Autore Adolfo Tura
Titolo Breve storia delle macchie sui muri
SottotitoloVeggenza e anti-veggenza in Jean Dubuffet e altro Novecento
EdizioneJohan & Levi, Monza, 2020, Saggi d'arte 37 , pag. 112, ill., cop.fle., dim. 15,5x23x1 cm , Isbn 978-88-6010-241-6
LettoreElisabetta Cavalli, 2020
Classe critica d'arte , teoria dell'arte , critica letteraria , sensi , natura-cultura









 

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Indice


1.  Fancy in nubibus, o della veggenza          11

    Atto terzo, scena seconda                   11
    L'australopiteco paranoico                  18
    «I call them semi-automatics...»            26
    La luna è commestibile                      29
    Macchie docili o cocciute                   36
    Alligatore senza autore                     39
    Cattive intenzioni                          46
    Vedere non è vedere                         48


2.  According to Watt, o dell'anti-veggenza     53

    Umori novecenteschi                         54
    Afasia di Bonnard                           59
    Immagini fragili                            67
    Ciò che si urta nel buio                    71
    Testure di Dubuffet                         78
    Barbe a precipizio                          83
    Essere la barca, essere il muro             84
    Carl Einstein profeta dell'Hourloupe        86


    Epilogo                                     91


    Note                                        95
    Crediti delle immagini                     107
    Indice dei nomi                            109


 

 

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Pagina 11

1
Fancy in nubibus, o della veggenza



                                O! It is pleasant, with a heart at ease,
                                Just after sunset, or by moonlight skies,
                                To make the shifting clouds be what you please,
                                Or let the easily persuaded eyes
                                Own each quaint likeness issuing from the mould
                                Of a friend's fancy; [...].

                                      Samuel Taylor Coleridge, Fancy in Nubibus



Atto terzo, scena seconda

Nel penultimo capitolo del romanzo La madre del comandante Shigemoto di Tanizaki , il piccolo Shigemoto segue di nascosto il vecchio padre che, uscito di casa nella notte, si è incamminato barcollante per le vie di Kyoto. La sua meta è un misero cimitero fuori città, dove alcuni corpi sono lasciati sul terreno senza sepoltura. Qui, nel chiarore spietato della luna, il bambino osserva il padre accoccolarsi accanto al cadavere in decomposizione di una donna e indugiare per un lungo tempo immobile. Quella che il vecchio sta compiendo è un'antica pratica ascetica buddhista, la contemplazione dell'impurità, affine a quella descritta dal monaco Keisei in un'opera del XIII secolo. Vi si racconta di un monaco di basso rango ma molto progredito in tale pratica, che un giorno, per dare prova al suo maestro delle capacità raggiunte, si raccolse in meditazione su una zuppa di riso. Quando finalmente aprì gli occhi e scoperchiò la zuppiera, questa conteneva non più riso ma vermi. Tanizaki descrive con precisione le ardue modalità di questo tipo di ascesi, tra cui quella di posare lo sguardo su una donna avvenente sforzandosi di vederla come un ammasso di brutture e di carne infetta. Alla fine così conclude:

E quando un asceta che ha accumulato vari di questi successi si concentra nella contemplazione dell'impurità, la donna bella e in vita non apparirà ripugnante soltanto a lui ma sembrerà tale anche agli altri. È questo il senso dell'aneddoto della zuppa di riso bollito trasformatasi in un ammasso di vermi bianchi nel momento stesso in cui l'umile monaco, su ordine del proprio maestro, iniziò a meditare sulla stessa: colui che riesce a concentrarsi e a contemplare l'impurità è davvero in grado di operare simili miracoli.


Qualcosa di sorprendentemente simile si legge in un breve testo di Salvador Dalí apparso nel 193o sulla rivista Le Surréalisme au service de la Révolution. Dalí vi esalta quella che gli piace chiamare facoltà paranoica e che, andando al sodo, altro non è che la propensione a scorgere figure e volti nelle nuvole, nelle radici degli alberi, nelle conformazioni rocciose, attitudine che ha sempre accompagnato l'uomo e che a ognuno è capitato di sperimentare qualche volta. Dalí si spinge ad affermare che

teoricamente, un individuo dotato in grado sufficiente della detta facoltà potrebbe secondo il suo desiderio veder cambiare successivamente forma a un oggetto preso nella realtà, come nel caso della allucinazione volontaria, ma con la particolarità di portata più grave, in senso distruttivo, che le diverse forme che può prendere l'oggetto saranno controllabili e riconoscibili da tutti, non appena il paranoico le abbia semplicemente indicate.


La facoltà paranoica sarebbe dunque capace dello stesso miracolo che, sulla scorta della tradizione buddhista, Tanizaki ascrive alla contemplazione dell'impurità.

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Pagina 16

È un fatto, del resto, che la facoltà paranoica non è posseduta da tutti in pari grado. Wittgenstein ipotizza che possano esserci individui del tutto privi di questa capacità, i quali si troverebbero pertanto in una condizione di particolare cecità.

Parimenti si può supporre che un pittore sia, se non più dotato del comune, più allenato all'uso della facoltà paranoica. Albrecht Dürer ne sarebbe l'esempio. Dürer aveva un'acuta predisposizione per gli avvistamenti paranoici di ogni tipo e se ne giovò in parecchie composizioni. Ha lasciato, tra le altre cose, un disegno di cuscini stazzonati in cui possono essere ravvisati dei volti grotteschi (fig. 2), esattamente del genere dell'inquietante guanciale che nel 1895 accoglieva la sera August Strindberg nella sua camera d'albergo parigina, presentandogli ogni volta uno spettacolo diverso.

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Pagina 18

L'australopiteco paranoico

La valle di Makapan si trova in Sudafrica, più o meno a metà strada tra Pretoria e la frontiera con lo Zimbabwe. Un giorno - fra tre e due milioni e mezzo di anni fa - un australopiteco che si muoveva nella zona venne attratto da un ciottolo di diaspro. L'australopiteco scrutò il sasso, lo raccolse, lo maneggiò, infine decise di portarlo con sé. Fu così che la piccola pietra venne a trovarsi nella grotta di Makapansgat, dove fu rinvenuta nel 1925 (fig. 3). È stato provato che la sua conformazione è interamente naturale. Guardandola, è impossibile non riconoscervi l'immagine di un volto. Ci si può domandare se non sia appunto questa caratteristica ad avere attratto l'attenzione del nostro antenato. Sebbene non possiamo, con tutta la buona volontà, fingerci nella testa di un australopiteco, per la stessa ragione non abbiamo argomenti per escludere che un tale volto gli sia stato leggibile. A favore di questa ipotesi può addursi il fatto che il sasso rotondo, in cui occhi e bocca sono suggeriti da cavità, si presta a essere percepito come l'immagine tridimensionale di un cranio. La lettura di immagini codificate su superfici (come nel disegno, nella pittura ecc.) sembra esigere un'abilità percettiva specializzata, ma vedere un ciottolo come immagine di un cranio non mette in gioco un'abilità diversa da quella con cui si percepisce un qualsiasi oggetto.

Certamente un giorno qualcuno, non sappiamo se un australopiteco o un suo discendente, vide per la prima volta un'immagine. Certamente questo individuo vide come immagine qualcosa che immagine non era e il suo fu un atto paranoico (nel senso che abbiamo ormai chiarito). Ai nostri fini possiamo benissimo ammettere l'ipotesi dell'australopiteco paranoico e fissare il ciottolo di diaspro della valle di Makapan come emblema di un evento che ha avuto luogo sulla linea della filogenesi umana.

L'australopiteco dunque gironzolava quando fu attratto da un sasso che gli apparve come l'immagine di una testa. Fino a quel momento l'universo era stato privo di immagini. Si può dire che gli enti si erano limitati a esistere, mettendo in circolazione le loro apparenze. Può darsi, conformemente a un'affascinante teoria, che negli esseri viventi agisse potentemente una spinta all'apparire. Ma in tutto l'universo si sarebbe inutilmente cercata una immagine. Come possiamo dar conto di quanto ebbe luogo nel momento in cui l'australopiteco raccolse la pietra?

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Pagina 23

Oggi sappiamo che riconoscere una qualunque immagine non comporta, di per sé, che si sia compreso quale speciale tipo di oggetto un'immagine è. Numerosissimi esperimenti hanno dimostrato che bambini di pochi mesi sono in grado di leggere un'immagine bidimensionale riconoscendovi l'oggetto rappresentato, ma che ancora dopo i due anni sono propensi a estendere al supporto le proprietà appartenenti all'oggetto, ritenendo per esempio che la fotografia di una rosa debba profumare, quella di un gelato essere fredda, quella di un orologio ticchettare. Si è parlato, al riguardo, di realismo iconico. Altri esperimenti hanno dimostrato che i bambini tra i due e i tre anni tendono a trasferire abusivamente certi mutamenti intervenuti nel supporto agli oggetti rappresentati. In un esercizio consistente nell'associare oggetti reali a oggetti fotografati, allorché veniva versata dell'acqua sulla fotografia di un batuffolo di cotone i bambini erano portati a scegliere come oggetto corrispondente un batuffolo bagnato. Per un tempo piuttosto lungo dello sviluppo infantile si assiste insomma a una dissociazione tra picture recognition e picture comprehension.

Posto che non solo si riconoscano le immagini, ma si capisca cosa sono, altro ancora è ritenersi in grado di realizzarne: lo studio del disegno infantile ha dimostrato che la cosa non è affatto ovvia. Nel 1927 Georges-Henri Luquet individuò le principali fasi del passaggio dallo scarabocchio al disegno rappresentativo. Tuttora ritenuta cruciale è la fase chiamata da Luquet del realismo fortuito e che qui, per conformità con tutto ciò che precede, potrebbe dirsi del realismo paranoico. Accade che ogni bambino un giorno si accorga che un suo scarabocchio ha somiglianza con qualcosa nella realtà. Il bambino, in altre parole, si accorge di avere accidentalmente prodotto un'immagine. Un singolo evento del genere non basta tuttavia perché il piccolo si autorizzi a produrre immagini intenzionalmente. La fase del realismo fortuito è caratterizzata dal fatto che i bambini moltiplicano gli esperimenti con l'aspettativa che i loro tracciati diventino immagini di qualcosa, senza preventivamente sapere di cosa. Solamente più tardi, ormai corroborati dall'esperienza, giudicheranno di essere in grado di produrre immagini in modo intenzionale.

In un libro successivo, apparso nel 1930, Luquet congetturò che quanto osservato nello sviluppo del disegno infantile si potesse trasporre alla nascita dell'arte figurativa in età paleolitica, in particolare all'arte parietale aurignaziana.

In proposito si può dire che c'è sicuramente un tratto che lega lo sviluppo del disegno infantile e le prime esperienze grafiche dell'uomo paleolitico, cioè la tendenza, una volta intravista un'immagine fortuita, a completarla per renderla pienamente leggibile. Questo fanno comunemente i bambini con le immagini intuite nei loro stessi scarabocchi (per esempio aggiungendo gli occhi e il becco a quello che improvvisamente appare un uccello) e questo ha fatto l'uomo paleolitico nelle grotte di Altamira, di Lascaux, di Chauvet. Un bellissimo esempio è il mammut raffigurato nella Grotta del Pech-Merle, nel sud-ovest della Francia: la mano dell'uomo ha tracciato il profilo del corpo, lasciando che un'ondulazione della parete esprima il cranio e la proboscide dell'animale.

Che la prima arte figurativa sia consistita nel completamento di immagini fortuite è un'ipotesi genialmente avanzata, per la prima volta, da Leon Battista Alberti all'inizio del De statua (1462):

Essi forse qualche volta videro in un tronco o in una zolla o in altre cose inanimate di tal genere alcuni tratti che, con pochi cambiamenti, potevano rappresentare qualcosa di molto simile agli aspetti reali della natura. Allora, rendendosene conto ed esaminandoli, diligentemente cominciarono a fare dei tentativi, se mai potessero aggiungervi o togliervi qualcosa e darvi quei tocchi finali che parevano mancare per cogliere ed esprimere completamente il vero aspetto di un'immagine. Così, correggendovi e rifinendovi linee e superfici secondo i suggerimenti della cosa stessa, raggiunsero il loro proposito, di certo non senza piacere.

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Pagina 36

Macchie docili o cocciute


Vasari ricorda che Piero di Cosimo usava passare del tempo negli ospedali per scrutare gli sputi sui muri: in quelle macchie scorgeva le più varie figure, per esempio di battaglie.

Nel curioso "Dictionnaire" che Georges Bataille e Michel Leiris andavano pubblicando sulla rivista Documents da loro stessi diretta, la voce "sputo" venne compilata da Leiris. Vi si legge che «lo sputo è, per la sua inconsistenza, per i suoi contorni indefiniti, per la relativa imprecisione dei suoi colori, per la sua umidità, il simbolo stesso dell' informe». Rettificando un po', è più giusto dire che da secoli, grazie a Leonardo, nella cultura occidentale l'emblema dell'informe è la macchia sul muro.

Intendendo esporre un «modo d'aumentare e destare lo 'ngegno a varie invenzioni», nel Libro di pittura Leonardo indirizza al pittore un ammaestramento:

Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie de' muri, o nella cenere del foco, o nuvoli, o fanghi, o altri simili lochi, li quali, se ben fieno da te considerati, tu vi troverai dentro invenzioni mirabilissime, che lo ingegno del pittore si desta a nove invenzioni sì di componimenti di battaglie, d'animali e d'omini, come di vari componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perché fieno causa di farti onore; perché nelle cose confuse l'ingegno si desta a nove invenzioni.

È questo un passo molto famoso, al quale André Breton farà riferimento nel 1936 evocando, in uno scritto su Oscar Domínguez, «le vieux mur paranoïaque de Vinci», stupenda formula. Ma domandiamoci: ciò di cui parla Leonardo è davvero la facoltà paranoica quale l'abbiamo intesa sin qui? A una lettura attenta se ne può dubitare.

Leonardo parla al pittore che, dovendo rappresentare un soggetto, cerchi la composizione più adatta e al tempo stesso meno ovvia: le macchie sui muri possono stimolare la mente a scoprirla. Di fatto la macchia non è chiamata a ispirare nulla sul piano tematico. Il metodo suggerito da Leonardo richiede che il pittore sappia in anticipo che cosa vuole raffigurare e, conseguentemente, si appresti a vedere nella macchia proprio questo. Il pittore deve peraltro badare a saper già disegnare tutto quanto appartiene al soggetto che ha in mente. La docilità di quelle che Leonardo chiama stupendamente "cose confuse", ossia dell'informe, consiste nel fatto che vi si può vedere ciò che si vuole. Il pittore, per così dire, ci mette il soggetto, la macchia ci mette la composizione.

Tutto questo è assai lontano dall'esercizio della facoltà paranoica che abbiamo considerato sin qui. Nella pietra di Makapansgat noi vediamo concordemente un volto e, se qualcuno affermasse di vedervi un cavallo o una battaglia, stenteremmo a credergli o riterremmo tali percezioni aberranti.

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Pagina 48

Vedere non è vedere


                                  Certe cose del vedere ci sembrano enigmatiche,
               perché l'intero vedere non ci sembra sufficientemente enigmatico.

                                       Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche



Abbiamo cominciato notando la violenza dell'esperienza paranoica per mezzo della quale vediamo una immagine in ciò che non è immagine per poi riconoscere che non meno paradossale, non meno impossibile, è riuscire a leggere una qualunque immagine. Di fatto ci sono buoni motivi per dire che addirittura nel vedere, nel comune vedere le cose, c'è molto di paradossale.

È come se, risalendo dall'esperienza più specifica all'esperienza più generica (vedere una immagine dove non c'è immagine --> vedere una immagine --> vedere), sbucassimo ogni volta da un paradosso ristretto in un paradosso più vasto, contenuti l'uno nell'altro come scatole cinesi.

Con buona pace di Ernst, noi sconfiggiamo il principio d'identità semplicemente posando lo sguardo sul mondo. È cosa normale che, in ragione della prospettiva, un piatto tondo ci appaia ovale. In questi casi, tuttavia, lo vediamo - non soltanto lo sappiamo - tondo, pur continuando a vederlo ovale: lo vediamo per così dire doppiamente, allo stesso modo di un pezzo di carbone che in piena luce vediamo nero e di un gessetto che nell'ombra vediamo bianco - l'uno e l'altro percepiti identicamente grigi. Un filosofo ha riassunto questi fatti con il paradosso per cui «vedere non è vedere». Si può dire la stessa cosa più banalmente affermando che noi vediamo con il nostro cervello, non soltanto con gli occhi.

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Pagina 53

2
According to Watt, o dell'anti-veggenza



Una serie di fortunati errori, in cui incapparono in tempi remotissimi i nostri antenati, ci hanno fatto quelli che siamo. Questa è la tesi che Nietzsche espone, per la prima volta, nella Gaia scienza (apparsa nel 1882). La sola possibilità di spuntarla, per la nostra specie, consisteva nell'allontanarsi il più possibile dalla conoscenza e nel foggiarsi un mondo semplificato e perciò maneggiabile e prevedibile. Per conseguenza, «gli esseri che non vedevano con precisione avevano un vantaggio rispetto a coloro che vedevano tutto "allo stato fluido"». Una visione grossolana indusse a equiparare oggetti diversi e fomentò la capacità di astrazione che diede origine al linguaggio e ai concetti, i mezzi più potenti di cui l'uomo dispone per attutire quella che Carl Einstein chiamerà la «coazione del mondo».

Mentre esseri provvisti di occhi più vicini alla realtà perivano, i nostri antenati prendevano lucciole per lanterne e acquistavano un avvenire alla specie. I sensi stessi dell'uomo vennero a trovarsi logicizzati, ossia orientati al riconoscimento dell'identico piuttosto che all'individuazione del particolare. Tutto ciò che da quel lontano tempo in poi è parso sensato nel mondo - per esempio «che esistano cose durevoli, che esistano cose uguali, che esistano cose» - è frutto di una storditaggine dell' Homo sapiens.

Sebbene Nietzsche non se ne occupi, è chiaro che la facoltà paranoica è quasi il fastigio della tendenza a equiparare il diverso e a conferire un senso al reale che il filosofo descrive come caratteristica dell'uomo. Il "vedere che non è un vedere" di cui si è parlato nel precedente capitolo è una chiara dimostrazione dei nostri sensi logicizzati e dell'incorporazione a livello percettivo di certi presupposti cognitivi.

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Pagina 57

Se l'ampia letteratura che nel Novecento ha preso dimora in tale contrada ha prodotto un capolavoro, questo è Watt di Samuel Beckett , romanzo terminato nel 1945 ma pubblicato nel 1953 a causa dei ripetuti rifiuti degli editori.

Sebbene il personaggio principale - Watt appunto - sia, per una parte del libro, ospitato in un asilo psichiatrico, sarebbe riduttivo leggere il romanzo come la vicenda di un malato di mente. Il libro di Beckett è piuttosto la deduzione more geometrico di ciò che accadrebbe nel mondo se, per ipotesi, smettesse del tutto di operare - o operasse solo fievolmente - il meccanismo in grazia del quale noi riconosciamo le cose e gli accadimenti. Per questo verso Watt appare come un romanzo non euclideo, nel quale è preliminarmente rimosso il postulato che caratterizza la nostra specie, quello che vuole l'uomo armato di tutto punto «per fraintendere la realtà con saggezza».

Ecco per esempio Watt nella casa di Mr Knott - dove si trova in qualità di domestico - alle prese con una pentola:

Perché Watt si trovava attorniato da cose che, se pure acconsentivano ad essere nominate, lo facevano per così dire con estrema riluttanza. [...] Guardando una pentola, o pensando a una pentola, una delle pentole del signor Knott, a una delle pentole del signor Knott, era inutile che Watt dicesse Pentola, pentola. [...] Rassomigliava a una pentola, era quasi una pentola, ma non era una pentola della quale si potesse dire Pentola, pentola, e sentirsi rassicurati. [...]

E per watt il bisogno di assistenza semantica era a volte così grande che si metteva a provare i nomi sulle cose, e su di sé, come una donna fa con i cappelli. Così della pseudo-pentola giungeva a dire, dopo averci riflettuto, È uno scudo, o facendosi più ardito, È un corvo, e così via. Ma la pentola si rivelava tanto poco scudo, o corvo, o qualsiasi altra cosa con cui la chiamasse Watt, di quanto non si rivelasse pentola.

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Pagina 83

Barbe a precipizio

Le barbe sono sempre sospette. «Se vi rimane qualche dubbio» domanda, in To Be or Not to Be (Vogliamo vivere!) di Lubitsch, il falso Professor Siletsky al capo della GESTAPO a Varsavia «perché non mi tirate la barba?»

Tra tutte le barbe finte, le più finte sono senz'altro le barbe di Dubuffet (fig. 22). Le chiamiamo "barbe" perché l'artista le colloca sui volti nella posizione che hanno le barbe, e perché così nomina lui stesso i dipinti e i disegni della serie intrapresa alla fine degli anni cinquanta.

Ma non siamo ingenui quanto il colonnello Ehrhardt di Lubitsch. Queste barbe sono testure.

All'immagine di ogni volto è come sovrapposta la pseudoimmagine di una barba: non immagine, ma metafora di un'esperienza non visiva. Nelle Barbes sperimentiamo qualcosa di ben più stridente di una promiscuità di scale differenti di rappresentazione. Guardare le barbe sui volti di Dubuffet è come sporgersi su una voragine nella quale la vista non distingue un bel niente, così profonda che ciò che ci pare di vedere è soltanto la nostra paura di precipitare. E di caduta di fatto si tratta: dalla verticalità all'orizzontalità del piano pittorico, nel senso di Leo Steinberg.

Le barbe di Dubuffet non sono parti di volti, sono rispecchiamenti dei volti cui sono sovrapposte.

Crediamo solitamente di riassumere i tratti di un volto con annotazioni del tipo "folte sopracciglia", "guance scavate" ecc., quali si usano nei commissariati per descrivere una persona scomparsa. Arriveremo mai all'individuale sommando genericità?

I dipinti delle Barbes sono costruiti al modo di doppie raffigurazioni, come i re e le regine nelle carte da gioco: sopra, l'immagine di ciascun volto, sotto, la voragine dello stesso come potrebbe venire percepito da un senso capace di cogliere direttamente l'individuale, un senso che si chinasse a racimolare le schegge che ogni concetto, formandosi, lascia attorno a sé, e tutto ciò per cui non ci sarà mai parola.

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Pagina 91

Epilogo



Due rubriche (immaginiamole in inchiostro scarlatto). Sotto la prima, ECCESSO DI SENSO, abbiamo ordinato i termini veggenza e paranoia, insieme ai nomi di Dalí e Breton; sotto la seconda, PRIVAZIONE DI SENSO, abbiamo scritto anti-veggenza e schizofrenia, così come i nomi, fra gli altri, di Bonnard e di Beckett. Da una parte abbiamo schierato i disparatissimi esempi - dall'arte paleolitica al disegno infantile - di macchie che si facciano figure leggibili, dall'altra parte i diversi casi di figure che degenerino in macchie. L'emblema dell'"eccesso di senso" può essere il ciottolo di Makapansgat, quello della "privazione di senso" il ciottolo con la cui evocazione ha inizio il romanzo La nausea: un comune sasso di spiaggia che, nelle mani di Antoine Roquentin, imprevedibilmente comincia a esistere.

L'eccesso di senso è il nostro pane quotidiano in quanto individui umani. Wittgenstein immagina che qualcuno possa aver detto "Ho udito una melodia lamentosa" e che poi gli si domandi se abbia udito davvero un lamento. Riflettendoci, un tale individuo potrebbe rispondere "Certamente, l'odo!", come pure "Per parlar propriamente non l'odo". Affermare che in una melodia si sia udito un lamento non è dire una falsità e nemmeno un'inesattezza: è riferire un'esperienza paranoica.

Persino la facoltà paranoica nel senso preciso in cui l'abbiamo intesa nel primo capitolo, quale attitudine a vedere immagini in ciò che non è immagine, viene da noi incessantemente esercitata. Prendiamo un foglio di carta nera e versiamoci sopra a caso qualche colore. Faremo immancabilmente la stessa esperienza di Henri Michaux: «Appena inizio, appena sul foglio di carta nera vengono a trovarsi alcuni colori, esso smette di essere foglio, e diventa notte. I colori posati quasi a caso sono divenuti apparizioni... che escono dalla notte».

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