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| << | < | > | >> |Pagina 11Era una sera maledetta. Una di quelle sere in cui l'istinto ti dice che accadranno le cose più orribili e ingiuste. Naturalmente sai benissimo che cose del genere accadono di continuo e in tutto il mondo (nonché, si capisce, in altri pianeti eventualmente abitati). Certi giorni però (proprio come certe persone che incontri) li riconosci subito dall'atmosfera, dall'intonazione: sembrano condannati in partenza, come se non avessero mai avuto uno straccio di possibilità e corressero irrimediabilmente verso un abisso.Era una notte fredda, ventosa e fradicia di pioggia. Un lunedì d'inizio gennaio. Per le strade di Copenaghen la gente si nascondeva dietro gli ombrelli o camminava piegata in due, facendosi strada attraverso la pioggia con la testa in avanti, come tanti tori infuriati. Quasi tutti sembravano presi dalla dichiarazione dei redditi o dall'affitto del mese. Le strade grondavano acqua per il terzo giorno di fila. Era una sera in cui qualunque individuo con un filo di buon senso si sarebbe stravaccato nella migliore poltrona disponibile a leggere il miglior libro possibile, con il drink preferito a portata di mano. Perciò nulla di strano che quella sera, proprio quella sera, io fossi tra quei venticinque-trenta stravaganti paranoici che vagavano per le vie della città. Camminavo e pensavo. Gli argomenti di riflessione non mi mancavano. Di che riempire tre colonne nella rubrica della posta del cuore, se non di più. Avevo messo incinta una ragazza. Storia vecchia, e non crediate che ne andassi particolarmente fiero: qualunque fattorino avrebbe potuto fare lo stesso, se non meglio. Solo che quella era opera mia e di conseguenza un mio problema. Benché certo, considerate le leggi di natura, più un suo problema che mio. E lei, Gitte Bristol, l'avvocato dalla nera chioma fulgente con cui mi «accompagnavo» da sei mesi, ossia da quando ci eravamo incontrati su un aereo per Rodby, (senza che il nostro rapporto fosse molto progredito in tutto quel tempo), era piena di dubbi. Non era sicura che le piacesse l'idea di avere un figlio da me. Non era sicura che le piacesse l'idea di un figlio in generale. A dirla tutta, non era neppure sicurissima che le piacessi io. I pronostici erano tra i più difficili. Così alternava stati di depressione, in cui sembrava un po' persa nel vuoto, ad altri di rabbia e furore, spesso contro il mondo intero, talvolta specialmente contro di me, in quanto ne ero parte molto invadente. Non la più invadente in assoluto, si capisce, ma certo più facile da aggredire dell'essere sconosciuto che se ne stava rannicchiato nel suo ventre, in attesa. Cambiava idea a intervalli di qualche giorno, come influenzata da un imprevedibile ciclo ormonale. Ora voleva il «suo» bambino, ora pensava di provare ad avere il «nostro» bambino, ora decideva di abortire. La furia e l'isteria delle donne, come dicono gli americani, sono right as rain. Al lavoro però era sempre la stessa: determinata, efficiente, precisa. Con quelle vette disumane di deontologia professionale che solo le donne molto consapevoli riescono a sostenere. Quella sera, naturalmente, aveva dato di matto. Date le circostanze non mi sentivo di biasimarla. E avendo lei manifestato il desiderio di «rimanere un po' sola», un modo di dire che le ragazze della sua educazione adoperano con la massima naturalezza, io mi ero ritrovato fuori, sotto la pioggia, e avevo preso in maniera più o meno inconsapevole la via di casa: quella casa che mantenevo tuttora, pur vivendo per metà del mio tempo – o almeno pernottando spesso – da lei. Vagavo, dunque, e intanto pensavo, se non è una parola troppo grossa. Pensai alla prima volta che l'avevo vista, nel ristorante del mio amico cinese Ho Ling Fung. Mangiava da sola, e mi fece un effetto travolgente, mai provato. Pensai alla prima volta che le avevo parlato, all'aeroporto di Rodby, grazie alla riprovevole mancanza di carrelli di quell'aeroporto di provincia. Pensai – tremando leggermente per la pioggia e al ricordo – alla notte all'Hotel Rodby in cui mi aveva «aperto la porta». Pensai alla sua vita, alle scuole francesi, alla famiglia di giuristi in cui era cresciuta. Il padre, giudice pomposo, e quel passerotto succube della madre, eternamente indaffarata tra le tazze da caffè in un salotto chesterfield immerso nel fumo di sigaretta. Pensai al suo primo matrimonio fallito accorgendomi che, se ci pensavo come al primo, mi stavo evidentemente già candidando per il secondo. Infatti io l'amavo. Più di quanto avessi amato nessun altro. Contrariamente a quanto affermano i mediocri oratori della domenica, l'amore non rende affatto ciechi. È vero l'esatto opposto: l'amore apre gli occhi. Chi ama vede cose che sfuggono a tutti gli altri, e si comporta spesso in maniera più logica e coerente di chi agisce a sangue freddo. Di conseguenza io vedevo benissimo il fatto lampante di non essere il partito ideale per lei. Se è vero, come dice il proverbio, che «chi si somiglia si piglia» noi non avremmo dovuto neppure sognare di metterci a giocare ad acchiapparella. Invece è proprio quel che avevamo fatto, ed ecco i risultati. La materia di riflessione, insomma, non mancava e i pensieri seguivano il loro metodico, abituale, assurdo e sperimentato corso a volo d'uccello, mentre io misuravo le strade sotto la pioggia fitta e regolare che a poco a poco lavava la sporcizia da tutte le case e i muri di città, lasciandoli puri e immacolati, ma ricoperti da una rugiada di fiaba, nel fondo della notte. A un tratto, come svegliandomi da un sogno, scoprii che le mie gambe servizievoli mi avevano portato su strade cittadine ben note. Giù per Istegade, oltre la Stazione centrale, lungo lo Strøget e girando a sinistra per Købmagergade fino a Nørreport, e da lì a Nørrebrogade: una rotta che quelle gambe avevano percorso migliaia di volte, a piedi o in macchina, negli ultimi vent'anni. Non sorprende che l'avessero imparata a memoria, come un cavallo ricorda una strada. Ma ormai accadeva di rado che si allontanassero tanto dal centro. Quella sera erano arrivate fino alla Rotonda di Nørrebro, dove Jagtvej e Nørrebrogade s'intersecano tra loro insieme ad altre strade che portano a nord, a sud, a est e a ovest. O meglio: in centro, a Bispebjerg, a Lyngby e a Frederiksberg. Era un quartiere che conoscevo bene, o meglio lo avevo conosciuto un tempo. Buona parte della mia famiglia riposava dietro le mura grigie del cimitero locale, l'Assistens Kirkegård, insieme a Hans Christian Andersen e a Søren Kierkegaard, dopo aver vissuto per generazioni nei grandi casamenti popolari di Nørrebro. Arrivato alla Rotonda mi fermai un momento ad annusare l'atmosfera. Per un attimo mi sentii uno straniero in terra sconosciuta ma poi, per sprazzi successivi, i ricordi tornarono alla mente. Alla mia destra c'era sempre la Zigeuner Halle, la vecchia sala da ballo popolare con la musica tirolese e le serate di enkebal, in cui erano le donne a invitare gli uomini, la birra alla spina in boccali da un litro, i cori e i balli sulle panche. A sinistra, dall'altro lato di Jagtvej, c'era ancora il Colosseum, il cinema dei giovani quando ero giovane io. La sola vista dell'insegna mi riportò al passato, ai tempi di Elvis Presley, di James Dean, di motociclette e giubbotti di pelle ormai fuori moda. E proprio in mezzo, ora come allora, il Central café, con le sue sedie di velluto liso e le abat-jour da bordello, malandate e giallastre dietro le vecchie lettere dorate dell'insegna. Niente era cambiato, anche il cimitero e la sua inconsolabile malinconia fatta muro erano sempre gli stessi. Era uno di quei posti che la gente di altri quartieri – quello da cui proveniva Gitte Bristol, per dire – avrebbe definito "difficile". Riguardo alle difficoltà non sarei tanto sicuro: ogni posto ha le sue, ma di certo si tratta di una zona povera e nessuno di quelli che ci sono nati può ignorarlo. È un posto che trae la sua identità da migliaia di appartamenti identici, arredati in modo identico, perché c'è un limite alle possibili variazioni se tutti gli abitanti ci devono mangiare, dormire e andare di corpo. È un posto in cui è raro che i giovani ottengano fondi o borse di studio per la cosiddetta «istruzione superiore». Da queste parti può essere già un'impresa sopravvivere fino all'età della scuola pubblica e imparare quanto basta per riuscire, più tardi, a compilare il modulo per il sussidio sociale o la schedina del totocalcio senza bisogno di aiuto. Ma è anche un posto pieno di piante ben curate sui davanzali, con il suono della fisarmonica, il buon profumo di cucina che sale dai cortili e i marciapiedi che letteralmente traboccano di ortaggi (cosa che i copenaghesi adorano quando la incontrano nei paesi esotici dell'Europa del sud); un posto dove molte persone diventano molto vecchie e rugose e tuttavia sorridono ancora spesso di un sorriso speciale, misterioso e onnisciente, mentre con la rete della spesa in mano vagano curvi per le stesse stradíne in cui hanno trascorso una vita. Un luogo, voglio dire. Un luogo che puoi stare per un po'a considerare, fermarti a guardare, immaginando forse per un momento di capire qualcosa, solo un barlume, di tutto. Se mai fosse stato possibile fermarsi a pensare in una sera maledetta come quella. A me non fu concesso. Una donna cominciò a gridare lì vicino: urla forti, penetranti, forsennate. Urla da incubo, come in un film dell'orrore. | << | < | > | >> |Pagina 78Questa volta mi guardai bene dall'avviarmi a piedi. Cominciavo a imparare la lezione. Era chiaro che a Copenaghen non si poteva più camminare in pace senza fare strani incontri a ogni passo. Ancora un po' e i cadaveri avrebbero pullulato come denti di leone su un prato d'estate. Curiosamente, dal finestrino del taxi non ne vidi neppure uno, ma sarà stato perché tenevo gli occhi chiusi. Al Bladet c'era il solito odore stantio di carta e fumo freddo, un odore che nessun detergente miracoloso è mai riuscito a spalare via dalla redazione di un giornale: l'effluvio comune e condensato di innumerevoli notti insonni e altrettanti scribacchini, curvi sulle macchine da scrivere nello sforzo di produrre all'ultimo momento una storia per l'edizione del giorno dopo, bevendo secchi di caffè nero e asfaltandosi la via — una sigaretta dopo l'altra — verso un cancro ai polmoni di grado evoluto. Il momento era quello giusto. Mancavano due ore alla chiusura e i collaboratori correvano su e giù per i corridoi, dagli uffici alla segreteria di redazione, dalla segreteria alla composizione, dalla composizione al reparto fotografico o all'archivio. Il segretario di redazione Michelsen mi guardò storto. Il segretario di redazione Michelsen non mi ha mai guardato in altri modi. Un tempo attribuivo tanta animosità alle mie dimissioni, che era capacissimo di aver preso come un'offesa personale. Più tardi scoprii quant'ero stato ingenuo: anche i segretari di redazione hanno sentimenti umani, perfino in orario di lavoro. Michelsen era perdutamente innamorato della mia bruna, brillante, sicura e mondanissima collega Barbara, che curava la nostra rubrica della posta. Io invece no, ma nonostante questo (o forse appunto per questo) la bella mostrava apertamente di preferire la mia compagnia. A Michelsen non andava la cosa, motivo per cui mi avrebbe guardato storto in eterno, finché pensione o morte — la sua, o naturalmente la mia — non fossero sopraggiunte a impedirglielo. Così va il mondo. Il mondo di Michelsen, se non altro. Mi sorpresi a pensare a quanto tempo potesse volerci perché Michelsen andasse in pensione, dopo una vita «al servizio del Bladet», come si dice nelle feste d'addio. Dieci anni forse, dieci lunghi anni e sarebbe finita: un'intera esistenza avvolta in quest'aria guasta, dietro a una macchina da scrivere. Un portacenere sporco a destra, a sinistra una tazza di plastica piena di caffè, una tazza così consueta, così istintiva che si allungava la mano per prenderla senza nemmeno guardare, che ci fosse o no. Erano state le sensazioni che provavo ora nei confronti di Michelsen a spingermi a suo tempo a lasciare il Bladet. Da un giorno all'altro il giornale non mi sembrò più un lavoro, più o meno gradevole, più o meno ben pagato, ma una trappola, un gorgo di sabbie mobili, un gigantesco calamaro a otto braccia deciso a risucchiarmi dentro di sé. Sentii che avrei potuto calcolare gli anni che mi restavano da vivere in nastri d'inchiostro, fogli di carta A4, pacchetti di sigarette e tazze di caffè. Mi licenziai su due piedi, quasi fuggii dalla redazione — come se avessi il diavolo alle calcagna — e andai a sbronzarmi nel primo bar. Nessuno al Bladet sembrò capire il mio punto di vista. A parte Barbara, naturalmente, e forse Otzen, che mi lasciò sfogare un paio di settimane per poi riassumermi come free lance. "Credo si addica meglio al tuo temperamento", decretò. Un'espressione di raffinata diplomazia. Da allora ero stato come un'ombra al Bladet, un fantasma che compariva di tanto in tanto nei corridoi, familiare e insieme estraneo. Per lo stesso motivo non avevo più nemmeno una stanza con il nome sulla porta, ma ero costretto a prendere in prestito quelle altrui, quand'erano vuote. Come se una stanza potesse mai essere «vuota»! La maggior parte di quelle in cui avevo lavorato, man mano che i colleghi si ammalavano o andavano in ferie, ricordava piuttosto un guscio vuoto, abbandonato da un animale che sarebbe tornato strisciando, attirato dal proprio odore. Proprio come tornavo anch'io strisciando al Bladet, a intervalli regolari. «Bisogna pur vivere», dice così giustamente la gente. Bisogna avere un letto e una caraffa di caffè pronta al mattino, un rasoio elettrico e un cappotto. E quando non si è nati milionari – uno di quei solenni errori di programmazione che fanno onestamente dubitare di una giustizia divina – si è costretti a lavorare per procurarseli. Cos'altro potevo fare, chiesi a me stesso per la decimillesima volta, esasperato dall'inutilità e dalla stupidità della domanda. Ex musicista, ex guida turistica, ex giornalista, quanti altri ex potevo collezionare? E perché avrei dovuto, inoltre? Staccai la spina alla mia coscienza. Avevo altro da fare. Michelsen mi introdusse riluttante nell'ufficio del cronista sportivo che – a quanto potei capire – si trovava al momento a Londra da dove, per la gioia dei lettori del Bladet, produceva informazioni esaurienti sul campionato del mondo di badminton. Michelsen raccontò, con sorprendente trasporto, che la Danimarca «si era particolarmente distinta» in quell'occasione. Dissi che ne ero tanto contento. Il cronista sportivo si chiamava Erichsen. Non ci conoscevamo di persona, nondimeno mi sentii molto vicino a lui scoprendo che teneva mezza bottiglia di whisky nel primo cassetto, aperto, della scrivania. Come tutti gli altri piccoli robot snodati mi chinai sulla macchina da scrivere, riempii i fogli di segni e produssi nel contempo altra cenere per un piattino già troppo pieno. Qualche foglio e un paio di sigarette più tardi – proprio quando, con gusto e discrezione, avevo appena finito di trasformare l'omicidio del giorno in quindici giorni d'affitto – Otzen si materializzò. "Che il diavolo mi porti, ragazzo!" esordì battendomi entusiastiche manate sulle spalle, come se fossi stato un calciatore italiano autore del gol decisivo del campionato e lui il mio allenatore. "È una cosa fantastica! Tu sì che hai talento. Basta che metti il naso fuori di casa, e c'è un omicidio. E un'esclusiva, poi! Spero tu non abbia lesinato sul fatto che è stato «un collaboratore del Bladet» a trovare il cadavere..." "Sei tu il capo. Questa è la bistecca, condiscitela come ti pare." "Il mio lavoro è vendere giornali, ragazzo mio. E Dio mi fulmini se questa storia non ne farà vendere a carrettate. Una guerra tra bande rivali e l'omicidio di una ragazza la stessa sera! Ora vado di là a scrivere l'editoriale: 'Copenaghen come Chicago?' Forse si potrebbe lasciar intendere che la polizia non ha brillato per efficienza..." "Dai loro almeno una possibilità ..." "Ok, me la conservo per domani. Conviene sempre avere un asso nella manica." "Non è uno dei fondi che tiri fuori ogni due per tre?" "Come minimo. Insieme a quello sulla necessità di riorganizzare il servizio postale, quello sulla palese ingiustizia della normativa fiscale, per non parlare di quello sulla necessità di ampliare e rinforzare la cooperazione inter-scandinava. Sono i miei preferiti, quando il piatto piange. Be': oggi però il piatto è ricco. Scrivi fino a consumarti le unghie e fatti vedere, prima di filartela." Arrivato alla porta si girò ancora e disse in tono elogiativo: "Tutto questo ti frutterà un buon sigaro, ragazzo mio." Dopodiché sparì. Un sigaro, nel mondo metaforico di Otzen, stava per una concreta gratifica padronale in riconoscimento di uno sforzo particolarmente meritorio. «Un buon sigaro», nella sua lingua, significava quindi almeno un mese di affitto in più. Mors tua vita mea. Non era mai stato così vero. | << | < | > | >> |Pagina 103E tornò il mattino, tornò la sera e la notte e di nuovo il mattino e, come chiunque conosca la fanatica mancanza di fantasia del calendario poteva prevedere, tornò anche il lunedì. In vista di quel particolare lunedì Ehlers era inquieto, e non mi sentivo di rimproverarglielo. Avevo trascorso gran parte della domenica a ricontare le nostre magre certezze come un avaro il quale, convinto che una moneta da dieci sia per forza rimasta nascosta da qualche parte, continua a sommare e sottrarre, si sforza di costruire teorie plausibili, ma finisce per vederle crollare come castelli in aria. Il tutto mi era costato diverse ore e altrettanti drink, ma l'esito era lo stesso dell'ultima volta: zero assoluto. Così domenica sera andai al cinema con Gitte. Scegliemmo un film francese che lei voleva vedere, un film che – come forse gran parte della nuova cinematografia artistica: non esco molto, io – parlava di due persone, strano a dirsi un uomo e una donna, che non riescono a venire a capo del loro rapporto e passano perciò un bel po' di tempo – circa un'ora e mezza di film, direi – a lanciarsi le accuse più varie, dall'infedeltà all'omicidio, minacciando alternativamente il suicidio o di fiondarsi alla fermata dell'autobus per raggiungere la prima agenzia con appartamenti da affittare. A parte l'ultimo dettaglio – la possibilità di trovare un appartamento in affitto a Parigi o in qualsiasi altra grande città sembrava eccedere in fantasia fiabesca se non visionaria – tutto il resto era anche troppo realistico. Non si poteva trovare di meglio, nella nostra situazione. Per colmo di fortuna, quella domenica che avevamo destinato all'uso comune in tv davano una lunga e interessante trasmissione sui rischi del parto, specie nelle donne primipare ("Il vostro corpo si trasformerà. Non vi sentirete mai più le stesse.") e il giornale della domenica conteneva uno speciale, con richiamo in prima pagina, su «venti celebri donne danesi» che avevano deciso – loro – di non rovinarsi la carriera con intempestive maternità. Un articolo che Gitte lesse con molta attenzione. In altre parole fu una domenica terribilmente piacevole, culminata nelle solite nausee e mal di testa e tanta stanchezza e il desiderio – da parte di Gitte – "di stare un po' sola". Tutto secondo copione, anzi secondo il libro che speravo mi chiarisse il modo più efficace e sensato di trattare una donna incinta. Secondo questo libro non ci si doveva mai stancare di dimostrare la propria "affettuosa comprensione". Ubbidii. Potere della parola stampata, come ci ricorda ogni anno Otzen in occasione dell'assemblea generale del Bladet. Con queste carte sul tavolo era quasi scontato che la mia serata – come tante altre – dovesse concludersi allo Stjernecafé. Una volta tornato «a casa», al mio indirizzo postale – per strade limpide di gelo, dove i cumuli di ghiaccio ammassati nelle cunette proteggevano una volta tanto con efficacia i pedoni dagli automobilisti – mi sedetti su una sedia e fissai per venti minuti dalla finestra la strada che avevo appena percorso. Con acume spietato scoprii ben presto che quell'attività non avrebbe portato a nulla. Con chirurgica incisività riconobbi che non avrei chiuso occhio in ogni caso. La conclusione era a portata di mano. Ed era mezzanotte. L'ora delle creature delle notte, non quelle mitiche e leggendarie come i vampiri e i lupi mannari (che possono restarsene in Transilvana, per quanto mi riguarda: a ognuno il suo territorio di caccia) ma il vero Popolo della Notte, la serie B della cittadinanza, quella che vive, respira e lavora di notte, per piacere o necessità: giocatori, puttane, pusher, magnaccia, trafficanti piccoli e grandi; «imprese di pulizia» (definizione collettiva gergale per scippatori e borsaioli), giovani marchettari e ambulanti senza licenza. Poi ci sono i quasi legali: camerieri, baristi e relativi clienti, autisti vari, giornalisti, showman, musicisti e via dicendo. Senza contare naturalmente gli ospiti, quelli che vengono da fuori per "vivere l'atmosfera" quelli che "escono" e "vanno in centro" per "vedere com'è", in onore dei quali si svolge tutta la sarabanda, perché è proprio vero che il mondo è fatto di re e buffoni. Ma questa sera non doveva esserci molta gente in giro, pensai. Non di domenica. Dieci anni di esperienza della vita di Istegade, faticosamente accumulati, non mi avevano ingannato. Quella sera allo Stjernecafé c'eravamo solo noi locali, una piccola cerchia intima come ne esistevano a milioni dalla nostra parte del sistema solare, così estranea e così familiare e unita. I volti sconosciuti non erano più di due o tre e Bob, da dietro il bancone, vegliava autorevole e sorridente sul piccolo gregge come se stesse celebrando – ora che era quasi mezzanotte – il vero servizio divino della giornata. Jørgen il Bello, di Saxogade, mi salutò con un ampio gesto della mano e fece segno a Bob. Jørgen il Bello era tutto rosso in faccia, probabilmente sbronzo e molto ciarliero. Sperai che non gli fosse venuta voglia di cantare una canzone. Jørgen il Bello era un tipo a posto, nessun dubbio. In tutto il quartiere non avreste sentito che un gran bene di lui, molti gli avrebbero perfino affidato un cane. Purtroppo però, nonostante i quarant'anni suonati e il colorito cianotico da alcolista, non riusciva a scrollarsi di dosso i tempi in cui era Jørgen il Bello. Andiamo con ordine: all'inizio era solo Jønne, il Postino musicale, poi diventò il cantante folk Jørgen il Bello (e fu questo nome a restargli appiccicato addosso), l'anno dopo, alla fine degli anni Sessanta, si riconvertì in Jørgen il Ribelle (La fine di questa sporca società, / decideremo noi quando sarà), infine scalò le classifiche danesi con il suo gruppo: Jørgen e le Donzelle (Sabato sera, si scalda l'atmosfera) ma un bel giorno... Un bel giorno tutti si scordarono di Jørgen il Bello. Passarono cinque anni, ci furono sporadici ritorni ("Stavolta ci siamo, amico... Sai, questa è una cosa completamente nuova. Una bomba, credimi. Mai avuto per le mani un pezzo così buono..." ). Peccato che, come accade regolarmente in questi casi (tutti quelli che lavorano nello spettacolo conoscono la solfa, e forse anche gli altri) la storia si ripeteva identica ogni tre mesi. Alla fine Jørgen il Bello si era rassegnato, limitando le sue esibizioni alla locale Casa della gioventù (dove lo guardavano come un tizio pelato e un po' patetico, ma era comunque un nome, e gratis) o in occasione di feste private, spesso a casa sua, dove le chitarre erano sempre pronte, e i due vecchi LP degli anni Sessanta con il suo nome sopra erano ben in vista sugli scaffali, a ingiallire in attesa di un'ipotetica ristampa. Jørgen il Bello era un tipo a posto. Le uniche ricadute, ormai, si dovevano alle volte non troppo frequenti in cui beveva un bicchiere di troppo e tirava fuori dai recessi dello spirito ottenebrato la canzone della sua vita, quella che aveva sempre voluto scrivere. E se per caso mi trovavo nei paraggi potevo star sicuro, in quanto ex musicista (che però, con notevole autocritica, s'era tolto di mezzo spontaneamente) di diventare il testimone privilegiato dei suoi trip creativi.
Me ne ero già reso conto da me. Come il sangue, le
note sono più dense dell'acqua. Così buttai giù ancora un
whisky, segnalai a Bob che ne volevo un altro, e domandai
con interesse a Jørgen il Bello come andassero le cose.
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