Copertina
Autore Karine Tuil
Titolo Quando ero divertente
EdizioneVoland, Roma, 2008, amazzoni 44 , pag. 250, cop.fle., dim. 14,4x20,5x1,5 cm , Isbn 978-88-88700-96-0
OriginaleQuand j'étais drτle [2005]
TraduttoreEmanuela Pettinelli
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa francese
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COME SONO DIVENTATO IL NEMICO PUBBLICO N. 2



La Francia e l'America hanno ormai un nuovo nemico comune: me. Mentre scrivo queste righe, non possiedo più niente. Mi è stato vietato di soggiornare negli Stati Uniti e di entrare nelle banche di Francia, la mia compagna mi ha lasciato per un militante democratico, il pubblico mi ha dimenticato. Il mio nome — Jérémy Sandre, detto Jerry Sanders — non evoca nulla a nessuno, tranne che al fisco. Qui conoscono appena il mio numero di matricola 527647. Solo il detenuto dell'ultima cella mi attribuisce ancora una certa notorietà: mi chiama Woody Allen, confondendomi con l'altro, l'americano che ha sfondato in Francia, mentre io sono il francese che ha fallito in America. Eppure, per anni ho fatto ridere intere platee. Oggi non rido che di me stesso. Una premessa, onde evitare malintesi: queste memorie non hanno alcuna pretesa umoristica, da tempo non ho più vocazioni comiche; quindi, ai lettori che cercano un libro divertente, consiglierei piuttosto Memorie di un irresistibile libertino di Groucho Marx, Memorie di uno stupido vecchio di Roland Topor, Memorie di un galeotto di George Sanders, o Memorie d'oltretomba di Cheautebriand, opere dagli effetti ansiolitici i cui titoli riassumono abbastanza bene la mia vita. Io ho rinunciato definitivamente a far ridere, sono svincolato da ogni obbligo contrattuale, gli ultimi produttori mi hanno abbandonato quando gli spettatori hanno cominciato a disertare i miei spettacoli. Chi si ricorda ancora di me? Alla fine degli anni '8o, con il comico francese Alain Venet e il disegnatore satirico Thomas Vidal, avevo creato un trio che godeva pure di una certa fama prima che mi lanciassi, a trentadue anni, da solo, in una carriera a Broadway, ahimè, senza successo! In effetti mi sono trovato coinvolto, mio malgrado, nel conflitto politico e ideologico scoppiato tra Francia e America in merito alla legittimità di un intervento militare in Iraq, e due anni dopo il mio arrivo a New York non ero più famoso di un venditore di hot dog; d'altronde è quello che facevo, vendevo hot dog halal nella 5a Avenue, un lavoro stabile e ben pagato; ho dovuto abbandonarlo presto, a malincuore, perché l'odore delle cipolle marinate mi dava la nausea. Il mio fallimento è politico: sono stati gli azzardi della diplomazia internazionale a portarmi dalle scene di Broadway ai sudici marciapiedi di Steinway Street. Sono la prima vittima del boicottaggio americano verso i prodotti francesi. La storia non è che una lunga successione di cadute: del comunismo, del Muro di Berlino, dei mercati borsistici. Θ stata la caduta di Saddam Hussein a provocare la mia. Ironia della sorte, la statua del dittatore iracheno è stata decapitata dal popolo lo stesso giorno in cui le lettere del mio nome venivano rimosse dal cartellone al Caroline's Comedy Club, dopo appena una settimana di repliche. Il mondo è stato creato in sette giorni, esattamente il tempo che ci è voluto a distruggere il mio. Se due anni fa mi avessero detto che, lasciando la Francia per tentare la carriera di comico negli Stati Uniti, mi sarei esposto a ogni dramma (la guerra, il fallimento artistico, la rovina, la depressione, il ripudio familiare, la truffa, la rottura sentimentale e, il peggiore, il carcere) sì, se mi avessero dipinto un quadro tanto burlesco, sarei scoppiato a ridere: una risata schietta, fragorosa, senza il minimo sarcasmo, come non ne avrei più fatte, me lo ha annunciato una guardia il giorno del mio arrivo alla prigione della Santé. "Avevo chiesto una suite con vista su place de la Concorde" gli ho detto entrando in quel loculo dove la giustizia voleva lasciarmi crepare, e per tutta risposta lui mi ha spinto sbraitando con voce rauca: "Non siamo qui per divertirci!" Il che la diceva lunga sullo stato d'insalubrità morale del posto. Proprio in quel momento il mio cervello si è inceppato; quando la guardia ha sbattuto la porta della cella, l'emisfero sinistro mi ha ricordato le norme del regolamento interno: vietato fumare in prigione, vietato far circolare oggetti, vietato possedere un'arma, mentre dall'altra parte l'emisfero destro – il più creativo – trasmetteva una ripresa di Faut rigoler! Faut rigoler! Avant qu'le ciel nous tombe sur la tκte!` interpretata da un gruppo di ballerine mezze nude. (Ne ho approfittato: in carcere non le incontrerò spesso, ho pensato.) Ah! Preferisco ancora la libertà all'americana, controllata, sorvegliata in nome delle norme sulla sicurezza, che la carcerazione alla francese in virtù del niente. Perché l'ho detto ai poliziotti che mi hanno arrestato, l'ho ripetuto agli ispettori che mi hanno messo in stato di fermo, all'avvocato di turno quella sera, al giudice istruttore, a quello dell'esecuzione, e lo ripeterò ancora davanti al presidente della Corte d'Assise: non sono io l'autore dell'omicidio di cui mi accusate (benché lo sia). Sì, ho ucciso – per caso, per legittima difesa – sì, ho perso tutto e adesso, via, circolare, non c'è niente da vedere. Sipario! Ultimo inventario prima della liquidazione? Niente! Non mi rimane niente. Anche l'arma del delitto, o meglio, "l'oggetto usato per colpire la vittima in un accesso di autodifesa", una statuetta placcata in oro, ricevuta in premio per il mio ultimo spettacolo, è stata confiscata e messa sotto sequestro – bisognerebbe saper rifiutare i premi, gli onori, le ricompense: le lacrime versate nel riceverti preannunciano i singhiozzi futuri. Mi resta solo mia figlia: ed è stata lei, con la sua sola presenza, a scatenare il dramma. Non avrei mai dovuto avere figli. A malapena sono responsabile di me stesso. "Θ la teste principale" ha annunciato stamattina il mio legale, Avvocato K. – l'ho soprannominata così per il carattere assai kafkiano della storia: ha venticinque anni, è al suo primo processo in Assise, e questo spiega le improvvise logorree e la costante presenza, quasi un arto supplementare, di un codice penale rosso sotto il suo braccio destro. Sarà lei a difendermi, contro sé stessa, dovrei aggiungere, perché non vedo nemico peggiore di questa giovane avvocato fresca di laurea capace solo di sfogliare le pagine del codice con l'aria sgomenta di un animale braccato. Non l'ho scelta, è stata nominata d'ufficio (43 euro l'ora), non avevo i mezzi per pagare l'onorario del suo corrispettivo maschile, l'altro Avvocato K. (430 euro l'ora), il mio vecchio legale, difensore di uomini di potere senza trono, di potenti decaduti, già assunto dalla parte civile e, considerati gli onorari, dieci volte più competente di chi sta per difendere la mia causa. Quando l'ho vista arrivare la prima volta, durante lo stato di fermo, col viso pieno di lentiggini, e presentarsi annunciando: "Sono il suo avvocato." Per prima cosa ho pensato: sono fottuto, e poi che avrei dovuto sporgere querela per omissione di soccorso a persona in pericolo, ma mi sono risollevato quando ha definito il suo ruolo puramente sociale. "Come si è svolto l'interrogatorio? I poliziotti l'hanno picchiata? Θ stato informato dei suoi diritti? L'hanno trattata con rispetto? I familiari sono stati avvertiti? Ha mangiato?" Era la prima volta che qualcuno si preoccupava del mio destino; mi ha fatto domande a proposito del mio stato di salute, niente di giuridico, non aveva neanche avuto accesso al dossier. Questo sarebbe successo dopo. E non avrebbe cambiato niente.

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PERCHΙ HO DETTO NO ALLA GUERRA (CONIUGALE)



Uscita Natalia, ho sceso a tentoni le scale, preceduto da Hassan con la candela in mano. Durak era rimasto in camera. I suoi latrati ci laceravano i timpani. "Dovrete sbarazzarvi di quell'animale" ha osservato bruscamente Hassan. Ho annuito con un cenno, un riflesso ridicolo visto che l'uomo mi dava le spalle e, mentre cercavo disperatamente il corrimano, ho allungato la gamba nel vuoto pregando dentro di me di non scivolare. La maggior parte dei clienti era radunata nella hall dell'albergo e nelle salette attigue. Già circolavano voci: un attentato? un incidente? In seguito la stampa canadese avrebbe avanzato l'ipotesi di un atto vandalico commesso da uno scoiattolo. The city of the world minacciata da un roditore. Cinque anni prima, una rubiconda stagista ventiduenne aveva fatto vacillare la prima potenza mondiale e provocato una delle maggiori crisi politiche del XX secolo. Era sufficiente una bocca golosa, umana o animale, per destabilizzare l'America. Ho seguito Hassan nella stanza che aveva adibito a sala da gioco. Era un luogo austero, dai muri verdastri ricoperti di tappeti orientali, dove aleggiavano continuamente effluvi di narghilé. Dal soffitto pendevano lampadari d'ispirazione orientale, che minacciavano di caderci in testa da un momento all'altro. In un angolo, poggiato su un mobile, un televisore trasmetteva abitualmente i programmi del canale qatariota Al Jazira. Quel giorno, la stanza era avvolta da uno strano silenzio. Sedute intorno a un grande tavolo di legno, illuminate appena dal chiarore delle candele, quattro sagome. Distinguevo il profilo equino, i capelli folti, il torso muscoloso di Zylberberg, temibile giocatore di poker il giorno, commerciante di diamanti la sera; alla mia destra, riconoscevo quello che chiamavano "Dottor Al", pur non possedendo né il titolo né le competenze. Era un uomo dal viso allungato sovrastato da un ciuffo di capelli che sembrava una parrucca. Al, il cui vero nome era Ali, aveva lasciato lo Yemen qualche anno prima insieme alla moglie e alle due figlie e aveva americanizzato il nome il giorno dopo gli attentati dell'11 settembre. Dirigeva una boutique di abiti tradizionali, l'Islam Fashion Inc, oltre a una libreria del quartiere chiamata sobriamente Le Coran. Vi vendeva libri sull'Islam, DVD sulla "vita dell'ultimo profeta", poster con la genealogia dei venticinque profeti, cd del Corano, e vi distribuiva opuscoli del Comitato Arabo Americano e appelli contro la guerra in Iraq. Alla mia sinistra, due tizi mai visti prima. Uno sui trent'anni, una lunga barba ispida e occhi neri che si fondevano con l'oscurità. Parlava molto, in arabo, accompagnandosi con grandi gesti delle mani, quasi cercasse di catturare le parole per imbrigliarle meglio. L'ultimo, infine, mi terrorizzava, e a stento potei nascondere il mio turbamento: non sarei riuscito in nessun modo a stabilirne l'età, tanto era sfigurato. Il viso era completamente bruciato, non aveva più il naso, solo gli occhi, piccole sfere terrose, spuntavano da quel campo di rovine. Eppure, sorrideva, indifferente a sé stesso. Mi hanno salutato con la mano. Al mi ha fatto cenno di raggiungerlo indicando la sedia a due metri da lui. Hassan mi ha servito da bere. Tè, solo tè, e invece il mio stomaco reclamava alcol - whisky, bourbon, vodka, arak! No. L'Islam proibisce gli alcolici, mi ha ricordato uno dei due. Benvenuto a Steinway Street! pensavo dentro di me mentre il liquido bollente mi scorreva in gola e il barbuto esclamava: "Allah Akbar!" prendendo le carte. Dio ormai s'intrometteva in tutte le questioni del paese. La mia unica preoccupazione era vincere. Quella sera mi sentivo baciato dalla fortuna, e se il grande ustionato (seppi in seguito che era stato investito in pieno volto dall'esplosione di una mina in Pakistan) non si fosse lanciato in una discussione politica che ci condusse su altri terreni minati, questa volta di parole, oggi sarei ricco, con parecchie migliaia di dollari. M'interrogavano sull'intervento militare americano in Iraq: c'erano o no queste armi di distruzione di massa? si chiedevano loro, quando l'unica cosa che tormentava me era: c'erano o no delle coppie tra le loro carte? Poi hanno voluto sapere cosa ne pensavo della legge sulla laicità adottata in Francia: dovevo confessare di essere più favorevole al tanga che al velo? Ero là per giocare, e per niente altro. Nell'era dell'individualismo, pensavo che se c'era una causa da difendere, meglio fosse la mia. "Il ragazzo è privo di coscienza politica," si rammaricava mia madre costatando che preferivo il cinema ai comizi del partito socialista "confonderebbe Groucho Marx con Karl Marx." Aveva torto: non solo li distinguevo, ma trovavo i libri del primo molto più divertenti di quelli del secondo. A dire il vero, non ero un buon giocatore di poker. Nonostante la precocità del mio apprendistato, ho sempre apprezzato più le ragazze del gioco. Fin dalla prima partita puntai e persi somme che non avevo. Mi capitava di vincere quando gli altri giocatori erano meno bravi o più sfortunati, quindi raramente. Quel giorno non solo avevo di fronte ottimi avversari, ma la fortuna, che cinque minuti prima sembrava sorridermi, aveva palesemente cambiato direzione. La fortuna è infedele come una donna. Bastava vedere l'aria arrogante di quello che si faceva chiamare "dottore" per capire che io ero l'unico a bluffare davvero. Ma chi potevo ingannare, oltre me stesso? Il mio gioco era mediocre e non c'erano segnali che potesse migliorare. Le mani umidicce si attaccavano alle carte. Gocce di sudore m'imperlavano la tronte. Il faut savoir quztter la table. Si, ma quando? Dopo un'ora e un quarto di gioco, due erano le eventualità: dichiarare un malessere e andarsene (con il rischio, consistente, di suscitare i loro sospetti, di essere inseguito e riacciuffato); rimanere, con la certezza di essere assassinato (Hassan aveva adottato questo motto di Al Capone, suo modello di vita: "Si ottiene di più con una parola gentile e uno schioppo che con una parola gentile e niente"). I miei debiti ammontavano ormai a parecchie migliaia di dollari e non avevo la minima possibilità di tirarli fuori, a meno di assaltare una banca, cosa che, in un paese alienato dalle sue nevrosi di sicurezza, equivaleva a puntarmi la pistola addosso. Ho scelto la prima soluzione. Bruscamente, mi sono rovesciato addosso il tè e, urlando come un pazzo, ho lasciato la sala da gioco accompagnato dalle grida (di compassione, di protesta? Di rabbia) degli altri giocatori. Faites vos jeux! Rien ne va plus! Ancora una volta ero scappato senza riflettere sulle conseguenze del mio gesto. Certamente avrebbero reagito, senza contare che difficilmente Natalia mi avrebbe accolto a braccia aperte. Ma insomma, avevo un'altra scelta? Fuori le strade erano praticamente deserte. Le serrande dei negozi erano state abbassate. Qualcuno vagava ancora alla ricerca di un posto per dormire, altri correvano, sperando di raggiungere la propria abitazione prima di notte. Man mano che il giorno finiva, la mia inquietudine cresceva: nessuna traccia di Natalia nei pressi dell'albergo, o nei caffè vicini. Sono andato fino al Fatima Pediatric Center, per chiedere al medico di guardia, un'amica di Natalia, se l'avesse vista, ma non ne sapeva niente, era molto preoccupata — come tutti qui — dell'improvviso guasto elettrico che paralizzava la città. Sono entrato in qualche grande magazzino ancora aperto, quelli che Natalia di solito frequentava senza comprarci mai niente — non avevamo più i mezzi, gli unici di cui disponevamo erano quelli che ci avrebbero permesso di farla finita. Ho bussato alle porte dei nostri pochi amici: Yassir, l'inventore della pizza halal, il falso profeta che mi aveva assicurato un brillante avvenire, Maria, la massaggiatrice cubana che aveva chiesto asilo politico ed era diventata tenutaria di una casa chiusa dopo aver lavorato pochi mesi con Natalia da Adamo ed Eva, il più grande salone di estetica del nostro quartiere, ma nessuno l'aveva vista. Ho camminato più di mezz'ora, mi sono fermato in una sala giochi dove alcuni vecchi rifacevano il mondo, ho risalito Steinway Street, attraversando le strade adiacenti, piccole zone residenziali o industriali, quando all'improvviso l'ho vista. Stava davanti a me, appoggiata a una porta a vetri degli studi Kaufman Astoria. Ironia della sorte: i più grandi comici americani avevano girato lì i loro film, io stavo per interpretarci la mia fine. "Natalia?" Si è girata, stringendo a sé l'enorme borsa in cui mi sembrò che trasportasse frammenti della sua vita passata. Mi sono precipitato verso di lei per abbracciarla e baciarla ma mi ha respinto bruscamente lanciando questa frase categorica: "Tra noi è tutto finito." "Potevi almeno darmi il preavviso" ho risposto. Θ stato allora che ha urlato di nuovo: "Non mi fai più ridere!"

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DUE O TRE COSE CHE DOVETE SAPERE SU MIO PADRE



Nonostante si presenti come un personaggio secondario, mio padre è l'attore principale della mia vita, quindi, per scrupolo di chiarezza, è necessaria una sua breve descrizione. Fisicamente somiglia a Georges Perec, con la sola differenza che mio padre ha un paio di occhiali rossi. Da bambino mi portava sulla sua bicicletta, sedevo dietro di lui sul sellino, gli mettevo le mani sui fianchi e lui correva, correva veloce, recitando Io mi ricordo, lo sapeva a memoria, Io mi ricordo a voce alta, ansimando come se il fatto di ricordare fosse estenuante. Io mi ricordo che era collerico, tirannico, umorale – a volte crudele – che umiliava mia madre, faceva paura ai figli, tormentava i vicini. Ma pure che era divertente – il re del burlesco! – e l'umorismo lo preservava dall'antipatia e dai rancori, lo dispensava dal giustificare le sue inettitudini, gli perdonavamo tutte le offese perché ci faceva ridere. Adoperava l'ironia e il sarcasmo, mia madre era il suo zimbello, prendeva in giro lei e la sua famiglia – in pubblico, sempre – la copriva di ridicolo e noi ridevamo alle spalle di lei che, sposando un clown, aveva creduto di fare della sua vita uno spettacolo, sì, ridevamo, a volte fino alle lacrime, delle elucubrazioni di un padre che avremmo detestato se non avesse saputo disinnescare l'odio con il riso. Quel senso innato della commedia eliminava le nevrosi che i casi dell'ereditarietà e, più sicuramente, i rischi della vita gli avevano inflitto. L'infanzia era stata contraddistinta da tanti di quei lutti da riuscire a parlarne solo scherzandoci su, come se la morte, ripetendosi, declinandosi in tutti i modi – morte per asfissia, morte accidentale, morte collettiva – perdesse il suo carattere tragico per diventare un evento fortuito, quasi una rottura. Aveva solo vent'anni quando suo padre si spense per arresto cardiaco. In meno di sei mesi quel prospero commerciante, proprietario di una boutique di prét-à-porter femminile nel cuore di Parigi, aveva visto la sua azienda andare a rotoli non per cattiva gestione finanziaria ma per fatale gestione dell'immagine. Per le insistenze della famiglia aveva rinunciato a rinnovare il contratto alla sua indossatrice migliore, una splendida cecoslovacca di diciotto anni, per utilizzare la moglie e le due figlie (gemelle formose e rubiconde) come rappresentati del marchio Rose Désir. Pochi mesi dopo aver lanciato la nuova collezione, l'azienda era fallita. Mio nonno se ne assunse tutta la responsabilità e, da un'autocritica a un'autoflagellazione, riuscì a mandare in pezzi l'autostima e la salute. "Morto lui, ho preso il suo posto" diceva mio padre. Ed effettivamente lo sostituì, anche con sua madre, rimasta una donna-bambina passata dalla tutela paterna a quella coniugale e poi filiale; e se non avesse incontrato mia madre, probabilmente non si sarebbe mai sposato. Avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni tra la genitrice e le sorelle, entrambe zitelle fino a quando una di loro, la maggiore di pochi minuti, decise di prendere i voti contro il parere di tutti, "non tanto per vocazione" diceva mio padre "quanto per giustificare la propria verginità". Qualche anno dopo, le tre morirono in un incidente aereo, cosa che in parte spiegava le fobie e gli eccessivi timori di mio padre, tra cui la più invalidante: la paura di volare. In pubblico era un padre modello, un cittadino onesto, un uomo fedele alle sue convinzioni politiche. Fin dalla mia più tenera età mi portava con sé — sveglia alle quattro di mattina! — a incollare manifesti politici. Lo guardavo, sbalordito, mescolare frammenti di vetro alla colla. stendere svelto la pasta viscosa sul retro della carta con l'aiuto di un grande pennello, e poi posare con cura il manifesto sui muri. Mi descriveva con esultanza perversa i dolori che avrebbe patito chiunque avesse tentato di strappare il manifesto. Immaginavo le dita trafitte di schegge di vetro, gli abiti macchiati di sangue del nemico politico: mio padre assumeva i tratti di un mostro sanguinario totalmente devoto a una causa che a me, bambino di cinque anni, poteva solo apparire funesta. Quei gesti da militante tradivano la natura del rapporto che mi legava a mio padre: mi pareva che se avessi cercato di grattare la vernice dietro la quale si proteggeva, mi sarei ferito anche io. Mascherata sotto un'apparente bonarietà, in lui c'era qualcosa di tagliente, e quella durezza non veniva dalla ribellione al sistema, quanto dalla sottomissione: era inacidito. La maggior parte dei suoi vecchi compagni di studio aveva posizioni invidiabili all'università o in campo giudiziario, mentre lui era rimasto solo un modesto impiegato amministrativo, ufficiale di stato civile. "Rifiuto" diceva "la politica governativa, il sistema, le ineguaglianze, le violazioni dei diritti, rifiuto di servire gli interessi dei padroni, della globalizzazione, dei capitalisti, rifiuto una medicina a due velocità, la discriminazione razziale e sessista." Ma se rifiutava i compromessi sociali, tollerava i piccoli accomodamenti con sé stesso. Lottava contro le ingiustizie che faceva patire alla sua famiglia. Militava per i diritti di donne e bambini, diritti che rinnegava non appena arrivava a casa. Fino all'ultima corruzione: lui, che aveva lottato tutta la vita contro lo sfruttamento sociale, decise dopo quarant'anni di leale servizio al Municipio dell'XI arrondissement di poter finalmente beneficiare dei vantaggi per i quali si era battuto e, insisteva, "sufficientemente sacrificato". Conosceva tutti i sussidi sociali, le condizioni per assicurarseli, fino ai mezzi, a volte illegali, per ottenerli. Era capace di recitare a memoria l'elenco di trenta malattie riconosciute come lunghe e costose, che davano diritto a indennizzi adeguati. A sessant'anni s'inventò un'affezione neurologica, ne apprese i sintomi grazie ad alcune riviste psichiatriche e dopo pochi mesi incassò il jackpot sociale: una sospensione dal lavoro per malattia, un tesserino da grande invalido, una patacca di handicappato con cui poteva parcheggiare nelle aree riservate senza pagare, e ogni genere di aiuti paralleli che lo mantenevano in uno stato di dipendenza. A ciascuno il suo sogno! Gli imbroglioni miliardari s'istallano nei paradisi fiscali, lui si era scelto un paradiso assistenziale, la Francia, per viverci una pensione tranquilla. Ahimè! fu colto da un ispettore sanitario in flagrante delitto di efficienza motoria alla maratona di Parigi e il fervente uomo di sinistra fu privato di tutti i suoi diritti. Quanto alla tessera del PS, scomparve dal suo portafoglio: confiscata, bruciata, strappata? Nessuno ne seppe niente. Contemplava (Rappresentava?) una certa incoerenza per un militante come mio padre, impegnato nella lotta sociale, abbandonatosi alla corruzione tramite mezzi da lui sempre aspramente condannati. In realtà, per quanto paresse assurdo, il suo voltafaccia ne rivelava la lucidità critica. Se era riuscito a dominare l'idea dell'ineluttabilità della morte naturale, l'idea della morte sociale lo conduceva a un livello di ansia tale da dover verificare più volte a settimana la situazione dei conti bancari per ritrovare un po' di serenità. Negli anni della militanza politica aveva visto talmente tanta gente stritolata dalla società, esclusa dal sistema, da sviluppare una paura eccessiva, quasi patologica, dell'esclusione. E io ero a quel punto, io, il figlio prodigio, in attesa che qualcuno si degnasse di constatare la mia morte sociale, reale e costante. Il suicidio sociale ha un vantaggio, chi lo tenta ha la certezza di non fallire. Nessuno verrà a rianimarlo. Che la faccia pure finita! Mio padre l'aveva capito. Ecco perché riuscivo ad accettare che fosse un mascalzone e un santo al tempo stesso (le concezioni manichee mi sono sempre sembrate sospette). Ci faceva ridere fino alle lacrime dopo averci inflitto una punizione per errori non commessi. E noi dimenticavamo, si, dimenticavamo le sue ingiustizie con la sola forza del riso che aveva provocato. Bisognava vederlo camminare per le stanze, appollaiato sui tacchi a spillo, il corpo stretto in un vestito di nostra madre, una parrucca in testa e un foulard di seta, con gli occhiali rossi che non lasciava mai, non per distinguersi ma per ricordare a sé stesso, tutti i giorni, davanti allo specchio, che la vita era una farsa grottesca. I miei amici dicevano "tuo padre è un po' fuori" e non avevano torto: noi ne percepivamo solo una visione deformata, riuscivamo appena a coglierne i contorni.

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Ero arrivato da Thomas in tarda mattinata. Viveva in un grande appartamento borghese, in uno stabile abitato da cittadini benestanti. Dimenticati gli anni di vacche magre a Ivey, nel piccolo villino di periferia con vista sulla ferrovia, al centro di un terreno incolto. Dimenticate le liti del vicinato, i racket, le minacce di ogni tipo: abitava a pochi metri dal commissariato – il genere di dettagli che dovevano averlo convinto a trasferirsi proprio lì. Ero rimasto a lungo in piedi, sul marciapiede di fronte all'edificio, ammirandone la facciata, l'immenso portone in legno scolpito e, più su, il terrazzo del quarto piano abbellito da conifere potate con cura. Ricordo di aver pensato: gli è andata proprio bene, al porco! ("Θ meglio che questo non lo diciate davanti al giudice" ha avvertito Avvocato K.) Ero invidioso, ma non l'avrei dato a vedere. Ho suonato alla porta diverse volte prima che una donna – appena ventenne – venisse ad aprirmi. Aveva lineamenti asiatici, che gli anni passati in Francia avevano occidentalizzato. I capelli neri con le punte bionde, gli occhi deformati da un'operazione di chirurgia estetica e la T-shirt che modellava i seni puntuti e stranamente immobili tradivano il profondo disprezzo che nutriva ormai per la cultura di origine. Assunse un'aria stupita nel vedermi, nonostante avessi telefonato il giorno prima per annunciare la mia visita. Mi ha detto "buongiorno" con tono asciutto e forte accento, e poi "dorme". Non sapevo come interpretare le sue parole. "Dorme" significava che dovevo andarmene o mi autorizzava ad aspettare che si svegliasse per parlargli? Nell'aria aleggiava odore di cedro. Con un movimento del capo mi ha fatto cenno di seguirla. Tra i capelli aveva un fermaglio a forma di farfalla, che ondeggiava a ogni suo passo. Mi ha fatto entrare in una camera da letto immersa nell'oscurità. Le tende, di spessa lana marrone, erano tirate. Il caldo soffocante. Ho riconosciuto la figura di Thomas, i capelli rossi dritti come una cresta, ultimo residuo dei suoi anni punk. Mi sono avvicinato alla finestra, ho socchiuso leggermente le tende poi mi sono girato verso di lui. La giovane donna è uscita dalla stanza, avrei voluto che rimanesse, che facesse volare la sua farfalla, perché quello che avevo davanti era triste, deprimente e mi faceva venire voglia di piangere e vomitare. Thomas giaceva nel letto come una bestia ferita, il viso gonfio per l'alcol, il corpo avvolto in una vestaglia di velluto rosso negligentemente allacciata sotto cui s'intravedeva il torso glabro e più giù l'elastico griffato degli slip. Aveva molti capelli bianchi, i tratti appesantiti. Il corpo era una massa informe. Doveva aver preso più di venti chili. Sul letto, accanto ai piedi, un posacenere colmo di mozziconi e, gettati alla rinfusa sul comodino, una decina di pacchetti di sigarette. Thomas si è sollevato con una certa rigidita, ha addossato la schiena al cuscino. La coperta è scivolata. Nel letto c'erano due donne, brune, una in biancheria di cotone, l'altra nuda, i volti non li distinguevo. Lui ha tirato su la coperta con un gesto brusco. Venticinque anni, non di più. Si è passato la mano sulle palpebre, l'ha fatta scivolare sulla fronte con un movimento patetico che esprimeva il suo smarrimento e, forse, lo stupore nel vedermi a pochi metri da lui. No, non stava sognando, ero proprio lì, davanti a lui, ai piedi del letto, ero tornato, avevo sperato sarebbe stato felice di vedermi, che mi avrebbe detto qualcosa di amichevole. Aveva "da fare" ripeteva invece insonnolito. Non poteva ricevermi "adesso" in quello stato – "sono stanco, non ho chiuso occhio tutta la notte" – ancora svestito – "sono in pigiama" – e a quell'ora di mattina – "no, ma hai visto che ore sono?" "Mezzogiorno, Thomas, è mezzogiorno." Davvero non voleva ricevermi o almeno non in quel momento, alla luce di quella che credeva fosse l'alba. Avevo insistito, e la persona con cui avevo parlato al telefono non aveva saputo dire di no. Avevamo ancora qualcosa da dirci? Pensavo: dov'è l'umorismo? Dove è andata a finire la sua ironia? Troppo serio, troppo abbattuto, impossibile tirargli fuori qualcosa, neanche una parola, è quello che ho creduto all'inizio, prima che iniziasse a sproloquiare: niente l'avrebbe fermato, né il ronfare irregolare di una delle donne con cui divideva il letto, né la musica a tutto volume dalla ragazza che mi aveva accolto, un vecchio successo di Madonna, Like a virgin, credo, né le esclamazioni di orrore che mi lasciavo sfuggire. Il monologo era durato parecchio, un baratro in cui precipitavamo volontariamente, vittime consenzienti, un sifone che ci aspirava senza lasciarci il tempo di fare niente per respingerne la forza d'attrazione. Era la vittoria schiacciante della tristezza sul riso. E capii, con assoluta certezza, che nulla resiste al lutto.

– Questa storia mi ha fatto impazzire – ha detto lui.

– Capisco – ho replicato.

– Cos'è che capisci?

Aveva gli occhi fuori dalle orbite. Cosa potevo rispondergli? Ho abbassato i miei spontaneamente, come se ml sentissi in colpa di aver provocato il suo monologo, di aver riacceso il suo dolore: a meno che non avesse mai conosciuto tregua, non gli avesse lasciato respiro, pungendolo, bruciandolo, giorno e notte e persino nel sonno, senza nessun riparo, no, solo una ferita viva, una piaga aperta che le parole sfregavano, le lacrime salavano. E che il riso soprattutto, la leggerezza, la derisione – quello che ci aveva resi uomini ricchi, uomini liberi, uomini quasi felici – infettavano, mentre l'infelicità scavava le sue voragini nella carne, nelle ossa, estendendosi a tutte le membra, occupando ogni atomo del suo corpo. Il suo corpo era la piaga, e lui non poteva più mangiare senza soffrire, bere senza soffrire, amare senza soffrire, uscire senza soffrire, ridere senza soffrire, scopare senza soffrire, far ridere senza soffrire, vestirsi senza soffrire. Soffriva, quella sofferenza era la sua vita e niente e nessuno – nessuno! – poteva placarla. Non gli oggetti, non le donne, non i progetti, non i sogni, non i viaggi, non il sesso, non il successo, non l'ammirazione che ancora suscitava, non la consacrazione, non i premi – niente. Sopravviveva. Dormiva male, mangiava poco, toccava appena le donne, e con un certo disgusto, come se persino il sesso, il piacere, il desiderio, l'erotismo per i quali aveva tanto vissuto, tanto amato, diventassero sozzura, sì, il sesso lo riportava alla vita e lui voleva morire, il sesso gli ricordava di essere un uomo, il desiderio, cui occasionalmente cedeva quando una delle sue vecchie amanti lo prendeva di sorpresa, quel desiderio che ormai non controllava più nonostante gli sforzi, bruciava ancora sotto la cenere. Bruciava, e poteva pure sputarci sopra per spegnerlo in segno di rifiuto, di disprezzo, ma sapeva che sarebbe tornato più potente, profondo come la ferita stessa, e che lentamente l'avrebbe cauterizzata. Sì, lo sapeva, solo la sessualità avrebbe cicatrizzato la sua piaga. La sessualità, in tutte le sue forme – senza reticenza, senza tabù. Una sessualità proteiforme come forse un giorno l'aveva sognata senza osare esplorarla. Una sessualità senza limiti, senza contorni, che la morte gli dava l'audacia di proporre, di esigere, liberamente, pagando: che importa? Per questo se ne avvicendavano tante nel suo letto — giovani e meno giovani — scelte tutte secondo un unico criterio: la discrezione. Pretendeva che non gli chiedessero niente. Mai. Niente. E lui pagava, spesso. Tutto questo era stato Alain a dirmelo. Anche se non gli rivolgeva più la parola, anche se non era andato al funerale del padre, sapeva tutto di lui. L'amicizia aveva ancora radici.

Thomas si era calmato. L'osservavo alla luce del giorno: le palpebre striate da venuzze azzurre, le narici dilatate dalla collera, le labbra socchiuse come per lasciare ancora uno spiraglio per le parole, le parole del lutto e non più quelle del riso. "Non potrò più scrivere testi divertenti," mi aveva detto "il mio mestiere mi sembra talmente futile." Si puniva per essere vivo. Diceva: "Che facevo mentre torturavano mio padre? Cosa pensi? Eh? Secondo te?" Mi guardava col mento sollevato verso di me, ma senza darmi il tempo di rispondere ha aggiunto, beffardo: "Ricevevo un premio per l'umorismo come ricompensa del mio lavoro. Il caricaturista geniale. Già! Il grande divo." Delirava. Le frasi sconnesse, la maschera da demente che gli deformava i lineamenti tradivano il conflitto interiore da cui era divorato. Mi fissava, lo sguardo vuoto prosciugato di ogni barlume di gioia. Ho preso a pretesto un appuntamento e sono andato via senza neanche salutare la finta bionda giapponese che gli faceva da infermiera. E, correndo per le scale dello stabile come se fossi inseguito da un uomo armato, pensavo che ormai eravamo due reietti, esclusi in eterno dalla comunità dei ridenti.

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