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| << | < | > | >> |Pagina 8Mi chiamo Saul Weissmann ma non fidatevi del mio nome che, a dispetto delle apparenze, non è ebreo. Per settant'anni sono stato un impostore nei confronti degli altri e di me stesso.Fino a ieri ero ebreo. Vivevo tranquillo nel mio monolocale in rue des Rosiers, circondato dai miei oggetti-feticcio: libri, una vecchia sedia a dondolo presa d'occasione al mercatino delle pulci di Saint-Ouen, una foto con dedica di Brigitte Bardot, un candelabro a sette bracci e la collezione di burattini, senza immaginare che il giorno dopo non sarei più stato ebreo. Non sono stato scomunicato, non mi sono convertito – no, non ho fatto nulla per smettere di esserlo. Alla nascita sono stato circonciso come qualunque altro neonato ebreo. Durante la guerra sono stato censito e poi deportato ad Auschwitz in quanto ebreo. E tuttavia ho appreso per bocca di un rabbino che non lo ero. All'inizio, quando me lo ha annunciato, ho pensato che si riferisse al mio atteggiamento laico – non ho la barba e non porto lo zucchetto in testa – e mi sono giustificato appellandomi all'ostilità che nutro verso l'ostentazione dei simboli a causa della stella gialla che mi era stata cucita sulla giacca e che mi aveva portato dove tutti sanno. È stato allora che lui ha puntato il dito contro mia madre – Dio l'abbia in gloria – affermando che non era ebrea e che di conseguenza neanche io lo ero. Immaginatevi il mio stupore e dolore, perché è una sofferenza per me, in pochi minuti quel rabbino aveva fatto precipitare la mia vita nella banalità più desolante. Non ero più un eletto di Dio. Ah, rivedo ancora il suo sorriso triste da fine preghiera, l'occhio stanco, il viso assolutamente impenetrabile! Una barba rossa, lunga e folta, gli ricopriva la parte inferiore del viso, nascondendo labbra e narici. Ogni millimetro di guancia era invaso di morbida peluria. Non c'era un solo poro che non ne fosse sommerso. E perfino dalle orecchie spuntavano, come erbacce, alcuni ciuffi di peli ramati. In compenso, la parte superiore del viso era completamente glabra. Terra sterile. Niente ciglia a oscillare alle estremità delle palpebre, e le sopracciglia sembravano depilate una a una o tolte con la ceretta. Su quel cranio liscio e pallido come un osso non aveva attecchito neanche un capello. Ma furono soprattutto i suoi occhi a turbarmi, due occhi sporgenti di un blu notte vivace e profondo, debordanti fede e fiducia; i miei riflettono solo dubbi: cosa potevano avere in comune quando si sono incrociati? A lui dovevo dare solo l'immagine di un uomo vecchio dal viso stanco; eppure, quando contemplo il mio riflesso allo specchio, constato – con giubilo – che gli zigomi sono sempre sporgenti. La mia capigliatura non ha perso nulla della sua vitalità. Giusto qualche filo d'argento tradisce l'età. Agli angoli della bocca due fossette ricordano che so ancora sorridere. Le labbra non si sono assottigliate e la lingua è quella di un neonato sempre alla ricerca di nuovi sapori. Solo i denti – tutti finti – testimoniano il processo di senescenza che si è innescato a mia insaputa. Sì, sono vecchio, inutile evitare questa parola che mette tanta paura a coloro che non la sfoggiano sul viso come un oltraggio. Ho sentito lo sguardo del rabbino sul mio corpo stanco. Mi si è avvicinato – lo sovrastavo di tre teste – porgendomi la mano sudaticcia mentre si contorceva per evitare lo sguardo di colei che era allora la mia compagna. Si chiama Simone Dubuisson e a dispetto delle apparenze è ebrea. L'avevo conosciuta tre mesi prima durante una gita nei boschi organizzata dagli Escursionisti ebrei di Francia. Eravamo una ventina (diciassette donne e tre uomini) – ebrei bene educati, celibi e con più di quaranta anni – desiderosi di incontrare l'anima gemella ebrea. Avevamo percorso in lungo e in largo il bosco di Fontainebleau in file serrate, guidati dal nostro istinto gregario, felici di stare insieme di nostra spontanea volontà. Io ero rimasto vicino a Simone per tutto il tragitto. L'avevo notata subito: era la più giovane, quarantatré anni appena, bassina (un metro e mezzo ben pieno), capelli castani fuori e bianchi dentro, occhi insignificanti e un sorriso da farti stramazzare, con certi denti che hanno l'unico pregio di essere ancora lì. Ma si distingueva soprattutto per la forma arcuata del naso: Simone era l'unica scampata a una dittatura della bellezza organizzata da chirurghi estetici che partecipavano alla rivoluzione ebraica a colpi di bisturi. I tempi erano cambiati. Gli ebrei affidavano le proprie devianze agli psicanalisti e le deviazioni del setto nasale ai chirurghi. Simone non piaceva più agli uomini: non aveva il profilo giusto. Tuttavia appena l'ho vista ho capito che era lei, se non la donna della mia vita, giacché me ne rimaneva poca, colei che mi avrebbe accompagnato fino alla morte. A settant'anni bisogna considerare l'amore come un insieme di cure palliative. Mi aveva raccontato la sua vita e confessato le sue ambizioni riassumibili in un'unica parola: sposarsi. Una tale franchezza mi aveva sedotto. Le altre sedici partecipanti cercavano funghi commestibili sperando di trovare un marito. Simone mi aveva chiesto se ero ebreo e io avevo risposto "sì", spontaneamente – come avrei mai potuto immaginare? – lei aveva sospirato di sollievo prima di posare le labbra sulla mia fronte come si applica un marchio di "origine controllata" su un animale. Rassicurata in tal senso, non mi lasciò più. | << | < | > | >> |Pagina 26Simone continuava a piangere senza preoccuparsi di quel pudore che si addice così tanto alle donne.– La prego, signor rabbino – implorò asciugandosi il viso con la manica del vestito. Le si erano formate sotto gli occhi borse nerastre simili ad ampolle purulente, sacche piene di lacrime che avrei voluto scoppiare con un ago. Prosciugare finalmente questa sorgente di acqua salata. Se Dio conta le lacrime delle donne, odierà sicuramente questo rabbino che ne ha fatte versare così tante a Simone. Il rabbino si mostrò perplesso. Prima si lisciò la barba rossa raschiandosi la gola. Poi arrotolò qualche pelo arricciato intorno al dito indice. Infine, con il palmo sinistro, fece dei piccoli movimenti circolari sul cranio. Simone lo osservava con rispetto e timore come se Dio in persona stesse per dare il proprio verdetto nel giorno del Giudizio Universale. Lo scialletto le stava ormai a metà fronte, accentuando la durezza dei lineamenti. Avrebbe potuto scivolare di più e coprirle gli occhi, Simone non si sarebbe mossa. Perché sapeva che in quel momento il suo destino era a una svolta decisiva. Non aveva mai sentito in maniera così forte la necessità del matrimonio. Se il rabbino avesse rifiutato di celebrare l'unione, Simone sarebbe stata condannata alla solitudine. Il suo corpo si sarebbe rinsecchito. Ogni orifizio si sarebbe ostruito. L'utero sarebbe diventato sterile. La vagina si sarebbe svuotata delle sostanze lubrificanti prima di restringersi. La bocca non avrebbe prodotto parole. I timpani non sarebbero più stati accarezzati dalla voce di un uomo. Le narici avrebbero inalato solo aria secca. Solo l'ano e il meato urinario avrebbero assolto ancora alle loro funzioni. Che senso avrebbe avuto allora la sua vita, ridotta a una dimensione escrementizia? Simone pensava che solo nel sacro vincolo del matrimonio avrebbe trovato il paradiso, così come le aveva insegnato la madre, che l'aveva appreso dalla madre che l'aveva appreso dalla madre fin dalla notte dei tempi. "Devi sposarti, figlia mia, l'orologio biologico avanza!" questa era la legge orale trasmessa dalla madre. E ogni giorno Simone vedeva nello sguardo degli altri solo il movimento delle lancette del maledetto orologio. Così, trasportata dalla voce materna che la rimproverava nella sua testa, Simone osò supplicare il rabbino un'ultima volta. Indicandomi dichiarò: – Devo sposare quest'uomo – e per aumentare la tragicità della sua situazione aggiunse che la richiesta era una questione di vita o di morte. Il rabbino, che non voleva essere perseguito per istigazione al suicidio, rispose immediatamente che, tenuto conto della mia età "avanzata", avrebbe "forse" potuto prendere in considerazione una procedura di conversione accelerata. – Suppongo che lei sappia leggere l'ebraico. – No, ma conosco a memoria il kaddish. È l'unica preghiera di cui un ebreo ha bisogno. Il rabbino schioccò le dita. – In questo caso non posso fare nulla per voi. Le ci vorranno cinque anni di studi per diventare ebreo e, considerata la sua età, Dio solo sa dove sarà lei tra cinque anni! Mi seppelliva senza neanche preoccuparsi di verificare lo stato delle mie arterie o il vigore del mio cuore. Tra cinque anni, io mi immagino con un bastone in una mano e un bambino all'altra. – Ha pensato a cosa diventerò se non mi sposo! – urlò Simone avvicinando il viso verso il rabbino in modo da mostrargli per bene le rughe che lo segnavano. – Sono desolato, non può sposare quest'uomo. Simone lo fulminò con lo sguardo. – Con l'aiuto di Dio, incontrerà qualcun altro. Si sbagliava. Simone aveva fatto i calcoli: statisticamente c'erano più donne che uomini. Un uomo – ebreo – era diventata merce rara quanto lo storione, e sfuggiva di mano con la stessa agilità. L'uomo ebreo: una specie in via di estinzione che Simone braccava dall'età di tredici anni. – No! – esclamò Simone con la sua voce nasale. – O lui o nessun altro. Sono in premenopausa! Tra un anno, o forse anche prima, non potrò più diventare mamma! Quale uomo vorrebbe mai una donna sterile? Simone aveva pronunciato queste parole con voce strozzata dalle lacrime. Da alcune settimane avevo notato che nonostante il freddo che imperversava aveva sempre caldo. Vampate di calore la assalivano, provocando una fioritura di eczema, e in un attimo si spogliava tenendo solo lo stretto necessario, la sua canottiera e la sottogonna di nylon. Avevo pensato – ingenuamente – che mi desiderasse troppo. Da qualche parte avevo letto che le vergini potevano manifestare simili sintomi. L'articolo raccomandava di metterle a letto. Cosa che avevo subito proposto a Simone. Aveva rifiutato: "Voglio restare vergine per il matrimonio"; questa donna ha saldi principi morali. Per rassicurarla, le avevo promesso che nessuno avrebbe saputo nulla. E aveva accettato. Fu fissato un appuntamento dal ginecologo, era la prima volta. All'uscita dallo studio medico sul suo viso scorrevano lacrime: "Sono in premenopausa", gridò tra due singhiozzi come mi stesse annunciando che stava per morire. Non era il desiderio, ma gli ormoni a riscaldare il suo corpo. Avevo tentato di calmarla prendendola tra le braccia. Invano: "Mi rimangono solo pochi mesi per fare un bambino", mi aveva annunciato. Avevamo fatto l'amore il giorno stesso. Non c'era più un minuto da perdere. – Ma non capisce che questo matrimonio è di pubblica utilità! – strillai davanti al rabbino, interdetto. Non volle sapere ragioni. – La Legge è Legge – concluse, alzandosi dalla sedia. Sotto la pressione ormonale, Simone gli rivolse un'ultima richiesta. – Vorrei restare un attimo sola con il mio fidanzato. – Bene – mormorò il rabbino lasciando la stanza. Non appena fu uscito, Simone si precipitò verso di me. – Forse ho la soluzione al nostro problema. – Ti ascolto. – Possiamo sposarci in Israele; credo che i rabbini siano più concilianti che in Francia. Dobbiamo solo partire e sistemarci là. La sua soluzione al mio problema ebraico: una fuga all'estero! Aveva appena finito la frase che il rabbino fece irruzione nella stanza. Vedendolo, Simone arrossì. Aspettò che fosse seduto per farlo partecipe della sua intenzione. Ascoltò con attenzione, poi sorrise beatamente. — Ha ragione, per la legge israeliana quest'uomo è ebreo. Simone emise un sospiro di sollievo. Io esultavo: esisteva allora una legge che mi riconosceva in quanto ebreo. — Tuttavia, per la Legge ebraica, non lo è. Ero frastornato. Mi girai verso Simone sperando di trovare nel suo sguardo un segno di conforto. Si limitò a spostare la mano in avanti per indicare la nostra separazione. — Bene, la questione è chiusa — riprese il rabbino. — Siccome mi è vietato, non ti sposerò — rincarò Simone con freddezza.
Vietato: aveva pronunciato questa parola con la stessa facilità con cui si
sguinzaglia un cane.
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