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| << | < | > | >> |Pagina 5L'albero del mondo, come ogni altro albero, all'inizio del ciclo di vegetazione mette delicate foglioline dorate che con il tempo assumono una tinta verde scuro e una lucentezza argentea. Poi si fanno gialle e rosse, come se bruciassero di un fuoco vivo, e una volta cessato di bruciare diventano marroni e cadono al suolo lacere e bucate, simili a pezzi di carta inceneriti, a lattine divorate dalla ruggine. Fin dai primi istanti, quando il verde è più intenso e gli uccelli cantano più numerosi tra i rami, nella profondità della terra si sviluppa un controalbero umido e scuro roso dai vermi. Il tronco sotterraneo è il prolungamento del tronco in superficie, ogni ramo è unito da un acquedotto invisibile a un controramo schiacciato da tonnellate di terra.Quando il ciclo di vegetazione volge al termine, l'albero del mondo è carico di frutti. I frutti maturano, cadono e marciscono. In ognuno di essi si trova un nocciolo, nel nocciolo il germoglio dell'albero e del controalbero, chioma e radice. Tutti i futuri cicli di vegetazione aspettano il loro momento nei noccioli, nei germogli, nei germogli dei germogli. Il frutto appartiene all'albero, ma racchiude in sé un intero albero futuro e i frutti che lo ricopriranno. Le città che maturano sull'albero del mondo sono conchiuse nella propria forma come mele. Tutte uguali: ognuna diversa. Perfino il nome scritto sulle piattaforme delle stazioni è l'incarnazione di un'unica possibilità nel registro del possibile. Un solo fiume – di un secondo non c'è bisogno – descrive il proprio corso definitivamente e una volta per tutte. Un solo elenco di strade, un solo giardino zoologico. Gli abitanti conoscono a memoria le sfumature di nuvole e intonaci. Come una cosa nasce, così rimane. Quando una cosa viene data agli abitanti, un'altra ne va tolta. Ogni loro sguardo è accompagnato dalla consapevolezza della perdita. Nell'attraversare la città, sono incalzati dalle febbrili rappresentazioni di ciò che potrebbe ancora essere. Se ad esempio il fiume scorre ampio e pigro, girando intorno a banchi di sabbia, prima o poi essi creeranno l'altro fiume, che non era stato dato loro, profondo e impetuoso, con rive scoscese ricoperte di erbacce. Perciò quando la città germoglia, quando matura e quando marcisce racchiude in sé contemporaneamente tutte le possibilità e l'intero schema del mondo. Essa è parte e tutto, immensità e buco sperduto dimenticato da Dio. Corpuscolo nel mondo e al tempo stesso abisso nel quale il mondo si dilegua – piccolo come un neo sulla pelle candida. Perché la regola che ordina gli insiemi più grandi e più piccoli sostiene che il piccolo è racchiuso nel grande e il grande nel piccolo. Ed è solo grazie a questo che il mondo è entrato in sé stesso. Ed è solo così che può durare. Perché altrimenti non avrebbe dove andare. | << | < | > | >> |Pagina 20Tutto questo si poteva vederlo anche nelle fotografie sulla stampa quotidiana. Là muratori con i berretti calati sulla fronte osservavano la concentrazione di un muratore su una partita a dama il sabato a fine turno, la sicurezza di un muratore che scriveva una frazione composta sulla lavagna di una scuola serale, la fierezza di un muratore che mostrava una casa nuova a una linda infermiera. Perché i giornali sono stati una delle prime cose comparse al mondo, sembra ancor prima della nascita delle tipografie.Le foto dei giornali entravano in contatto con il nostro mondo attraverso la superficie della carta, ma avevano una loro profondità, nella quale le valigie di cartone infilate sotto i letti a castello negli stanzoni per venti persone non erano piene di rotoli di salsiccia né di mutandoni di fustagno, ma di libri sulla vita dei muratori. Perché in quel mondo che cosa poteva esserci di più interessante per i muratori della vita di un muratore, del lavoro di un muratore, del pensiero di un muratore? Lo stesso valeva per i tornitori, i fonditori, i montatori e tutte le altre persone che vivevano felici e contente in quel mondo sotto la superficie della carta. Il disegno dello schema originario della città comprendeva molti quadrati disposti simmetricamente e collegati armonicamente a un grande rosone centrale. Va notato che l'acustica era eccellente. Una ghirlanda di altoparlanti disposti intorno alla base della costruzione centrale bastava a diffondere i suoni in tutte le vie. Il palazzo eretto in mezzo al rosone era pieno di marmi e specchi. Dai soffitti, talmente alti che si scorgevano appena e sembravano sempre coperti di nebbia, pendevano lampadari di cristallo grandi come fontane. Delle diecimila porte almeno la metà fu immediatamente chiusa a chiave, giacché non servivano al passaggio ma alla simmetria. Quest'ultima dunque, esprimendo alla perfezione l'idea dell'equilibrio meccanico del mondo, fu elevata al rango di principio guida del progetto. Quanto alle chiavi delle porte, furono ben presto mescolate e smarrite. Ogni muratore, macchinista o fonditore che entrava là dentro si toglieva il berretto con disegno a spina di pesce e lo spiegazzava tra le mani, girando gli occhi stupito su pareti e soffitti, per poi indietreggiare subito verso l'uscita, dopo avere guardato per caso in uno specchio dalla cornice dorata. | << | < | > | >> |Pagina 47A un certo punto, un gran numero di stelle scure comparve nel cielo delle stelle fisse, sospeso sopra il cielo delle nuvole e sotto il cielo dei soli e delle lune. Si diceva che fossero stelle comunissime, che si distinguevano dalle altre solo perché si erano spente per qualche ragione. E siccome non splendevano più, erano diventate invisibili. Venivano frantumate dagli elicotteri del trasporto urbano che vagavano sotto la volta azzurra senza carburante, di cui non potevano rifornirsi, dal momento che non c'era dove atterrare: alla fine i campi di atterraggio sui tetti non erano stati più costruiti, e adesso vi crescevano ingarbugliate giungle di antenne.
Dopo che le stelle venivano ridotte in frantumi, la
sostanza scintillante e fragile che le componeva perdeva trasparenza e si
riversava sulla città in una polvere nera. Gli intonaci ne risultavano oscurati.
Con il tempo i palazzi assunsero la stessa sfumatura grigia
del cielo nuvoloso, e in tal modo scomparvero. Via
via che il problema dell'erogazione di energia aumentava, le stelle continuavano
a spegnersi e si accumulava sempre più polvere nera, che si depositava
come un'ombra sul cielo e sulla terra e oscurava tutte le fonti di luce,
compreso il sole. Gli occhi dei passanti scivolavano sui coronamenti dei
frontoni che si perdevano tra le nuvole. Nessuno dei prodigi della
città riusciva più a rallegrare chicchessia. I muratori
di pietra con vestiti di pietra, tutti soli nelle nicchie
dei muri, stavano ritti su pesanti gambe di pietra e
muovevano inutilmente i picconi. Se ne stavano – inosservati – nelle tenebre
della strada con i colombi
dalle penne irrigidite dal freddo sulla testa. Le case,
le nuvole e la terra erano ricoperte dello stesso colore e perfino gli uccelli
si confondevano con lo sfondo. Era più facile vederli negli album di
francobolli, dove almeno non gelavano.
Nessuno sa da dove spunti la tristezza in città. Essa non ha fondamenta, non è costruita di mattoni né è fatta di tubi filettati attorcigliati, non scorre nei cavi elettrici né viene trasportata dai treni merci. La tristezza si diffonde tra le case come una nebbiolina delicata che il vento disperde a casaccio attraverso le piazze, le strade e i cortili. Ci sono strade lunghe e corte, ce ne sono di strette e larghe, il grigiore di alcune ha una traccia di ocra, altre sono azzurrognole dal marciapiede alle tegole. Ognuna ha una particolare sfumatura di tristezza. Quelle che ne sono state fittamente ricoperte e quelle sulle quali si è posata con un'ombra appena percettibile convergono, si intersecano e divergono. La loro lunghezza, la loro larghezza e i loro angoli di intersezione influiscono sulla circolazione della tristezza. La quantità e il genere di quest'ultima cambiano ogni giorno nella città, così come cambia il tempo. Qua e là appare un puntolino di gioia e una zona di gioia comincia a espandersi a cuneo dentro le strade invase dalla tristezza, mentre la sua parte anteriore, come un fronte atmosferico, avanza al di sopra dei tetti delle case. Ci sono strade nelle quali le lastre dei marciapiedi vacillano e ristagna un odore di lardo e di cavolo, e al sabato ogni angolo risuona di rumori e musica. Ogni lunedì vi cala un silenzio tetro, interrotto da un raro sbattere di porta e da voci roche. Da un certo punto di vista si poteva considerare la tristezza un'altra forma dell'entusiasmo che era inscritto fin dall'inizio nelle soluzioni urbanistiche, ma che – come ogni cosa al mondo – non si era rivelato abbastanza duraturo e prima o poi era destinato a trasformarsi nel proprio opposto. La tristezza è ciò in cui si tramuta l'entusiasmo quando la sua esplosione oltrepassa il punto culminante, dopodiché interviene inevitabilmente l'implosione. | << | < | > | >> |Pagina 105Anche i nomi si dissolvono. L'erosione ha abraso le lettere, e alcune ne ha sgretolate e sparpagliate. Quelle rimaste non hanno più alcun contenuto. Peccato che il nome svanisca. Ma potrebbe forse essere altrettanto bello, se non si disfacesse di momento in momento? Niente lettere – niente città. Perché solo esse rappresentavano qualcosa di certo nel caos di date, avvenimenti e immagini. Solo esse racchiudevano quanto è impossibile racchiudere: i gioiosi cortei del primo maggio e i dimenticati elicotteri dei trasporti urbani, che avendo volato tanto tempo senza carburante rimpicciolirono e pare che ora si librino a bassa quota nel giardino botanico come libellule celesti.Una recinzione bucherellata di poche lettere, tra cui si ergono le punte delle W e delle A, deve ora accogliere banche americane climatizzate, mercanti di armi spietati e crudeli, produttori illegali di eroina che sparano alla polizia da dietro un chiosco di gomme da masticare, zingari intirizziti accovacciati sui marciapiedi, donne dagli occhi a mandorla che vendono profumi francesi in strada, tirandoli direttamente fuori dalle valigie. Forse un giorno cosacchi tracotanti a bordo di camionette blindate circonderanno la rotonda centrale, oppure le orde selvagge di Gengis Khan pianteranno le tende e accenderanno falò lungo la via principale, bloccando la strada ai tram e agli autobus pieni di gente che va a lavorare. Forse i guerrieri tartari si metteranno a uccidere a colpi di mazza i passanti frettolosi. Ma neanche loro potranno impedire la dissoluzione dell'insieme. Non c'è nessuno che sappia che cosa fare con la costruzione danneggiata. Ormai è chiaro che non basta lucidare i pavimenti, spazzare i marciapiedi, annaffiare l'asfalto nei giorni afosi e neppure dipingere le pareti con colori a olio, ma gli abitanti della città non sanno fare niente di più. Avviliti, trascurano i propri doveri, accessori e poco importanti. L'essenza della città era e rimane incomprensibile, e seppure gli urbanisti ne avevano una qualche idea la tenevano per sé, sperando quasi che tale conoscenza non sarebbe mai tornata utile. Gli abitanti della città sono capaci di riparare solo ciò che si può toccare. Non sanno arrivare a ciò che è invisibile e più rovinato e influisce indirettamente sullo stato dell'insieme, poiché governa il flusso di sostantivi, pronomi, verbi, frasi affermative e negative. A determinare davvero le soluzioni urbanistiche sono le regole sconosciute a tutti della combinazione delle frasi e della creazione degli intrecci, i principi dell'associazione di alcuni pensieri con altri e dell'attribuzione di peso a domande e risposte.
Allo stato attuale delle cose le vene acquifere, gli
strati di argilla e i banchi di sabbia costituiscono una
minaccia perenne per la città. Se quell'area conchiusa
di felicità che nel progetto iniziale era la città —
quel bastione dell'ordine eretto contro il burrascoso
oceano del caos — dovesse essere mantenuto nella purezza, frasi e intrecci
dovrebbero essere convogliati
fuori giorno e notte, come gli scarichi urbani, in modo da non lasciare nella
città nessuna traccia di polvere, nessuna pozzanghera, nessun rifiuto sulla
carta a quadretti del selciato. Bisognerebbe eliminare anche le parole. Ma
allora quanto rimarrebbe nella città si disperderebbe in un istante nelle acque
della controcittà, come una flotta di navi che abbiano perso le ancore.
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