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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Antonio Padellaro 7 |
| << | < | > | >> |Pagina 50Il Taormina di PutinLo Statista di Milanello comunica: «L'Italia in passato era conosciuta all'estero solo per la Piovra, ora lo è per la politica estera». Sante parole. Infatti, ai tempi della Piovra, con la mafia si combatteva, non si conviveva. E all'estero mostravano di apprezzare. Ora molto meno. È vero che oggi siamo molto conosciuti per la nostra politica estera, ma nel senso di Alberto Sordi, del «facciamoci sempre conoscere». Soprattutto dopo la prolusione sulla superiorità dell'Occidente sull'islam, la simpatica battuta del kapò e la lezione sui diritti umani modello Cina e Cecenia. Colpa dell'85 per cento della stampa mondiale che, essendo comunista, getta fango sull'anticomunista Berlusconi. Il quale, però, assicura che anche il comunista Putin è perseguitato dall'85 per cento della stampa, che dunque si presume anticomunista. A questo punto si pone un interrogativo inquietante: può esistere un 85 per cento di giornali comunisti e, contemporaneamente, un 85 per cento di giornali anticomunisti? Il totale farebbe 170 per cento e anche un creativo come Tremonti faticherebbe a trovare una spiegazione. Ma nulla è impossibile al nuovo avvocato del regime russo: è riuscito persino a impedire che Putin venisse interrogato da Paolo Guzzanti in commissione Mitrokhin, sempre a caccia di spie del Kgb. Se finora, come ha scritto Curzio Maltese, Berlusconi era lo Schifani di Bush, ora è anche il Taormina di Putin. Colpisce, nel nostro statista brianzolo, la scelta degli uomini. Col suo fiuto da rabdomante, riesce sempre a selezionare il meglio sul mercato. Nella sua personalissima isola dei famosi, le nomination sono sempre ad altissimo livello. Nel giornalismo fa fuori Montanelli, Biagi, Santoro e De Bortoli, ma in compenso lancia Sgarbi, pubblica Vespa, riesuma Jannuzzi, scopre talenti come Mimun, Socci, Belpietro, giù giù fino a Pionati. Nel mondo dell'economia prende sberle da Modigliani e Sylos Labini, ma si consola con Tremonti, Brunetta e Micciché. I suoi uomini attaccano Benigni, Fo e Ronconi, ma anche quel settore è già coperto da Martufello. Ce l'hanno pure con Bobbio, Galante Garrone, Eco, Tabucchi e Camilleri, ma d'altra parte hanno già Gervaso, Rosa Giannetta Alberoni e persino il di lei marito. Censurano il professor Alessandro Pizzorusso, che è solo accademico dei Lincei e non è neppure consulente di Previti, né può vantare le competenze costituzionali di un Bossi o di uno Speroni. Per l'Enea votano contro Rubbia (non ha il fisico): i loro scienziati di riferimento sono Lucio Stanca e l'ingegner Castelli. Si inimicano Muti e Abbado, ma hanno già Apicella e Tony Renis. Anche in storia, i nostri eroi vanno fortissimo: ieri il «Giornale» annunciava in prima pagina che «dieci anni fa cadeva il Muro» e che «An celebrerà il decennale»: dopo 14 anni, fra l'altro. Le celebrazioni a Milano - annuncia il «Corriere» - sono affidate a noti sovietologi quali Daniela Santanché, Paolo Brosio, Elisabetta Gardini e Rosanna Lambertucci. Grazie a questo po' po' di intellighenzia, Milano è una sorta di seconda Atene, come dimostrano anche la scalata di Dell'Utri al teatro Lirico e la minacciata candidatura di Confalonieri a sindaco (è l'unico della ditta ancora senza cariche pubbliche). Lo scorso anno, essendo inquisito, Confalonieri fu insignito dal Comune dell'Ambrogino d'oro: scartata invece la candidatura di Borrelli, colpevolmente incensurato. Quest'anno ci si accapiglia sui morti: Bramieri contro Marinetti (il futurista), Miglio contro Falck. E il capogruppo di An Stefano Di Martino accusa gli anti-marinettiani di fare dell'«antifascismo strisciante» (testuale). In omaggio alla svolta di Fini, s'intende. Un Fiuggi Fiuggi generale. (9/11/2003) | << | < | > | >> |Pagina 210Par supplicioIn principio erano le armi di distruzione di massa. Per prevenire il terribile attacco di Saddam al resto del mondo, partì la guerra all'Iraq. Poi si scoprì che le armi non c'erano. Allora si disse che eravamo lì per liberare gli iracheni da Saddam e dai suoi aguzzini. Poi si scoprì che i suoi aguzzini, appena catturati, venivano travestiti da ufficiali del nuovo governo provvisorio e rimessi in pista. Allora si disse che bisognava restare perché gli iracheni lo volevano, infatti ci accoglievano come liberatori. Poi si scoprì che ci sparavano addosso. Allora si disse che eravamo lì per esportare la democrazia. Poi si scoprì che già che c'eravamo, esportavamo anche la tortura, della quale peraltro l'Iraq era un discreto produttore. Allora si disse che c'è una bella differenza fra la tortura di Saddam e la nostra: lui, i torturati mica li fotografava, noi sì. Clic. Volete mettere la differenza? Allora si disse che bisognava restare per garantire la pace in Iraq, contro la guerra che peraltro abbiamo scatenato noi. Poi si scoprì che la pace fa più morti della guerra. Allora si disse che bisognava restare per combattere il terrorismo. Poi si scoprì che il terrorismo, da quando lo combattiamo, aumenta. Allora si disse che bisognava restare perché altrimenti scoppia la guerra civile. Poi, consultando i libri di storia, si scoprì che il passato iracheno non conosce guerre civili, dunque l'evento paventato è tutto da dimostrare. Dopo la guerra preventiva per scongiurare un pericolo inesistente, ecco la guerra preventiva per scongiurarne uno eventuale. A questo punto Colin Powell ha ingranato la retromarcia: «Se gli iracheni non ci vogliono, ce ne andiamo». Quelli del nostro centrosinistra l'avevano detto appena il giorno prima: ancora poche ore, e si facevano scavalcare dal compagno Powell. Sono soddisfazioni. Questa danza macabra di ordini e contrordini mette a dura prova i riflessi del cosiddetto governo italiano e degl'intellettuali al seguito. La loro missione è quella di trovare le parole per nascondere la verità e giustificare le direttive dell'amico Bush. Purtroppo sono giù di allenamento e spesso arrivano in ritardo. Giuliano Ferrara, sempre molto intelligente, pare un po' appesantito. L'altro giorno, in joint venture con Feltri, ha pensato bene di pubblicare la gigantografia dell'americano decapitato. Per dimostrare quanto sono terroristi i terroristi. Così imparano quelli che pubblicano le foto delle torture. Tiè. Par condicio. À la guerre comme à la guerre (pardòn, il ministro Frattini ci scusi: À la paix comme à la paix). Tutte le persone sensate, come Sergio Romano che quando non parla di giustizia spesso ci azzecca, hanno fatto notare che quella grottesca par condicio non ha senso: «La contabilità dell'orrore e la contrapposizione delle immagini sono, soprattutto per l'Europa, un tragico sbaglio. Chi se ne serve per giustificare ciò che è accaduto a Baghdad perde contemporaneamente la guerra irachena e la propria credibilità politica». Lo capiscono, ed è tutto dire, persino Bush e Rumsfeld: dicono di vergognarsi e si scusano col mondo islamico. Ferrara, essendo molto intelligente, non ci è ancora arrivato. E si attarda nelle retrovie sproloquiando tutto trafelato di «episodi circoscritti» (almeno 25 morti per le sevizie), delle «misure correttive» da adottare (certi elettrodi non funzionavano), del «virus» che «ci indebolisce nella guerra»: non la tortura, beninteso, ma «la voracità morbosa di dire che la colpa è dell'Occidente, di pubblicare immagini delle torture degli occidentali». Cioè quel poco di spirito autocritico rimasto nelle opinioni pubbliche democratiche. Il Platinette Barbuto è lo stesso che, appena in Italia finisce in galera per qualche giorno un ladrone di stato, con regolare processo, grida alla «tortura» e chiama Amnesty International. Poi c'è Piero Ostellino, che da anni accusa i magistrati di Mani Pulite di «giacobinismo» e «devastazioni della civiltà del diritto» (30 agosto 2003) solo perché mettevano in carcere qualche imputato eccellente per un paio di settimane (memorabile la sua recente lamentazione per Tanzi e le sue prigioni). Ma di fronte alle torture vere diventa una pasta d'uomo: niente più devastazioni della civiltà del diritto. Anzi, ieri, a proposito delle sevizie degli americani, intimava: «Non chiamiamole torture». Ecco: Bush, Rumsfeld, i deputati Usa che hanno appena visto l'ultima infornata di foto (vere) sugli orrori di Abu Ghraib e li chiamano torture non hanno capito niente. Quelle - Ostellino docet - non sono torture, ma effetti collaterali della «mancanza di professionalità, di addestramento, di controllo» della truppa. E poi, via, la «democrazia reale» è quella roba lì: «catturare i sospetti di terrorismo, farli parlare, accumulare la maggior quantità di informazioni»: «l'intelligence non è un balletto», si è sempre fatto così, avendo però cura di «non farsi fotografare se si maltrattano i sospetti di terrorismo». Alla fine Ostellino si felicita per «la buona educazione democratica» dimostrata nell'increscioso frangente dagli Usa. Una questione di galateo: ti è scappato un ruttino, chiedi scusa, e morta lì. Anzi, morti lì. P.S. L'altra sera, intervistato in tv, Marco Follini ha dichiarato: «Con le torture noi non c'entriamo». Purtroppo, alle sue spalle, campeggiava un manifesto dell'Udc con scritta cubitale: «Io c'entro». Pover'uomo. (18/05/2004) | << | < | > | >> |Pagina 305La parola all'espertoVa affermandosi in Italia un nuovo mestiere di sicuro avvenire: il commentatore di sentenze mai lette. È un po' come il recensore di film mai visti, che pretende di spiegare a chi li ha visti di che cosa parlano e come gli sono sembrati. Naturalmente, non avendoli visti, non ha la più pallida idea di che si tratti e dunque procede a tentoni, tira a indovinare, si barcamena come lo scolaro interrogato che non ha studiato. Ma mentre il recensore e lo scolaro rimediano figure barbine e voti bassissimi, il commentatore di sentenze mai lette ha l'applauso assicurato. Perché nel regime italiota si ritrova in assoluta maggioranza, circondato da persone che le sentenze non le hanno mai lette ma, come lui, le commentano copiosamente. A trovarsi a disagio, nel regime italiota, è chi - esemplare rarissimo, pressoché estinto - le sentenze le conosce. Dunque non ha diritto di parola. E, se per caso dice qualcosa, viene immediatamente zittito, sputacchiato, svergognato, minacciato, proposto per punizioni esemplari. L'ultimo caso del genere s'è verificato a proposito della sentenza della cassazione su Andreotti, gabellata a reti unificate per un'assoluzione liberatoria, una beatificazione plenaria. Gian Carlo Caselli, uno dei tre o quattro in Italia che la conoscono (o meglio, conoscono la sentenza d'appello che la cassazione ha confermato), ha tentato timidamente in un articolo sulla «Stampa» di ricordare di che si sta parlando: «La cassazione - ha scritto -, ribadendo l'assoluzione per i fatti successivi, ha confermato che fino alla primavera del 1980 l'imputato ha commesso il reato di associazione con i mafiosi dell'epoca, capeggiati da Stefano Bontate, autori di gravissimi delitti». Apriti cielo. Nessuno ha potuto smentire, sentenza alla mano, quel che ha scritto Caselli, anche perché la sentenza non l'ha letta nessuno. Ma nel regime italiota non ci si perde d'animo per così poco. Così, a camere unificate, i politici di destra e di sinistra (con la lodevole eccezione dei Ds e Di Pietro) hanno zittito Caselli all'insegna del «come si permette?». È come se le tv dicessero che il film Troy parla dell'attacco a Pearl Harbour e il regista provasse a obiettare che, in realtà, si parla della guerra di Troia, ma venisse zittito come un impiccione importuno. «Quello di Caselli - dice al «Giornale» Paolo Cento dei Verdi - è un intervento inopportuno perché il processo si è concluso con un'assoluzione e bisogna rispettare la sentenza». Non gli viene neppure in mente che, per rispettarla, bisognerebbe almeno darle un'occhiata. Così magari si scoprirebbe che l'assoluzione (per insufficienza di prove) riguarda il periodo 1980-1993, mentre fino alla primavera del 1980 il reato è stato commesso e accertato, ma l'imputato s'è salvato per prescrizione. Poi c'è l'onorevole Enrico Buemi dello Sdi, quello che l'anno scorso propose in tandem con Carlo Taormina di depenalizzare il furto. Stavolta pontifica su Andreotti e sostiene che «Caselli si arrampica sugli specchi per difendere quello che ha fatto» e che «tutto il processo Andreotti nasce da una pericolosissima confusione tra le responsabilità politiche e quelle penali che attivano processi mostruosi come quello che lo ha riguardato». Ma qui di pericolosissimo e mostruoso c'è solo l'ignoranza (dal verbo ignorare) di Buemi sul processo Andreotti. Se la corte d'appello di Palermo ha accertato che il sette volte presidente del consiglio incontrò due volte il boss dei boss Stefano Bontate, prima e dopo il delitto Mattarella, e intrattenne «amichevoli relazioni» con i vertici di Cosa Nostra, «chiedendo favori» e fornendo «suggerimenti», di quali «responsabilità politiche» va cianciando questo Buemi? Le «amichevoli relazioni», i suggerimenti e gli scambi di favori con la mafia sono responsabilità penali, configurano un reato ben preciso che si chiamava associazione mafiosa (prima del 1982, quando fu introdotto quel delitto specifico, si chiama associazione per delinquere). Anche Giuseppe Fanfani della Margherita ha censurato Caselli, dicendo che «le sentenze non si commentano mai»: ora, a parte il fatto che i politici non fanno altro che commentare sentenze, Caselli non ha affatto commentato quelle d'appello e di cassazione. Ha semplicemente informato i lettori della «Stampa» del contenuto di quelle sentenze, perché ciascuno possa farsene un'idea. E magari criticare aspramente i giudici, ma sapendo almeno che cosa hanno scritto. Formidabile il commento di Ottaviano Del Turco, già presidente dell'Antimafia, che qualche sillaba della sentenza avrebbe dovuto pur leggerla: «Non capisco perché una parte della sinistra italiana continui a sottoscrivere una visione della storia d'Italia come se fosse stata governata per cinquant'anni da mafiosi e piduisti». Dunque non solo la mafia non ha mai avuto rapporti con la politica, ma nemmeno la P2. Gelli non è mai esistito, Berlusconi non è mai stato iscritto alla P2 insieme a generali, ministri, sottosegretari, giornalisti: lo dice l'ex presidente dell'Antimafia, allegria. Se il centrosinistra ha reagito così, figurarsi il centrodestra. Il prof. pres. on. avv. Pecorella sostiene che «prescrizione non significa che il reato è stato commesso, ma che non c'era l'evidenza che fosse stato commesso». Se avesse letto almeno il dispositivo (12 righe) della sentenza d'appello confermata in cassazione, avrebbe trovato proprio ciò che lui nega: e cioè che il reato di associazione per delinquere è stato «commesso», è «concretamente ravvisabile», è provato, ma «estinto per prescrizione». Poi c'è il leggendario Giovanardi, quello che fa addirittura il ministro e che riesce a scrivere libri (anzi uno solo, sempre lo stesso) sulle sentenze, senza conoscerle. «Caselli - dice il Giovanardi - persevera nel gettare fango su Andreotti, confermando che per alcuni pm malati di ideologia il loro imputato sia comunque colpevole anche se assolto in tre gradi di giudizio». Il concetto di prescrizione non riesce proprio a entrargli in testa: è più grande di lui. (25/10/2004) | << | < | > | >> |Pagina 383Todos zapaterosPochi lo sanno, a causa del dominio comunista sull'informazione. Ma in Spagna è in corso un colpo di stato. Al posto del colonnello Tejero ora c'è il socialista Zapatero, ma il risultato è lo stesso. A rivelarlo, con un disperato grido di dolore sull'ormai clandestino «El Mundo», è il leader della nuova resistenza, un partigiano di origini italiane: Paolo Vasile, amministratore di Telecinco e plenipotenziario di Mediaset a Madrid. L'eroico resistente accusa il tiranno Zapatero di attentare alla giovane democrazia spagnola con la riforma delle tv, che minaccia di aprire il mercato delle frequenze a nuovi soggetti: due nel sistema analogico (quello «in chiaro»), molti di più sul satellite e sul digitale (dopo il 2010). Educato alla democrazia dai costituzionalisti della scuola di Arcore, succursale di Milano2, l'impavido Vasile trova intollerabile e antidemocratico che alcune imprese partecipino a una gara e si aggiudichino regolarmente frequenze e concessioni, facendo concorrenza alla sua tv che oggi - nel settore commerciale - scorrazza praticamente in regime di monopolio (l'altra emittente privata, Antenna3, fa capo a De Agostini, socio di Berlusconi nel «Giornale», e a Carlotto, ex dirigente Mediaset). Poi ci sono i due canali pubblici, Tv1 e Tv2. Ora arriveranno anche la Prisa di Jesus Polanco (già proprietario di «El Pais» e della radio Cadena Ser) e un altro gruppo ancora. Provenendo dall'Italia, cioè da quel mondo a parte dove la concorrenza non s'è mai vista e dove si tende a confondere lo stato con Mediaset, che da vent'anni legifera al posto dello stato grazie a politici servi o corrotti, Vasile considera golpe tutto quanto non fa comodo a Telecinco. Purtroppo i suoi discorsi, che in Italia gli varrebbero il trofeo Luigi Berlusconi o il premio «Riformista dell'anno», in Spagna non attaccano. Parla bene lo spagnolo, ma nessuno lo capisce. La Spagna, per dire, considera l'antitrust un antidoto al trust: tant'è che nessun privato può controllare più del 51 per cento di una tv (prima il tetto era del 29 per cento). Infatti Berlusconi, credendo di essere in Italia, è accusato di aver controllato il 100 per cento di Telecinco tramite i soliti prestanomi. Per questo s'è guadagnanto un processo anche in Spagna, ora sospeso in attesa che esca da Palazzo Chigi con le mani alzate. Abituato alle usanze della casamadre, Vasile insinua persino che Zapatero per la riforma delle tv abbia preso tangenti dal gruppo Prisa. Forse confonde Zapatero con Craxi. che dopo i due decreti pro Berlusconi e la Mammì pro Berlusconi ricevette in Svizzera 21 miliardi da Berlusconi. Ecco: il fatto che in Spagna un socialista non prenda soldi da Berlusconi e addirittura non rubi, è motivo di comprensibile allarme per tutto il gruppo Mediaset. Se a ciò si aggiunge che il golpista Zapatero ha varato un codice etico per politici e pubblici funzionari (in Italia si svuoterebbe il parlamento) e ha persino osato mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, il quadro del colpo di stato è completo. Tantopiù che Zapatero non s'è mai sognato di riabilitare i compagni che rubano, spazzati via dal giudice Garzón. In Spagna si può essere socialisti anche senza rubare o rimpiangere i ladri: diversamente dal Psi, il Psoe è sano e non bastano quattro Gonzales a distruggerlo. La replica di Zapatero alle insolenze di Vasile aumenta vieppiù la nostra inestinguibile invidia per la Spagna: «L'opinione di questo cittadino italiano - ha detto - è molto rispettabile, ma dovrebbe moderare un poco i termini, soprattutto dopo quello che ho letto. La nostra riforma aumenta il pluralismo e dunque la libertà». L'ha chiamato proprio così: «cittadino italiano». Senz'ombra di sciovinismo, ma con grande dignità. Grazie a Berlusconi e a chi da 25 anni lo protegge, a destra e a sinistra, quando nel mondo si parla di televisioni l'aggettivo «italiano» diventa un insulto. Un sinonimo di «thailandese». Che poi proprio un italiano, un berlusconiano, un parente stretto delle leggi Gasparri 1 e 2 e del decreto salva-Retequattro gridi al golpe per la riforma delle tv in Spagna ha un che di irresistibilmente comico. Nei colpi di stato le tv finiscono in mano a chi comanda, come in Thailandia e in Italia. In Spagna è l'esatto contrario, tant'è che il governo non controlla più nemmeno la tv di stato: anziché privatizzarla o lottizzarla, come si fa da noi, Zapatero l'ha affidata a una docente universitaria, che per cominciare ha dichiarato guerra alla telespazzatura («telebasura»). Poi ha nominato un comitato di esperti super partes (fra cui un docente di etica) per riscrivere la legge e impedire che mai più la politica occupi «la tv pubblica, cioè di tutti». Se nel 1996-2001 l'Ulivo avesse fatto altrettanto, anziché lottizzare selvaggiamente, Berlusconi non si sarebbe trovato su un piatto d'argento la legge che gli consegnava la Rai, in aggiunta a Mediaset. E il colpo di stato sarebbe fallito. Invece è perfettamente riuscito. Perciò il Cavalier Bellachioma considera golpisti i governi che glielo impediscono: cioè tutti i governi democratici del mondo. Appena sente parlare di libero mercato, mette mano alla fondina. (18/02/2005) | << | < | > | >> |Pagina 428Vieni avanti, creativoIl papa è morto, Ranieri è morto e Bellachioma si sente poco bene. Così, mentre si lecca le ferite, anzi se le fa leccare dalle sue lingue aziendali, manda avanti Giulio Tremonti, detto The Genius. La sua media di presenze televisive insidia ormai il record di Bertinotti. Ma con una differenza. L'ansia da telecamera trascina Berty in un irrefrenabile trasporto amoroso verso qualsiasi tenutario di salotto tv, a cominciare da Vespa (infatti il leader rifondarolo già preannuncia un'aspra battaglia in difesa dell'insetto, nella remota eventualità che qualcuno gli voglia riservare la sorte di Biagi e Santoro). Il Genio, invece, più i conduttori lo invitano, più li prende a pesci in faccia. E quelli, anziché insegnargli l'educazione, sorridono compiaciuti. L'altra sera, tanto per cambiare, era a Ballarò. Le rare volte che Floris azzardava una domanda a qualcuno, il Genio arrotondava la boccuccia a cul di gallina stitica e gli intimava di «non fare comizi». Visto che si parlava di economia, oltre al solito parterre di politici, c'era sorprendentemente un economista, il professor Bruni della Bocconi. Tremonti, che è un commercialista, non gradiva. Anche perché l'economista aveva l'handicap di capire di economia e dunque spiegava che è pura follia tagliare ancora le tasse dopo la bocciatura europea. Il Genio lo zittiva con insolenza, gli intimava di non occuparsi di tasse «lei che è esperto di moneta», «queste sono sue opinioni personali» (e di chi, se no?) e addirittura «comizi politici di uno pagato dalla Rai». Un conduttore che si rispetti avrebbe preso per il bavero questo misirizzi inamidato, elencandogli i titoli scientifici dell'ospite e intimandogli di chiedere scusa, poi l'avrebbe scortato all'uscita con l'avvertenza di ripresentarsi soltanto accompagnato dai genitori. Invece Floris ha balbettato che lui non paga gli ospiti, e morta lì. Proviamo per un attimo a immaginare che ne sarebbe del Genio se il suo spirito-guida non controllasse le tv. Entrerebbe negli studi Rai in punta di piedi, gli occhi bassi, le orecchie pure, il bavero rialzato e la barba posticcia, sperando di non essere riconosciuto. Si avvicinerebbe timidamente al conduttore per ringraziarlo del favore che gli fa e pregarlo di sorvolare su certe vicenduole della sua catastrofica carriera ministeriale. L'annuncio al Tgl del «buco dell'Ulivo» da 40, o 30, o forse 65 mila miliardi di lire, ovviamente mai esistito (luglio 2001). La promessa di «un nuovo boom economico» (agosto 2001). I 12 condoni della finanziaria 2004, firmata da lui che sul «Manifesto» e sul «Corriere» definiva i condoni «roba da Sudamerica prima del colpo di stato». Poi la cacciata a pedate dal governo per decisione del vicepremier Fini, che lo accusò di aver presentato «carte truccate all'Ecofin» (luglio 2004), mentre lo scaricava persino il successore ed ex consigliere Mimmo Siniscalco, denunciando il buco (vero) di 30-40 miliardi di euro e dicendo «basta condoni e finanza creativa». Ora questo supercollezionista di fiaschi, da far impallidire le cantine sociali, saltella da una tv all'altra come se nulla fosse accaduto. E tenta persino di insegnare, con quella faccia da Tremonti, quella boccuccia a scomparsa, quella linguetta retrattile, l'economia agli economisti e il giornalismo ai giornalisti. Pretendere che qualcuno in tv disturbi il vicepadrone del vapore, è francamente azzardato. Ma casomai esistesse un temerario che volesse porgli una domanda, ne suggeriamo facili facili. 1) Onorevole Boccuccia, perché, visto che lei è un genio e i conti vanno a gonfie vele, lei non è più ministro dell'Economia? 2) Egregio signor Genio, com'è poi andata a finire con Fini? Era lei che mentiva sui conti pubblici, o era Fini che mentiva su di lei? E siete comunque rimasti amici? 3) Ascolti questo illuminato parere: «Nel chiuso del nostro recinto fiscale ci stiamo assuefacendo a imposte straordinarie e condoni permanenti all'insegna dell'iniquità... Questo continuo distruttivo gaspillage fiscale, secondo alcuni inevitabile, non può continuare a lungo: perché è pericoloso, dato che entrate straordinarie e saltuarie non possono finanziare spese ordinarie e strutturate... Si deve tornare alla tranquillità delle trebbiature e delle vendemmie e per farlo c'è molto spazio. Non si tratta di esaurire la fertilità dei campi, dove si è già fin troppo trebbiato e vendemmiato, si tratta piuttosto di dissodare i campi estesissimi dove finora ancora niente è stato fatto: i campi dell'evasione fiscale, le aree incolte del privilegio... Contabilizzare da subito entrate sperate, forse poco probabili e certo non istantanee... a copertura di spese certe e attuali, non sarebbe solo fare un falso in bilancio, ma un attentato al principio fondamentale della nostra costituzione finanziaria. Inoltre, se c'è un modo per favorire l'evasione, è proprio l'improvvisazione. In realtà, in Italia c'è evasione fiscale strutturale perché non c'è amministrazione fiscale... Per la legge fiscale, la contabilità d'impresa fa stato a favore dell'imprenditore e - per vocazione suicida - contro il fisco. L'evasione può solo essere prevenuta attraverso un serio apparato deterrente di amministrazione fiscale basato su coefficienti e accertamenti ... Meno oppressione e più pressione fiscale». Vede, Genio: l'autore non è un comunista della Bocconi, né un tecnocrate di Forcolandia venduto ai cinesi. Questo è lei, il 12 agosto 1992, sulla prima pagina del «Corriere». Si condivide ancora, oppure - come spesso capita al suo principale - si è frainteso? (14/04/2005) | << | < | > | >> |Pagina 503Il Cavaliere di HardcoreSilvio Berlusconi, rivendicando il merito della scelta di Parma come sede dell'Authority europea per l'alimentazione, rivela che sarebbe toccato a Helsinki, ma lui fece la corte alla presidente finlandese «rispolverando le mie vecchie arti di play-boy» e la convinse a cedere il passo all'Italia. L'indomani il governo finlandese smentisce tutto e convoca l'ambasciatore italiano per esigere spiegazioni. Se cinque anni fa ci avessero predetto una crisi diplomatica con la Finlandia, avremmo pensato a una barzelletta. Ma l'Italia del Presidente Playboy ha questo di bello: prima o poi le barzellette si avverano. Infatti, dal 2001 a oggi, siamo riusciti a scontrarci anche con Danimarca, Svezia e Norvegia. Con la Danimarca fu quando il Cavaliere di Hardcore, in diretta tv fuori dalla fascia protetta, offrì la sua signora al premier Rasmussen, che «è molto più bello di Cacciari». Con la Norvegia fu quando il nostro ambasciatore intimò al Festival di Oslo di oscurare il documentario della Pbs americana Citizen Berlusconi (risposta: prima una pernacchia, poi la proiezione del film per tre sere consecutive). Con la Svezia fu quando la tv pubblica di Stoccolma trasmise uno spot che diceva: «Siamo una tv libera, non la Rai di Berlusconi». Il governo italiano convocò l'ambasciatore svedese per protestare. Questi rispose che i reclami per gli spot della tv svedese vanno rivolti alla tv svedese, che non ha nulla a che fare col governo svedese: lì si usa così. Insomma ci siamo fatti conoscere in tutta la Scandinavia. E c'è ancora un anno (almeno) di tempo per allargarci alla Lapponia e all'Isola di Pasqua. Lo schema è fisso: il governo italiano convoca gli ambasciatori esteri quando accade qualcosa di normale, che Bellachioma ovviamente trova anormale; i governi stranieri convocano l'ambasciatore italiano quando accade qualcosa di anormale, che Bellachioma ovviamente trova normale. Il nostro pensiero commosso va ai rappresentanti del corpo diplomatico nazionale che, a ogni passaggio del Cavalier Crescina, devono inventarsi scuse penose per giustificarne le parole e le opere. Meritano doppia l'indennità-rischio: appena lui apre bocca, perdono la faccia. Ma stupisce lo stupore. Che ci si aspettava da uno così? Uno che non distingue un partito da un'azienda, un governo da una società off-shore, un parlamento da un villaggio Mediterranée, come può distinguere una bandana da una feluca? Lui, diciamo la verità, non ci ha mai nascosto niente. È sempre rimasto sé stesso. Quello che la notte del Capodanno 1987 telefonò mogio a Dell'Utri (intercettato) per dargli una ferale notizia: «Sono qui ad Arcore con Bettino, aspettavamo le ragazze del Drive in, ma non sono venute. Sai, chi non tromba a Capodanno non tromba tutto l'anno...». È cambiato solo il fondale: al posto di Villa San Martino c'è ora Palazzo Chigi, ora il parlamento europeo, ora il G8. E, al posto delle ragazze di Drive in, la signora Tarja Halonen. Ma lui è sempre lui. Han voglia Pera e Ferrara a menargliela col ritorno dei valori e la dittatura del relativismo. Han voglia Bondi e Adornato a promuovere convegni e riempire riviste con struggente dedizione per accreditarlo come il nuovo De Gasperi o il nuovo don Sturzo. Lui è sempre quello delle tettone di Drive in, delle corna, della bandana, del dito medio alzato. E non fa nulla per nasconderlo. Sono gli altri che si ostinano a prenderlo sul serio. Se l'opposizione lo considera un interlocutore e le tv e la stampa al seguito lo scambiano per un politico, è ovvio che i capi di governo stranieri lo prendano per un collega. Oltre le Alpi, se un premier dice una cosa, si pensa che voglia dire quella cosa, anche perché all'estero non esiste quell'esercito di terzisti, riformisti e pompieri che minimizzano, smentiscono e sorridono a ogni impresa del pornopremier, seguiti a ruota dal portavoce, anzi dal portacazzate Bonaiuti: «Quella sulla presidente finlandese - balbettava nel pieno della crisi diplomatica con Helsinki - era una carineria detta in clima festoso». Intanto Bellachioma chiudeva l'incidente alla sua maniera: mostrando la foto della signora Halonen, commentando: «Ma chi poteva credere che io corteggiassi una così? Ma l'avete vista bene?». Il tocco di finezza che ci voleva. Quando sarà finita, Bonaiuti dovrà farsi la plastica facciale come un ambasciatore o un premier qualsiasi. Ora si attendono col fiato sospeso le prossime carinerie del latrin lover brianzolo. Ricevimento al Quirinale: lui fa il piedino a Franca Ciampi. Vertice all'Eliseo: fa l'occhiolino a Bernadette Chirac. Gita premio alla Casa Bianca: dà un pizzicotto sul sedere a Laura Bush («lo facevo già con quella gnocca di tua suocera Barbara») e chiede simpaticamente a Condoleeza Rice quando gliela dà. Sbarco dei coniugi Putin a Villa La Certosa: tastatina alle tette di Ludmilla («per vedere se è tutta roba genuina»). Primo summit a Berlino con la neo-leader della Cdu Angela Merkel: la riceve in boxer e le regala una guèpiere in pizzo nero con autoreggenti, manette e frustino («Siamo tutti nel Ppe, dobbiamo conoscerci meglio. Mi consenta, perché non mi fa la governante tedesca?»). Visita dei Blair a Villa La Certosa: lui lascia Tony con Apicella e si apparta con Cherie con una scusa in dolce stil novo: «Vieni che ti mostro la mia collezione di cactus».
(20/06/2005)
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