza, si recò a casa della giovanissima adepta per conoscerla e invitarla ad assistere alla manifestazione. Durante la conferenza Marinetti declamò la sua poesia, il pubblico applaudì fragorosamente (...) solo alla fine il capo futurista svelò che l'applauso andava a una giovane autrice, Adele Gloria, che tutta rossa per l'emozione salì sul palco (Salaris 2001, p. 63).

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Pagina 77

Figure di artiste nel panorama italiano fra le due guerre

Elena Pontiggia


[...]

I valori plastici di Edita Broglio

Nel 1917 una giovane artista russa, Edita Walterowna, si presenta a Roma da Anton Giulio Bragaglia per un provino cinematografico. La ragazza non ha mai recitato e il suo sogno non è certo il cinema, ma ha bisogno di lavorare, in quegli anni di guerra. Ormai non può più contare sull'aiuto della famiglia, travolta come tutta la Russia dalla Rivoluzione d'Ottobre.

Edita si dedica da tempo alla pittura. E ha anche viaggiato a lungo. Ancora adolescente, costretta dalla rivoluzione del 1905 a fuggire da Smintene, la città del Baltico dove era nata da una famiglia di antica nobiltà terriera, era stata in Prussia e a Berlino, appoggiandosi allo zio, il barone Raimund von Zur Muehlen, cantante d'opera alla corte dello zar e dell'imperatore tedesco.

Nel 1908 si era iscritta all'accademia di Königsberg. Ma la sua vera formazione era avvenuta a Parigi, dove si era trasferita nel 1910, e dove, oltre alle infinite visite al Louvre, aveva respirato il clima delle avanguardie e forse frequentato l'ambiente dei Balletti Russi. Aveva anche letto con passione Les nourritures terrestres di Gide, e da quel momento aveva desiderato conoscere l'Italia. Così, nel 1911, era stata a Firenze e Roma, e nel 1912 si era stabilita definitivamente nella città capitolina.

A Roma aveva anche esposto per la prima volta, partecipando alla I e alla II mostra della "Secessione" nel 1913-14. Dipingeva in quel periodo opere visionarie, accese dal colore. Lei stessa definiva "incandescente" quella sua stagione espressiva.

Edita doveva aver visto Delaunay, con le sue Tour Eiffel frananti, ma le sue visioni avevano una dimensione più allucinata. Non celebrava la città moderna, ma i paesi senza tempo e trasformava i villaggi del Lazio in un piccolo Tibet, in una Katmandu ascetica. Le case sembravano volare verso l'alto, salire al cielo come sulla scala di Giacobbe.

Nel 1917 decide dunque di presentarsi ad Anton Giulio Bragaglia, fotografo vicino ai futuristi, che stava girando Thais con le sceneggiature di Prampolini. In quell'occasione conosce Mario Broglio. Inizia da quel momento un'unione sentimentale e artistica che non si interromperà più.

Nel 1917 Broglio progetta la rivista «Valori Plastici», di cui uscirà il primo numero nel novembre 1918 e che, nei pochi anni in cui rimarrà in vita, diventerà uno dei fogli più significativi del Ritorno all'ordine.

Intorno alla rivista, da cui si alza un appassionato appello a una classicità moderna, si forma l'omonimo gruppo "Valori Plastici", che comprende De Chirico, Carrà, Giannattasio, Morandi, Arturo Martini, Melli, Oppo, Socrate, Spadini, Francalancia, oltre alla stessa Edita.

In questi anni l'artista ha ormai abbandonato l'espressionismo arroventato dei primi anni Dieci. Ora realizza soprattutto disegni, contraddistinti da un primitivismo minuto e trasognato. Sono sempre i paesaggi mediterranei che l'attraggono: le casettine sparse sui colli della Ciociaria, dove l'asino porta ancora il secchio dell'acqua e il maiale pascola sul viottolo, mentre una contadina vestita col costume antico tende la mano, come una innocente Eva, a cogliere i frutti dal ramo.

Il disegno lenticolare e frammentario si modifica, però, anche sull'esempio di Morandi, a partire dalla metà degli anni Venti, dando luogo a una serie di nature morte diafane e vitree, quasi senza peso.

Possono essere un gruppo di scarpe che sembrano tessute nella garza, posate su un panno bianco e lieve; oppure un pane e un tovagliolo scolpiti nel gesso, che riposano sulla tovaglia inamidata. Possono essere bottiglie leggere come bolle di sapone; oppure gomitoli riposti accanto a un pomodoro su una mensola misteriosa, in cui irrequieti elementi vegetali e fili inanimati si confondono tra loro.

In sintonia con quanto predica "Valori Plastici" Edita è giunta a una forma più compiuta, a una costruzione più definita rispetto alle opere espressioniste. Eppure, diversamente da quanto vanno realizzando gli altri artisti del gruppo, contraddice la saldezza del disegno svuotandola dall'interno, quasi facendo evaporare le forme e le cose in una luce pallida e aurorale.

Questa "maniera chiara" lascia il posto, negli anni Trenta, a una volumetria più netta e a un colore più intenso, pur condotto sempre nelle gamme fredde, a volte minerali. Il folgorante Ritratto del 1938, in cui un volto di donna si staglia sullo sfondo di una tarsia, e in cui i fiori disegnati sul legno si uniscono senza dissidio alla rosa del vestito; mentre la figura femminile stessa sembra scolpita nell'ebano e nell'avorio, mostra l'approdo dell'artista a una più corposa tridimensionalità e a una diversa scelta cromatica, rispetto alla levità e alle luci argentee delle opere precedenti.

La pittura di Edita è un realismo magico in cui le figure si bloccano nello spazio, in un'immobilità enigmatica che supera il fluire della vita.

C'è in lei una vena fabulistica, che si rivela pienamente nelle opere più tarde. Gli oggetti che galleggiano nello spazio, le bucce di limone che si inanellano come arabeschi o come stelle filanti (A ciel coperto; A ciel sereno); le donne che dipanano il filo di lana come nuove Parche (Le matasse); le figure femminili affacciate su balconi altissimi, come le principesse prigioniere delle saghe antiche... E ancora: le apparizioni di volti addormentati e di maschere parlanti, in cui non si sa se gli oggetti si siano animati o se le cose vive sia siano tramutate in oggetti, se siamo di fronte al sonno o alla morte; i cavoli che volano come farfalle (Grande cavolo); le visioni ovattate di Lucca di notte suggeriscono una visione magica segnata da accenti fiabeschi. Alle sue immagini incantate fa riscontro sempre, però, una forma neo- quattrocentesca precisa, definita, attentamente conclusa.

"Difficile non è fare, difficile è concludere" diceva lei stessa. Edita persegue ostinatamente, insomma, la costruzione del disegno, dimostrando una fedeltà ideale, oltre lo scorrere dei decenni, a quei valori plastici cui il suo nome rimarrà sempre legato.

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Pagina 114

"Un mestiere fasullo": note su Autoritratto di Carla Lonzi

Laura lamurri


A cinque anni dalla pubblicazione del volume Autoritratto, nella primavera del 1974, Carla Lonzi annotava sul suo diario:

Adesso mi viene una certa tenerezza per il critico d'arte. Leggendo un articolo dopo tanto tempo che non mi succedeva, ho avvertito la stessa ansia di identificazione, lo stesso vagheggiamento di qualcosa che quel critico non è e vorrebbe essere (Lonzi 1978, p. 593, 24 marzo 1974).

Con la perspicuità della distanza, Lonzi focalizzava in un'analisi cruda e lucida la difficoltà propria della critica, il disagio di una relazione sbilanciata che aveva prodotto un allontanamento irreversibile, dopo un decennio intenso di attività e dopo l'esito, complesso e affascinante, di Autoritratto: del lavoro cioè che retrospettivamente possiamo considerare conclusivo dell'attività di Lonzi come critica d'arte, e che più propriamente dovremmo considerare un'opera di messa in crisi della critica d'arte.

Nelle pagine che seguono vorrei evidenziare diversi importanti tratti di continuità nel pensiero di Carla Lonzi (alcuni già segnalati in Boccia 1990), e come in Autoritratto faccia la sua comparsa, sotto forma di una ricerca di relazione autentica con gli artisti, il germe remoto delle riflessioni che hanno portato all'abbandono della critica d'arte e alla fondazione, con Carla Accardi ed Elvira Banotti, di Rivolta Femminile. È Lonzi stessa, in vari passi del diario, ad autorizzare questa lettura: in generale, mettendo in sequenza diretta le poesie, la critica d'arte e il femminismo, sottolineandone il carattere sotteso e comune della ricerca di un'autenticità di relazione; e in particolare con osservazioni specifiche, come ad esempio quando scrive degli artisti: "in Autoritratto facendoli parlare volevo riportarli a loro stessi, rendere operante la mia presenza in modo diverso" (p. 49, 18 agosto 1972). Ma, in questo ambizioso progetto, qualcosa non funziona, la rete dei rapporti non si ridisegna, non si esce dal modello della relazione artista/spettatore, come scrive ancora Lonzi qualche settimana dopo, nel settembre 1972:

Il senso di ciò che dicono gli artisti in Autoritratto proviene dal riconoscimento non solo della loro autenticità, ma anche della mia che dava loro occasione di manifestarsi. Dunque ero una spettatrice. Quello che mi turbava era però il fatto che mi vedessero solo come spettatrice, oggi capisco il perché. Anche Ester mi faceva pesare, all'inizio del libro, il sospetto di un'impresa poco creativa e mi esortava ad esserlo completamente, mentre io compivo un'operazione che non era capita! Dopo mi faceva ridere che i critici prendessero il magnetofono e registrassero conversazioni su nastro! Gli artisti supponevano forse che fossi più intelligente, più sensibile di quelli, dunque più brava al registratore, certamente più onesta, ma tutto finiva lì, in una spettatrice ideale (p. 79, 13 settembre 1972).

Prima di entrare nel merito delle contraddizioni e delle delusioni che hanno condotto Lonzi ad abbandonare la critica d'arte, mi pare utile ricordare brevemente Autoritratto.


Un Autoritratto collettivo

Pubblicato nel 1969 dall'editore De Donato di Bari, tirato in poche centinaia di copie e mai più ristampato, questo libro è oggi introvabile: poco citato, sorprendentemente ignorato anche in testi e contesti all'interno dei quali ci si aspetterebbe almeno una menzione, Autoritratto appare come il sintomo di un vuoto o almeno di un ricordo assai più labile, meno benevolo e comunque separato rispetto alla memoria affettuosa e viva che circonda la Lonzi femminista e teorica del femminismo; Autoritratto è oggi un oggetto prezioso per chi lo possiede, ha una circolazione semiclandestina, sotterranea, basata essenzialmente sulle relazioni dirette, sulle parole scambiate, sul prestito.

Il libro raccoglie una serie di interviste registrate da Lonzi fra il 1965 e il 1968; il titolo, come già rilevato da Maria Luisa Boccia, sottolinea il ruolo attivo degli artisti nel parlare in prima persona di sé, dell'arte e del proprio stare nell'arte e nel mondo. Le interviste non sono tutte inedite: alcune erano già uscite sulla rivista «Marcatré» sia in forma indipendente (Lonzi 1966a; 1966b; 1967), sia nell'ambito di una più vasta inchiesta sulle tecniche e i materiali dell'arte contemporanea promossa dalla rivista nel 1968 (Lonzi, Trini, Volpi 1968).