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| << | < | > | >> |Pagina 9JanJan si svegliò lentamente. Aprì gli occhi. Non riusciva a distinguere nulla, il buio era totale. Dov'era? Non era sdraiato su un letto, doveva essere a terra. Cos'era successo? Era svenuto? Una sensazione di panico si impossessò di lui. Istintivamente cercò di alzarsi. Sbatté la testa contro il soffitto. Ricadde all'indietro, seguito da una piccola valanga di detriti che gli finirono sulla faccia. Restò immobile. L'aria era umida e pesante, come quella che si respira in una vecchia cantina. La peggiore delle sue paure si stava materializzando. Non aveva ancora mosso le braccia. La mano sinistra era appoggiata sopra la pancia, quella destra sulla coscia. Le gambe. Non riusciva a muoverle, erano bloccate. Solo ora si rese conto di un enorme peso che le schiacciava verso il basso. Con la mano destra scese lungo la coscia, incontrando un muro di sassi e terra. Le gambe erano sepolte. Respirava sempre più in fretta, cercando però di restare calmo, di capire. Con le mani iniziò a tastare intorno a sé, con molta cautela. Aveva forse dieci centimetri di spazio sulla destra e sulla sinistra, poi un muro, uguale a quello che gli copriva gli arti inferiori. Il soffitto era a non più di mezzo metro. Due assi di legno lo avevano protetto, impedendogli di venire completamente coperto. Con la mano sinistra riuscì a liberarsi la faccia dalla terra che gli era caduta addosso poco prima, quando aveva cercato di alzarsi. Aprì di nuovo gli occhi. Poteva solo immaginare quello che aveva tastato con le mani. Si accorse che la nuca era bagnata, come se la testa fosse appoggiata in una piccola pozza d'acqua. Si toccò i capelli inzuppati. Non era acqua. Troppo densa. Il sapore gli confermò che era sangue. Iniziò a percepire il dolore. Cos'era successo? Si ricordò che stava camminando, era notte. Voleva fare delle foto con il cellulare. Il telefono. Le mani tastarono le tasche dei pantaloni. Niente, neanche il portafoglio. Gli avevano portato via tutto. Nel taschino della camicia trovò l'accendino. L'accese, solo un attimo. Il panico aumentò, ebbe la conferma di quello che aveva già capito: era sepolto vivo. Dolori fino ad allora solo accennati esplosero all'improvviso. La testa, le gambe. Dei gemiti innaturali riempirono quel piccolo spazio. Respirava con fatica. Gli stava venendo da vomitare. Riuscì a girare la testa di lato appena in tempo. Scoppiò a piangere. Non aveva dubbi sul bastardo che l'aveva messo in quella situazione, ma perché? Jan non sapeva nulla, non avrebbe fatto nulla, non era nessuno. Le lacrime gli scorrevano a fiumi sulla faccia. Riaccese l'accendino. L'aria era impregnata di odori nauseabondi. Facendo leva con gli addominali, si alzò di qualche centimetro per vedere meglio il punto dove sparivano le gambe. Se voleva scavare, l'avrebbe fatto il più lontano possibile dal viso. Magari si trovava solo pochi centimetri sotto il livello del suolo. Un barlume di speranza gli attraversò la mente. Iniziò a raschiare il soffitto all'altezza delle cosce con entrambe le mani. La terra franava sulla parte delle gambe che era ancora scoperta. Cercava di procedere il più delicatamente possibile. Fece una pausa. Accese l'accendino. Aveva scavato per una ventina di centimetri, non c'era nessun segno di luce o aria. Spostò di lato la terra che si era accumulata sul suo corpo. Spense l'accendino e continuò il lavoro. Trovò una pietra più grande delle altre. Doveva fare attenzione che non gli cadesse addosso. Con una mano la tenne ferma, con l'altra scavò tutt'intorno. Riuscì a toglierla, la mise alla sua destra. Era troppo grossa, una parte dovette appoggiarsela alla gamba. Riaccese l'accendino. Aveva creato una piccola cupola sopra le sue gambe, doveva continuare. Chiamò aiuto, come per provare se da quella cupola potesse propagarsi un'eco salvifica. Si fermò un attimo. Era madido di sudore, i dolori alla testa e alle gambe erano diventati sempre più insopportabili. Continuò a scavare. Al terzo colpo iniziò a franare della terra, inizialmente in maniera lenta, poi come un fiume in piena che gli coprì la parte delle gambe ancora libera, fino alla pancia. Un urlo di dolore gli uscì dalla bocca. Il peso era insopportabile. Non riusciva a respirare. Liberò la mano destra e se la portò alla faccia. Piangeva come non aveva mai fatto in vita sua. Il braccio sinistro era bloccato sotto la frana. La testa gli scoppiava, l'aria stava finendo. Jan aveva pensato spesso alla morte e si era ripromesso che, quando fosse giunto il momento, l'avrebbe affrontata con dignità e coraggio. Non avrebbe aspettato la fine in un letto di ospedale, non sarebbe stato di peso per nessuno; non voleva sguardi tristi che cercavano di sfuggire il suo, avrebbe preso qualche droga e si sarebbe tolto la vita. Il fatto è che ci sono troppi modi per morire, e non si è mai pronti. Morire così, poi, senza via di scampo, né alcuna possibilità di cercare una morte migliore. Non poteva praticamente muoversi. Il pensiero andò ai suoi amori. La figlia, il figlio. Julia. Chi si sarebbe preso cura di loro? Maledizione! Non li avrebbe visti crescere, non li avrebbe potuti aiutare. Un giorno magari qualcun altro sarebbe entrato nella vita di Julia a prendere il suo posto. Lanciò un urlo, poi un altro, che quasi lo tramortirono, dato che ormai l'ossigeno stava per terminare. Gli veniva da ridere, rideva e piangeva. Immaginava il suo cane che scavava e lo tirava fuori da lì, con i bambini e la moglie che ridevano di felicità. Rideva anche lui ora. Stava per svenire. Gli sembrò di sentire dei rumori, o forse era solo la sua immaginazione. | << | < | > | >> |Pagina 76Era proprio ora di andare. Chiese allo stesso cameriere se era possibile chiamare un taxi. Dovevano essercene un paio parcheggiati fuori, fu la risposta. Grazie al cielo era vero. Si avvicinò al primo e svegliò l'autista, che dormiva beatamente al posto di guida. «Mi porti per favore allo Sheraton».«Certamente, signore». «Quanto ci vorrà?». «Un'ora, signore, siamo parecchio fuori Mumbai». «Faccia con calma, non ho fretta» disse riuscendo ancora a sorridere, e pensò: Ci manca solo un incidente. Per chi è abituato alle grandi metropoli europee, americane o cinesi, dove anche nelle periferie ci sono lampioni, negozi, insegne pubblicitarie illuminate, è difficile capire la notte di Mumbai e dintorni. Non c'è tutta quella luce laggiù, anzi, il buio è totale, illuminato solo dai fari delle macchine e dei camion, rigorosamente marca Tata, che in India viaggiano a tutte le ore. Jan non era uno che dormiva in macchina, a meno che non fosse ferma, e tenne fede a questa tradizione, nonostante fosse stanco morto. La strada era un disastro, non si poteva andare oltre i quaranta all'ora, anche per via dei camion decrepiti che procedevano a passo d'uomo. Aveva letto da qualche parte che in India morivano ogni anno oltre centomila persone in incidenti stradali, un record mondiale. Quando si iniziarono a intravedere le prime case ai bordi della strada erano le tre, ancora mezz'ora e avrebbe potuto dormire. Calcolò: partenza a mezzogiorno, un'ora prima in aeroporto, mezz'oretta di taxi, sveglia alle dieci. Poteva bastare, era pur sempre meglio di niente. Purtroppo, al successivo semaforo il piano si rivelò troppo ottimistico. Sulla linea di mezzeria camminava una famiglia e l'autista le passò molto vicino prima di fermarsi al semaforo rosso. Apparentemente il capofamiglia aveva toccato senza volerlo lo specchietto retrovisore di destra con il gomito e il tassista abbassò il finestrino per urlare al suo indirizzo qualche frase che a Jan risultò incomprensibile, ma che non doveva essere molto affettuosa. Intimò all'autista di proseguire perché aveva fretta, però la sua richiesta non fu presa in considerazione. I due uomini iniziarono a strepitare l'uno contro l'altro e, com'era accaduto nel tamponamento con la vacca sacra, un certo numero di persone cominciò a comparire da chissà dove. Ora la macchina era circondata da curiosi, che guardavano con stupore Jan e parteggiavano per il disgraziato che alle tre del mattino camminava al centro della strada. Jan scoprì che gli indiani erano più focosi dei siciliani e sperò che anche in questa parte del mondo valesse il detto: can che abbaia non morde. Non era così. Nonostante ormai urlasse all'autista di proseguire, anche a costo di investire quei quattro straccioni che bloccavano la via, questi non trovò di meglio da fare che uscire e dare un pugno in faccia al suo antagonista. L'uomo, di stazza piuttosto robusta, non ci mise molto a riprendersi e a contraccambiare con gli interessi il tassista. E non fu l'unico. Ad alcuni dei passanti non parve vero di prendersi una rivincita sull'autista del taxi, che sebbene fosse un disgraziato come loro, guidava pur sempre una macchina. «Stop, please stop!» gridava Jan senza speranza di essere ascoltato. Solo quando scese dall'auto, forse per via della sua altezza, le persone smisero di accanirsi su quell'idiota e lo osservarono con fare interrogativo. Jan si stava guardando intorno, gli parve che il tempo si fosse fermato. Aveva paura. Improvvisamente tutte le forze lo abbandonarono. Era in mezzo a una strada indiana, perso nel nulla. Le uniche luci, quelle dei veicoli in transito e del taxi fermo, erano avvolte in una nebbia fatta di smog e polvere sollevata dai camion. Doveva mettere fine a quell'innaturale immobilità, doveva dire qualcosa. Con una voce tremolante, di cui si stupì lui stesso, disse: «Vi prego, lasciateci andare. Voglio solo tornare in albergo, vi do tutto quello che ho» e fece il gesto di togliersi l'orologio. I componenti del gruppo iniziarono a guardarsi, indirizzando infine gli sguardi verso il capofamiglia, che probabilmente in qualità di persona offesa poteva decidere il giusto prezzo della sua vendetta. Questi non sembrò avere dubbi sulla soluzione migliore. Si scagliò nuovamente sul suo connazionale. Il primo pugno colpì la faccia con poca forza, perché durante l'esecuzione uno dei partecipanti più anziani del gruppo aveva urlato qualcosa, il cui significato a Jan ovviamente sfuggiva. Il vecchio continuò a parlare dirigendosi verso il picchiatore solitario, che non sembrava per niente contento dell'interruzione. Ma gli argomenti dell'uomo anziano parvero funzionare, e imprecando l'indiano si allontanò dal malcapitato. Jan si stava riallacciando l'orologio, cercando di dare meno nell'occhio possibile. Il vecchio gli andò incontro. «Vi chiedo scusa per quello che è successo, portiamo questo disgraziato in ospedale». Detto questo ordinò a due ragazzini di sollevare il tassista che gemeva, ridotto a una maschera di sangue. Riuscirono ad appoggiarlo al cofano dell'auto. Nel frattempo due uomini erano riusciti a fermare un camion il cui autista, in cambio di una mancia, accettò di accompagnarli in ospedale. Aiutarono il ferito a sistemarsi e, dopo che ebbe ringraziato il soccorritore dandogli quaranta dollari, Jan salì anche lui. Fu un viaggio infernale. Ci volle ancora una mezz'ora prima di raggiungere il più vicino ospedale, e Jan cercava di tenere quel deficiente del tassista dritto sul sedile. Era uno spettacolo orrendo. Aveva il naso rotto, perdeva parecchio sangue e ci aveva rimesso diversi denti. Si trovava in uno stato di semincoscienza, gemeva e si lamentava di continuo. A ogni buca, la testa del ferito urtava contro la camicia di Jan, imbrattandola di sangue. A metà del viaggio, per via di una buca particolarmente subdola, il disgraziato subì un colpo di frusta tale che uno dei pochi denti rimasti a penzolargli in bocca finì sulla camicia di Jan. Lui non si mosse. Con lo sguardo seguiva il dente scivolare lentamente dal livello dell'ombelico, dov'era cascato, verso la cintura dei pantaloni. Stava per vomitare. L'odore del sangue lo aveva portato vicino alla soglia della sopportazione. L'aria che entrava dai finestrini gli bruciava gli occhi. Guardò fuori: smog, polvere, cespugli, tende, alcuni alberi, qualche vacca, bambini in piedi, immobili, fuochi con persone radunate intorno. Dov'era finito? I semafori iniziarono a farsi più frequenti. Jan sentiva che non avrebbe retto ancora per molto. L'autista del camion lo guardava di tanto in tanto, ma non aveva proferito parola per tutto il viaggio. Solo quando arrivarono in quello che a Jan parve un grande quartiere della città, si voltò verso di lui e disse: «Okay». Fece ancora due curve e parcheggiò davanti a un grande edificio beige. Si guardarono. Non serviva essere un genio per capire. Aprì il portafoglio e gli consegnò una banconota da venti dollari. L'autista ne chiese altri venti, e trascinò il malcapitato nell'ingresso di quello che a Jan sembrò un palazzo pronto a crollare di lì a pochi minuti piuttosto che il miglior ospedale pubblico di Mumbai. Erano le sette e, sporco di sangue, Jan si mise alla ricerca di un taxi che lo portasse salvo in albergo. Vicino all'ingresso dell'ospedale ce n'erano un paio parcheggiati. Salì rapidamente nel primo. L'autista si girò e, vedendolo, fece un balzo. La camicia bianca dello straniero era zuppa di sangue. E pure le mani, e la faccia. | << | < | > | >> |Pagina 167Jasmine rimase in silenzio, a pensare. Non appena aveva menzionato il nome di Kluge a un collega del ministero, aveva scoperto che il caso era di competenza comune con l'ufficio per lo sviluppo economico; dipendeva dal fatto che la persona in questione era il rappresentante di un'azienda internazionale con forti appoggi nel Paese.Agli ordini. Jasmine sapeva come funzionavano le cose. Aveva capito il sistema meglio di tutti gli altri. Pensava alle sue colleghe di accademia. Loro non ce l'avevano fatta. Era un mondo di maschi. Lei era stata brava e fortunata. Brava perché conosceva ogni organizzazione che avesse a che fare con la sicurezza nazionale del Paese. E questa sua conoscenza, acquisita durante gli studi, quando preparava una tesi sulla comunicazione tra enti governativi impegnati nella sicurezza nazionale, le aveva permesso di essere estremamente più efficiente nello svolgimento delle sue mansioni di qualsiasi collega maschio. Fortunata perché era nipote di suo zio, una persona importante e rispettata a Shanghai, e non solo. Non che l'avesse aiutata direttamente, ma era servito a darle un'ulteriore aura di forza. E, elemento da non sottovalutare, anche a tenere lontano qualche funzionario invadente che pensava di poter approfittare facilmente di lei. Jasmine guardava fuori dal finestrino. Macchine ovunque. C'erano biciclette, motorini, tutti carichi di persone o merci. Il grigio sembrava essere il colore predominante. Poi si ricordò che nel pomeriggio l'avevano chiamata dal consolato americano. Avevano saputo che era morto uno straniero e volevano assicurarsi che non fosse un loro concittadino. Non lo sapevano, li avrebbero informati nel caso. Come li odiava quelli del consolato americano. Ma in realtà non sopportava quasi nessun funzionario straniero con cui aveva avuto a che fare negli anni. Quanto erano ignoranti, e con che arroganza guardavano alla Cina. E non sapevano nulla. Si parlava della CIA, del Mossad, come esempi di servizi efficienti, presenti ovunque. Non sapevano nulla. Ignoranti. Più di tutti gli americani. Arroganti. Pensavano di poter insegnare le relazioni internazionali. A loro. Ai cinesi. Gli americani confinavano con il Canada e il Messico e si consideravano gli esperti del mondo. La Cina confinava con il Vietnam, l'India, la Russia, la Corea del Nord, la Mongolia, l'Afghanìstan, il Laos, la Birmania, il Nepal, il Kazakistan, il Bhutan, il Tagikistan, il Pakistan e il Kirghizistan. Come si sarebbero dovuti considerare loro? Come avrebbero gestito gli americani una frontiera di quel genere? Jasmine aveva partecipato a convegni organizzati dalla CIA. Le avevano spiegato l'organizzazione, almeno la parte pubblica, il personale coinvolto, il budget, le sedi. Era un altro mondo. E con i loro miliardi di dollari si credevano superiori. Lei era consapevole del valore dell'intelligence cinese, tuttavia era sempre stata fedele all'insegnamento principale dei suoi tutori: mai pavoneggiarsi di fronte al nemico. Mai essere arroganti. Mai dimostrare la forza numerica, se non sul campo. L'America non esisteva come stato quando la Cina aveva sviluppato l'arte dello spionaggio, l'arte di sapere tutto dell'avversario. Ed era proprio in questo, nella capacità di infiltrare agenti a qualunque livello, che l'America si era allontanata dal concetto essenziale dello spionaggio, così come insegnato da Lao Tze alle generazioni precedenti. Nessun servizio segreto al mondo poteva contare su una rete di infiltrati come quella cinese. Nessuno. E non era una questione di soldi e tecnologia. I cinesi all'estero erano circa quaranta milioni. Negli Stati Uniti erano più di tre milioni, in Canada sui due milioni, in Inghilterra quattrocentomila. In Russia un milione, in Italia duecentomila. I cinesi erano in Africa, in America Latina (un milione e mezzo solo in Perù), in Asia, più di sette milioni in Thailandia, Indonesia e Malesia. Sette milioni in ogni Paese, per essere chiari. In Australia settecentomila. E questi erano dati più o meno ufficiali. I servizi cinesi stimavano che in realtà fossero molti di più. I cinesi avevano un vantaggio: erano irriconoscibili per gli occidentali. Questo lo sapevano da tanto. Spesso, quando un cinese moriva in un Paese occidentale, godeva di una prerogativa che nella madrepatria nessuno possedeva: la capacità di resuscitare. I documenti venivano passati a qualche compatriota clandestino, vagamente somigliante al defunto, che ne perpetuava l'esistenza. Non sorprendeva dunque la longevità dei cinesi all'estero, perché a qualsiasi età uno morisse, aveva una lista d'attesa di clandestini pronti a subentrare al suo posto. Erano invisibili. E ci avevano messo centinaia di anni per rendersene conto. Non è semplice accorgersene, quando a te le fattezze dei tuoi vicini sembrano molto diverse fra loro. Ora che avevano capito, sapevano farne buon uso. Ed erano ovunque.
Erano arrivati.
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