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| << | < | > | >> |Pagina 19Il 10 agosto 1862, alle quattro del pomeriggio, un'infinità di gente si affollava davanti alla famosa Conversation di Baden-Baden. Il tempo era splendido e tutto quanto intorno, – il verde degli alberi, le case luminose dell'accogliente città e la cerchia ondulata dei monti, – tutto aveva un aspetto festoso e si offriva ai raggi di un sole benevolo. Tutto sembrava sorridere con un'aria un po' svagata, fiduciosa e gentile, e quello stesso sorriso, vago ma buono, aleggiava sui volti della gente, anziani e giovani, belli e brutti. Persino i visi imbellettati delle lorettes parigine non riuscivano a intaccare quel quadro di contentezza e di esultanza generale, mentre i nastri variopinti, le penne, lo scintillare dorato e metallico dei cappelli e dei veli ricordavano quasi istintivamente allo sguardo il vivo luccichio e il tremolo gioco di fiori primaverili e ali iridescenti, e solo il cicaleccio secco e sgradevole di quel gergo francese, che serpeggiava ovunque, non poteva certo sostituire il cinguettio degli uccelli, né tanto meno esservi paragonato. Del resto, ogni cosa procedeva secondo il suo ordine. Nel chiostro, l'orchestra passava da un pot pourri della Traviata a un valzer di Strauss, a Ditele, romanza russa strumentata dal sussiegoso maestro di cappella. Nelle sale da gioco, attorno ai tavoli verdi, si affollavano sempre le stesse figure ormai note a tutti, con la consueta espressione di ottusa bramosia ora sbalordita, ora invelenita, ma sempre ferocemente avida, che la febbre del gioco conferisce a ogni volto, anche a quello più aristocratico. Il solito proprietario terriero di Tambov, un grassone eccessivamente agghindato, con l'abituale precipitazione, incomprensibile e febbrile, gli occhi fuori dalle orbite, il petto proteso sul tavolo, incurante dei freddi sorrisetti dei croupiers, nell'istante stesso in cui echeggiava il «rien ne va plus», cospargeva con la sua mano sudata ogni scompartimento della roulette di luigi d'oro, privandosi in tal modo di qualsiasi possibilità di vincere qualcosa, persino in caso di fortuna, il che non gli impediva minimamente, la stessa sera, di assentire con partecipe indignazione al principe Cocò — uno degli esponenti più in vista della nobiltà di opposizione, quel principe Cocò che, a Parigi, nel salotto della principessa Matilde, in presenza dell'imperatore, aveva detto così bene: «Madame, le principe de la propriété est profondément ébranlé en Russie».
Come al solito, all'«Albero russo» —
à l'Arbre russe —
si riunivano le nostre gentili compatriote e i nostri esimi compatrioti.
Arrivavano in gran pompa, con aria di sufficienza, tutti alla moda,
si salutavano l'un l'altro maestosamente con grazia e disinvoltura,
come si confa a individui che sono la crema stessa della società, ma,
una volta allontanatisi e preso posto, non sapevano assolutamente
cosa dirsi, e si accontentavano di chiacchiere insulse e vuote, o delle
battute banali, assai sciocche e volgari di un ex letterato francese,
sgonfiato ormai da tempo, buffone e chiacchierone, con orrende
scarpacce in fondo alle gambette striminzite e una rada barbetta
sul muso rivoltante. Costui raccontava loro,
à ces princes russes,
ogni sorta di stupidaggini scopiazzate da vecchie collezioni dello
Charivari
e del
Tentamarre,
ed essi,
ces princes russes,
si prodigavano in grandi risate riconoscenti, quasi a confermare
involontariamente
la straordinaria superiorità di quel cervellone straniero e la propria
irrimediabile incapacità di inventare qualcosa di arguto. E dire
che era presente quasi tutta la
fine fleur
della nostra società,
«il fior fiore della bella gente alla moda». C'era il conte, nostro
impareggiabile dilettante, squisita natura musicale, che «sapeva
porgere» così divinamente le romanze, mentre in realtà non era in
grado di mettere in fila due-note-due, senza percorrere la tastiera
con l'indice per dritto e per rovescio, e che cantava non si sapeva
bene se come un pessimo tzigano o come un coiffeur parigino.
C'era anche il nostro irresistibile barone Z., campione tuttofare,
letterato e amministratore, oratore e baro; c'era il principe V., amico
della religione e del popolo, che si era fatto una fortuna all'epoca
d'oro degli appalti, vendendo acquavite tagliata con stramonio; e
il brillante generale O.O., che aveva conquistato qualcosa, aveva
assoggettato qualcuno, eppure, ecco, non aveva la minima idea di
quello che doveva combinare e di come presentarsi meglio; e R.R.,
delizioso grassone, che si considerava una persona estremamente
malata ed estremamente intelligente, mentre era forte e sano
come un toro e stupido come una campana... Quello stesso
R.R. che era ormai quasi l'ultimo esemplare nella nostra epoca ad
aver conservato le tradizioni dei «leoni» degli anni Quaranta, del
periodo di
Un eroe del nostro tempo
e della contessa Vorotynskaja.
Così come aveva conservato la camminata molleggiata sui tacchi e
le culte de la pose
(qualcosa di praticamente intraducibile in russo),
una innaturale lentezza nei movimenti, una sonnolenta maestosità
dell'espressione sul viso immobile, dall'aria offesa, e l'abitudine
di interrompere sbadigliando gli altrui discorsi, di osservarsi
accuratamente dita e unghie, di ridere col naso, di calarsi tutto
a un tratto il cappello sugli occhi, spostandolo dalla nuca, e così
via. C'erano anche uomini di Stato, diplomatici, pezzi grossi dai
nomi europei, gente di consiglio e di ragione, convinti che la «Bolla
d'oro» fosse stata emessa dal Papa e che la
poor-tax
fosse una tassa sui poveri; e c'erano, infine, gli ardenti, ancorché timidi,
adoratori di camelie, giovani leoni dell'alta società con splendide scriminature
sulla nuca, basette straordinariamente imponenti e autentici vestiti
londinesi – giovani leoni cui, si sarebbe detto, non ripugnava di
essere triviali quanto il famigerato chiacchierone francese.
Eppure no! Si vede che non va fra noi il genere nostrano e persino la contessa S., famosa per dettare mode e comportamenti, soprannominata dalle malelingue «regina delle vespe» e «medusa in cuffia», preferiva, in assenza del chiacchierone, rivolgersi a qualcuno fra quelli che non mancavano di ronzarle intorno, italiani, moldavi, «spiritisti» americani, aitanti segretari di ambasciate straniere, giovani tedeschi dalla fisionomia effeminata, eppure già maliziosa. Seguendo l'esempio della contessa, anche la principessa Babette, quella stessa cui era morto Chopin fra le braccia (in Europa si contano un migliaio di dame fra le cui braccia egli ha esalato l'ultimo respiro), e la principessa Annette, che avrebbe conquistato chiunque, se, di tanto in tanto, improvvisamente non fosse spuntata in lei, come un olezzo di cavolo fra l'ambra grigia più raffinata, la semplice lavandaia di campagna; e la principessa Pachette cui era successa una terribile disgrazia: suo marito, appena assegnato a una carica di prestigio, all'improvviso, Dieu sait pourquoi, aveva malmenato il sindaco del luogo e rubato ventimila rubli d'argento dall'amministrazione dello Stato; e la sorridente principessina Zizì e la lacrimevole principessina Zozò, tutte quante ignoravano i loro compatrioti e li trattavano con ben poca grazia...
Ignoriamole un po' anche noi, queste dame leggiadre, e
allontaniamoci dal celebre albero, attorno al quale siedono
nelle loro toilettes tanto sfarzose quanto di gusto discutibile,
e che il Signore plachi la noia che le tormenta!
Ad alcuni passi dall'«Albero russo», seduto a un tavolino del caffè Weber, c'era un bell'uomo sui trent'anni, di media statura, magro e bruno, dal viso gradevole e virile. Appena inchinato in avanti e con entrambe le mani poggiate sul bastone da passeggio, se ne stava seduto calmo e tranquillo, proprio come se non gli passasse neppure per la mente che qualcuno potesse notarlo, o interessarsi a lui. I suoi grandi occhi espressivi, di colore castano con screziature più chiare, si volgevano lentamente intorno, ora socchiudendosi appena per il riverbero del sole, ora accompagnando con improvviso interesse una qualche figura eccentrica che passava lì accanto, mentre un rapido sorriso quasi infantile sfiorava i suoi baffi sottili, le labbra e il mento volitivo. Indossava un ampio cappotto di taglio tedesco e un morbido cappello grigio copriva una buona metà della sua fronte alta. A prima vista, dava l'impressione di essere persona onesta e attiva, forse appena un po' troppo sicura di sé, come ce ne sono parecchie a questo mondo. Si sarebbe detto che riposasse da lunghe fatiche e che ciò che gli scorreva davanti lo divertisse in una maniera del tutto ingenua, tanto che i suoi pensieri vagavano lontano in un mondo assolutamente diverso da quello che lo circondava in quel momento. Era un russo e si chiamava Grigorij Michajlovič Litvinov. Dobbiamo fare la sua conoscenza e perciò sarà necessario raccontare in poche parole il suo passato, peraltro assai semplice e lineare. | << | < | > | >> |Pagina 41Improvvisamente Gubarev fu preso da una sorta di pesante agitazione, quasi rabbiosa. Era persino avvampato in viso e gli si era accelerato il respiro, ma aveva ancora lo sguardo abbassato e continuava a mordicchiarsi la barba. «Non vi rendete conto che...».«Evseev è un mascalzone!» sibilò a un tratto la Suchančikova, a cui Bambaev stava raccontando qualcosa a mezza voce, per rispetto verso il padrone di casa. Gubarev si girò bruscamente sui tacchi e riprese ad andare su e giù per la stanza con la sua andatura ondeggiante. Cominciarono a comparire nuovi visitatori e verso la fine della serata si raccolse parecchia gente. Fra gli altri venne anche il signor Evseev, così brutalmente qualificato dalla Suchančikova, che si mise a chiacchierare con lui molto amichevolmente e poi lo pregò di accompagnarla a casa. Venne un certo Piščalkin, giudice di pace ideale, una di quelle persone di cui, forse, ha proprio bisogno la Russia, e cioè: limitate, scarsamente istruite e senza talento, ma coscienziose, pazienti e oneste. I contadini del suo distretto poco mancava che pregassero per lui ed egli stesso si trattava con estrema deferenza, come si deve verso un essere veramente degno di stima. Vennero alcuni ufficialetti, schizzati in Europa per una licenza breve breve e ben contenti di approfittare dell'occasione per trastullarsi con gente così intelligente e persino un po' pericolosa, naturalmente con tutte le cautele del caso e avendo sempre presente in un angolino della mente il pensiero del comandante del reggimento. Accorsero due studentelli da Heidelberg, smunti e secchi: uno continuava a guardarsi intorno sospettosamente, mentre l'altro sghignazzava convulsamente... ma si sentivano tutti e due molto a disagio. Dopo di loro s'imbucò un francesino, un cosiddetto ptì genòmm, sporchino, pallidino e stupidino... che si vantava fra i commessi viaggiatori suoi amici di come si innamorassero di lui le contesse russe, mentre egli — in realtà — mirava più che altro a cenare a sbafo. Infine si presentò Tit Bindasov, un tipo dall'aspetto del compagnone chiassoso, ma in realtà attaccabrighe e scroccone, terrorista a parole e gendarme per vocazione, amico di mercantesse russe e lorettes parigine, calvo, sdentato e ubriacone. Si presentò tutto accaldato e malconcio, sostenendo di aver perduto sino all'ultimo copeco con quel «furfante di Benazet», mentre in effetti gli aveva vinto sedici gulden... Insomma, si radunò molta gente. Notevole, veramente notevole, era il rispetto che tutti gli ospiti dimostravano nei confronti di Gubarev, considerato come un maestro o un capo. Ciascuno gli esponeva i propri dubbi e li sottoponeva al suo giudizio, ed egli rispondeva... con un mugolio, una stretta di barba, un roteare di occhi o con parole spezzettate, insignificanti, che venivano afferrate al volo, come fossero espressione della più alta saggezza. Gubarev stesso interveniva raramente nei discorsi, per contro gli altri lavoravano alacremente di polmoni. Più di una volta, tre o quattro si misero a urlare insieme per una decina di minuti e tutti erano soddisfatti e avevano l'aria di aver capito. La conversazione si protrasse oltre la mezzanotte e si distinse, com'è d'uso, per l'abbondanza e la varietà degli argomenti. La Suchančikova parlò di Garibaldi, di un certo Karl Ivanovič, frustato dai suoi stessi servi, di Napoleone III, del lavoro femminile, del mercante Pleskačëv, che aveva fatto morire di fatica dodici operai e ne era stato ricompensato con una medaglia «al merito», del proletariato, del principe georgiano Čukčeulidzev, che aveva ammazzato la moglie sparandole con un cannone, e dell'avvenire della Russia. Anche Piščalkin parlò dell'avvenire della Russia, degli appalti, dell'importanza dei gruppi etnici e di come egli odiasse in sommo grado la volgarità. Vorošilov esplose d'un colpo, e quasi senza prendere respiro nominò Draper, Virchow, il signor Šelgunov, Bichat, Helmholtz, Starr, Stur, Reymont, Johann Müller il fisiologo, Johann Müller lo storico, evidentemente confondendo l'uno con l'altro, Taine, Renan, il signor Ščapov, e poi Thomas Nash, Peele, Green... «E questi che uccelli sono?» borbottò stupefatto Bambaev. «Precursori di Shakespeare che si riferiscono a lui come le ramificazioni delle Alpi al monte Bianco!» rispose brusco Vorošilov, dopodiché sfiorò anch'egli l'avvenire della Russia. | << | < | > | >> |Pagina 122Litvinov lasciò che la contessa si allontanasse con tutto il suo seguito e raggiunse anch'egli il viale. Non riusciva a rendersi veramente conto di ciò che provava: vergogna e persino paura e nello stesso tempo si sentiva lusingato... L'inattesa spiegazione con Irina lo aveva colto di sorpresa e le sue parole ardenti e convulse si erano abbattute su di lui come un violento acquazzone. «Sono ben strane queste donne del bel mondo,» pensò «e non hanno nessuna coerenza... E come le stravolge l'ambiente in cui vivono, di cui esse stesse sentono l'indecenza!...». In realtà, quello a cui pensava era tutt'altro, ma ripeteva meccanicamente quelle frasi trite, forse cercando così di allontanarsi da altri pensieri, più sconvolgenti. Si rendeva conto che in quel momento non era il caso di mettersi a riflettere più seriamente, che, probabilmente, sarebbe stato costretto a mettersi sotto accusa, e procedeva a passi lenti, sforzandosi di prestare attenzione a tutto ciò che gli veniva incontro... D'un tratto si trovò davanti a una panchina, vide accanto le gambe di qualcuno e sollevò lo sguardo... Le gambe appartenevano a un uomo che era seduto sulla panchina e che leggeva il giornale. Era Potugin. A Litvinov sfuggì una breve esclamazione. Potugin abbandonò il giornale sulle ginocchia e si mise a fissare Litvinov intensamente e senza sorridere. Anche Litvinov guardava Potugin, anch'egli intensamente e senza sorridere. «Posso sedermi con voi?» domandò infine. «Accomodatevi, vi prego. Solo vi avverto: se desiderate parlare con me, non ve l'abbiate a male: in questo momento mi sento incline alla peggiore misantropia e ogni cosa mi appare sotto la luce più cupa». «Non vuol dire, Sozont Ivanyč,» disse Litvinov, sedendosi sulla panchina «anzi, capita persino a proposito... Ma come mai siete di questo stato d'animo?». «In realtà, non avrei alcun motivo di arrabbiarmi» cominciò Potugin. «Ho appena letto sul giornale del progetto di riforma giuridica in Russia e vedo con vero piacere che anche da noi, finalmente, comincia a prevalere il buon senso e non si intende più di applicare, col pretesto dell'autonomia, delle inclinazioni popolari, o dell'originalità, alla nitida e chiara logica europea una piccola coda fatta in casa, ma, al contrario, si comincia a prendere per intero quello che gli altri hanno di buono. Già ce n'è d'avanzo per quanto riguarda le concessioni della questione contadina... Provate un po' a risolvere il problema della proprietà comune!... Dunque non avrei proprio motivi di irritazione, se disgrazia non avesse voluto che mi andassi a imbattere in uno di quei talenti naturali russi e non mi fossi messo a conversare con lui... Il fatto è che questi talenti naturali, questi autodidatti non mi daranno pace neppure nella tomba!». «E chi sarebbe questo "talento naturale"?» s'interessò Litvinov. «Un signore che gira da queste parti e che si considera un musicista geniale. "Certo, io non sono nessuno," dichiara "sono zero, perché non ho studiato ma ho in testa tanta di quella musica e tante di quelle idee che Meyerbeer se le sogna!". In primo luogo, dico: perché non hai studiato? E in secondo luogo, non Meyerbeer, ma l'ultimo flautista tedesco che strimpella modestamente la sua parte nell'ultima orchestra tedesca ha venti volte più idee di tutti i nostri talenti naturali. Solo che il flautista si tiene le sue idee per sé e non s'intrufola in prima fila nella patria dei Mozart e degli Haydn, mentre al talento naturale di casa nostra basta aver scritto un valzerino o una romanzetta, per andarsene in giro mani in tasca e aria sprezzante, "eccomi qua: sono un genio!". Anche in pittura è la stessa cosa, e dappertutto. Ne ho le tasche piene di questi talenti naturali! Chi è che non sa che ci si vanta di essi solo là dove non c'è una vera scienza che sia entrata nel sangue e nella carne, né una vera arte? Possibile che non sia venuta l'ora di mettere in soffitta tutta questa ostentazione, questa volgare paccottiglia, insieme alle solite frasi, secondo cui da noi in Russia nessuno muore di fame e lungo le strade si viaggia più rapidamente e se solo volessimo potremmo seppellire tutti sotto i nostri berretti? Poi ti tirano fuori la storia della natura russa così dotata, dell'istinto geniale, di Kulibin... Ma scusatemi, signori, dove sarebbero queste vostre doti di natura? A me non paiono altro che il balbettio di chi si è appena svegliato, ovvero l'astuzia animalesca. L'istinto! Han trovato di che vantarsi! Prendete una formica nel bosco e portatela a una versta dal suo buco: ebbene, essa troverà la strada per tornarsene a casa. L'essere umano non può fare nulla del genere, e allora? Forse che è inferiore alla formica? L'istinto, anche il più geniale, non è degno dell'uomo: la ragione, la semplice sana, normale ragione, ecco qual è il nostro vero patrimonio, il nostro orgoglio. La ragione non combina nessuna di queste storie, ecco perché tutto poggia su di essa. Quanto a Kulibin, che mette insieme una porcheria d'orologio, senza conoscere la meccanica, io il suo orologio ordinerei di metterlo alla berlina, in modo che la brava gente possa vederlo e impari come non si devono fare le cose. Kulibin non ha nessuna colpa, ma la sua opera è una porcheria. Oppure c'è chi canta le lodi di Teluškin, perché si è arrampicato sulla guglia dell'Ammiragliato: bene, se è per il coraggio e l'agilità, siamo d'accordo, perché non lodarlo? Ma non è proprio il caso di mettersi a gridare ai quattro venti che la sa più lunga degli architetti tedeschi e che quelli son bravi solo a prender soldi... La verità è che non la sa proprio più lunga di nessuno e che poi è toccato mettere le impalcature intorno alla guglia e aggiustarla come si deve. Per amor del Cielo non mettiamoci a incoraggiare, in Russia, a incoraggiare l'idea che si possa ottenere qualcosa senza lo studio! Macché, avessi pure una fronte larga sette spanne, studia, studia a cominciare dall'a b c! Oppure stattene buono in silenzio senza muovere la coda! Uffa! Mi è venuto persino caldo!». Potugin si tolse il cappello e si fece vento col fazzoletto. «L'arte russa,» riprese poi «l'arte russal... Io conosco le chiacchiere russe e conosco anche l'impotenza russa ma l'arte russa, scusatemi tanto, non mi è ancora capitato di incontrarla. Per venti anni di fila ci siamo piegati in due davanti a quel pallone gonfiato di Brjullov e ci siamo messi in testa che anche da noi si fosse formata una scuola e che sarebbe stata persino più raffinata di tutte le altre... L'arte russa, ah-ah-ah! oh-oh-oh!». «Ma scusatemi, Sozont Ivanyč,» osservò Litvinov «allora voi non riconoscete neppure Glinka?». Potugin si grattò un orecchio. «Le eccezioni, sapete, non fanno che confermare la regola, ma anche in questo caso non abbiamo potuto fare a meno di inutili vanterie. Dire, per esempio, che Glinka fu davvero un musicista straordinario e che solo le circostanze, esterne e interne, gli impedirono di diventare il caposcuola dell'opera russa è una cosa contro cui non c'è nulla da eccepire, e invece no! Adesso lo devono trasformare a tutti costi in généralen-chef in gran maresciallo del ramo musicale e devono per forza convincere gli altri popoli che loro non hanno nulla di simile... e subito dopo vi indicano un qualche «formidabile» genio di casa, le cui opere non sono altro che la meschina imitazione di personaggi stranieri di secondo piano, sì, di secondo piano, perché sono più facili da imitare. Non è vero? Oh, poveri barbari sciocchi, per i quali non esiste il principio della continuità dell'arte, e gli artisti che sono qualcosa di simile a Rappo: uno straniero riesce a sollevare sei pud con una mano sola, benissimo: e il nostro ne solleva addirittura dodici! Non è vero??! Allora mi permetto di raccontarvi un ricordo che non riesco a cancellare dalla memoria. Questa primavera ho visitato il Palazzo di Cristallo nel pressi di Londra. In questo palazzo, come sapete, è stata allestita una sorta di esposizione di tutto ciò che ha realizzato l'inventiva umana: insomma, una specie di museo dell'umanità, se si può dire così. Ebbene, andavo su e giù accanto a tutti questi strumenti e macchine e statue di grandi uomini e intanto pensavo: se fosse emanato un decreto in base al quale, insieme alla scomparsa di un qualche popolo dalla faccia della terra, dovesse improvvisamente sparire dal Palazzo di Cristallo tutto ciò che quel popolo ha creato, la nostra mammetta, la Russia ortodossa, potrebbe tranquillamente sprofondare nell'inferno, senza che ciò venga a recare un minimo disturbo a un solo chiodo, a una sola spilla: tutto resterebbe tranquillamente al suo posto, perché persino il samovar, i lapti, la duga, e il knut, questi nobili celebri prodotti, non sono stati inventati da noi. Un esperimento del genere non si potrebbe fare neppure con le isole Sandwich, poiché gli abitanti del luogo hanno pur inventato certe imbarcazioni e certe lance e i visitatori si accorgerebbero della loro assenza. Č una menzogna! Siete troppo drastico, direte magari voi... e io vi rispondo: in primo luogo, che non sono capace di criticare facendomi bello; e, in secondo luogo, che non è soltanto il diavolo, ma anche se stessi, che nessuno si azzarda a guardare dritto negli occhi, e che non sono soltanto i bambini, da noi, che amano essere coccolati e cullati. Le nostre antiche invenzioni ci sono rotolate dall'Oriente, quelle nuove le abbiamo trasportate alla meglio da Occidente, eppure continuiamo a blaterare dell'originalità dell'arte russa! Certi campioni hanno persino scoperto la scienza russa: anche da noi due per due fa quattro, però con più entusiasmo. «Un momento, Sozont Ivanyč,» esclamò Litvinov «un momento! Eppure mandiamo anche noi qualche cosa alle esposizioni mondiali, e l'Europa si approvvigiona di qualcosa anche da noi». «Sì, di materie prime, di prodotti grezzi. E badate bene, gentili signori: questi nostri prodotti, per lo più, sono apprezzabili proprio perché devono la loro esistenza ad altre circostanze di infima natura: la nostra setola di maiale, per esempio, è lunga e forte perché i maiali sono di cattiva qualità; il cuoio è solido e spesso, perché le vacche sono magre; il lardo è grasso, perché viene cotto con la carne di bue... del resto, perché mi dilungo a parlare con voi di queste cose? Voi vi occupate di tecnologia e dovete sapere tutto ciò assai meglio di me. Mi dicono: l'inventiva! L'inventiva russa! Ebbene, i nostri signori proprietari si lamentano amaramente e subiscono immense perdite, perché non esiste un essiccatoio come si deve, che liberi dalla necessità di mettere i loro covoni nei capannoni, come ai tempi di Rjurik. Questi capannoni sono tremendamente improduttivi, qualcosa di simile ai lapti e alle stuoie, e ardono senza sosta. I proprietari si lamentano, ma intanto gli essiccatoi non ci sono. E perché non ci sono? Perché al tedesco non servono, egli trebbia il suo grano umido e dunque non si preoccupa della loro invenzione, e noi... non siamo in grado! Non siamo in grado e basta! Dovessimo pure schiattare! Da oggi in poi, lo giuro, appena mi si para davanti uno di questi talenti naturali o autodidatti: ferma, gli dico, carissimo! E l'essiccatoio dov'è? Tiralo fuori! Ma quale essiccatoio! Magari, raccogliere una vecchia scarpaccia scalcagnata, caduta già da un pezzo dal piede di Saint-Simon o di Fourier, e mettersela rispettosamente in testa: e andare in giro con essa come fosse una reliquia ecco, di questo siamo anche capaci. Oppure buttare giù un articoletto sul significato storico e contemporaneo del proletariato nelle principali città francesi, anche questo è nelle nostre possibilità. Ma provate a proporre a uno di questi saggisti ed esperti di economia politica, sul tipo del vostro signor Vorošilov, di citarvi il nome di una ventina di città di questa stessa Francia, bene, lo sapete che cosa ne verrebbe fuori? Verrebbe fuori che il vostro esperto di economia politica fra le città francesi, dalla disperazione, vi citerebbe alla fine anche Monfermeil, ricordandosi probabilmente del romanzo di Paul de Kock. A questo proposito, mi è venuto in mente un aneddoto. Una volta, me ne stavo andando per il bosco col fucile e col cane...». «Siete cacciatore?» chiese Litvinov. «Me la cavo. Andavo a caccia di beccacce, dirigendomi verso una palude, di cui mi avevano parlato altri cacciatori. D'un tratto, in una radura, davanti a una casetta di legno di mercanti, vedo un garzone, fresco e vigoroso, come una noce sgusciata. Se ne sta seduto e ridacchia, chissà perché e a cosa. Io gli chiedo: "Dov'è qui la palude, e sai se ci sono le beccacce?". "Prego, prego," mi risponde immediatamente con un'espressione gioiosa, come se gli avessi regalato un rublo, "con tanto piacere, la palude è di prima qualità e per quanto riguarda ogni tipo di selvaggina, Dio mio! ce n'è una gran quantità". Io mi avviai, ma non solo non trovai neppure l'ombra di selvaggina, ma perfino la palude stessa si era seccata ormai da un pezzo. Di grazia, mi volete dire perché il russo deve sempre mentire, perché mente se è esperto di economia politica e mente anche a proposito della selvaggina?». Litvinov non rispose nulla e si limitò a sospirare con simpatia. «E provate a intavolare una discussione sui problemi più ardui della scienza sociale, sempre con quello stesso esperto di economia politica,» riprese Potugin «ma in generale, senza toccare i fatti concreti... frrrrr! Vedrete come volerà, come un'aquila. Tuttavia, una volta mi è riuscito di acchiapparne uno di questi uccelli: come avrete modo di notare, mi ero servito di un'eccellente pania. Discutevo con uno di questi nostri giovani d'oggi di varie «questioni», come dicono loro. E lui si indignava fieramente, come accade. Negava, fra l'altro, l'istituto del matrimonio con un accanimento davvero infantile. Io avanzavo determinate ragioni, poi altre, poi altre ancora... macché, come dare testate contro il muro! Insomma, mi rendevo conto che non era possibile fare breccia da nessuna parte. Allora mi è balenata un'idea felice. "Permettetemi," cominciai a dire — sapete, con questi tipi occorre parlare sempre con tono rispettoso — "permettetemi esimio signore, ma io mi meraviglio di voi. Voi vi interessate di scienze naturali e fino ad ora non avete ancora prestato attenzione al fatto che tutti gli animali carnivori e di rapina, le fiere, gli uccelli, tutti coloro che devono andare a caccia e debbono faticare per procacciare carne fresca per se stessi e per i loro figli... e voi annoverate gli esseri umani fra questo tipo di animali, vero?". "Naturalmente che li annovero," replicò il giovanotto "l'essere umano non è altro che un animale carnivoro". "E feroce" aggiunsi io. "E feroce" confermò. "Ben detto" confermai a mia volta. "Ebbene, mi sorprende il fatto che voi non abbiate osservato come tutti gli animali di questo tipo sono monogami". Il giovane trasalì. "Come?". "Così. Pensate al leone, al lupo, all'avvoltoio, al nibbio, allo sparviero... e del resto, abbiate la bontà di considerarlo, come potrebbero fare diversamente? Č già difficile nutrire i piccoli in due". Il mio giovanotto rimase pensieroso. "Be'," fece "in questo caso l'animale non è un modello per l'uomo". Allora io gli diedi dell'idealista e avreste dovuto vedere come se ne rattristò! Ci mancò poco che si mettesse a piangere. Dovetti consolarlo e promettergli che non avrei fatto la spia coi suoi compagni. Meritare la qualifica di idealista, vi pare poco? Il divertente è proprio che i giovani d'oggi han fatto male i calcoli. Essi si immaginavano che fosse passata l'epoca del lavoro di una volta, oscuro e sotterraneo, che andava bene per i vecchi padri scavare come vecchie talpe, ma per noi quello è un ruolo umiliante, noi avremmo operato all'aria aperta, avremmo operato... Poveri piccioncini! Neppure i vostri marmocchi agiranno così, e quanto a voi, che ne direste di ritornare nel buco, nel buco a seguire le orme dei vostri vecchi? Ci fu un attimo di silenzio». «Io, signore mio,» riprese ancora Potugin «sono dell'opinione che alla civiltà non dobbiamo soltanto il sapere, l'arte, il diritto, che persino il senso stesso del bello e la poesia si sviluppano e acquistano forza sotto l'influenza di questa stessa civiltà e che la cosiddetta creatività popolare, ingenua e incosciente non sia altro che un'assurdità e una sciocchezza. Già in Omero si possono individuare le tracce anzi i germi di una civiltà raffinata e ricca; l'amore stesso si nobilita grazie ad essa. Gli slavofili m'impiccherebbero volentieri per un'eresia del genere, se non fossero creature così delicate. Tuttavia io resto fermo nelle mie opinioni, per quanto possano cercare di sedurmi con la signora Kochanovskaja e con lo Sciame in pace, non intendo annusare questo triple extrait de mougik russe, poiché non appartengo all'alta società, che, di tanto in tanto, ha bisogno di convincersi che non si è francesizzata del tutto e proprio per la quale, in definitiva, viene composta questa letteratura en cuir de Russie. Provate a leggere a un popolano, a un vero popolano, i passi più significativi, più «popolari» dello Sciame: penserà che gli state comunicando una nuova formula magica contro il delirio febbrile o l'ubriachezza. Lo ripeto, senza civiltà non c'è neppure poesia. Volete addentrarvi in quello che è l'ideale poetico del russo non civilizzato? Sfogliate le nostre byliny, le nostre leggende. Non parlo del fatto che l'amore da esse viene sempre presentato come la conseguenza di un sortilegio, una malia, sia l'effetto del «filtro dell'oblio», e si chiami addirittura incantesimo, fattucchieria; non parlo neppure del fatto che la nostra cosiddetta letteratura epica sia l'unica, fra tutte le altre, europee e asiatiche, l'unica, badate bene, che non presenti alcuna coppia tipica di creature che si amano (se non contiamo Van'ka-Tan'ka); che l'eroico gigante della Santa Russia incomincia sempre la sua conoscenza con la promessa sposa battendola sul corpo bianco «senza risparmio», motivo per cui «anche il sesso debole vive paffutello», eviterò di parlare di tutto questo... Ma mi permetto di attirare la vostra attenzione sull'elegante figura del giovane cavaliere, il jeune premier, quale se lo immaginava lo slavo primitivo e non ancora civilizzato. Ecco, mi permetto di presentarvelo: avanza dunque il nostro jeune premier col suo pellicciotto di martora, con tutte le cuciture ricamate, la cintura di seta che arriva fin sotto le ascelle, le dita che si perdono sotto le maniche, il colletto della pelliccia più alto della testa, così che dal davanti non si vede il viso roseo e dal di dietro non si vede il collo bianco, il colbacco poggiato su un orecchio, stivali di marocchino ai piedi, le punte lavorate a lesina e tacchi aguzzi, di modo che intorno alle punte potrebbe rotolare un uovo e sotto i tacchi potrebbe volarci un passero ad ali spiegate. E il nostro baldo eroe avanza con un'andatura fatta di passetti brevi e rapidi, quella celebre andatura "da bellimbusto", con cui il nostro Alcibiade, Čurilo Plenkovič, produceva un effetto così straordinario, quasi medicinale, su donne vecchie e giovani, quella stessa andatura con cui ancora oggi in modo così inimitabile camminano a piccoli passi i nostri camerieri dalle giunture svitate, questa crema, questo fiore della sciccheria russa, questo nec plus ultra del gusto russo. Non sto scherzando: la goffa spavalderia, ecco qual è il nostro ideale artistico. Ebbene, è forse attraente questa figura? Offre molti spunti per la pittura, o per la scultura? E la bella fanciulla, che incanta il baldo giovanotto e ha "il viso roseo come quello di una lepre"?... Ma voi non mi state ascoltando, vero?». | << | < | > | >> |Pagina 221Ci capitò una volta di entrare nell'isba di una contadina che aveva perso da poco l'unico, amatissimo figlio e, con nostra grande meraviglia, la trovammo assolutamente tranquilla, quasi allegra. «Non le badate,» disse suo marito al quale, probabilmente, non era sfuggita la nostra sorpresa «adesso è intorpidita». E anche Litvinov era «intorpidito». La stessa tranquillità colpì anche lui nelle prime ore del suo viaggio. Assolutamente annichilito e disperatamente infelice, egli però respirava, respirava dopo l'ansia e i tormenti dell'ultima settimana, dopo tutti questi colpi piovuti sulla sua testa uno dopo l'altro. E lo avevano scosso ancora di più perché egli non era fatto per simili tempeste. Ormai non sperava davvero in nulla e cercava di non ricordare, soprattutto di non ricordare, andava in Russia... bisognava pur andare da qualche parte! Ma ormai non faceva più progetti riguardanti la propria persona. Non si riconosceva, non capiva i suoi atti, come se avesse perso il suo vero «io» e del resto si interessava ben poco a questo «io». Talora gli sembrava di trasportare il proprio cadavere e solo i brividi amari dell'incurabile dolore spirituale che di tanto in tanto lo scuotevano gli ricordavano che era ancora vivo. In certi momenti gli sembrava incomprensibile che un uomo — un uomo! — avesse potuto permettere a una donna, a un amore di esercitare un tale influsso sulla sua vita. «Che vergognosa debolezza!» mormorava aggiustandosi il cappotto e sedendosi meglio. «Ecco,» sembrava dire «la vecchia storia è finita, cominciamo quella nuova...». Un attimo dopo si limitava a sorridere amaramente ed era stupito di se stesso. Si mise a guardare dal finestrino. Era una giornata grigia, umida; non pioveva ma c'era ancora nebbia e nuvole basse oscuravano il cielo. Il vento soffiava in direzione contraria a quella del treno; volute biancastre di vapore, ora sole, ora mescolate ad altre più scure di fumo sfrecciavano in un'interminabile processione fuori dal finestrino accanto al quale era seduto Litvinov. Cominciò a osservare questo vapore, questo fumo. Aggomitolandosi senza posa, levandosi e ricadendo, turbinando e avvinghiandosi all'erba, ai cespugli, quasi contorcendosi, allungandosi e sciogliendosi, le volute si succedevano alle volute; esse mutavano costantemente eppure rimanevano le stesse... Un gioco monotono, affrettato, noioso! Talvolta il vento cambiava, la strada curvava e tutta la massa a un tratto scompariva per riapparire subito dopo dalla parte opposta; poi la coda gigantesca si spostava di nuovo e di nuovo nascondeva a Litvinov la vista dell'ampia pianura del Reno. Litvinov guardava, guardava, e si sorprese in una strana riflessione... Era solo nel vagone: nessuno lo disturbava...
«Fumo, fumo» ripeté varie volte; e tutto all'improvviso gli
parve fumo, tutto, la propria vita, la vita russa, tutto ciò che
era umano e in particolare tutto ciò che era russo. Tutto fumo e
vapore, pensava: tutto sembra mutare continuamente, ovunque
nuove forme, fenomeni che si susseguono a fenomeni, mentre in
sostanza tutto resta uguale, identico; tutto corre, fugge chissà dove
e tutto scompare senza lasciare traccia, senza ottenere nulla; soffia
un vento diverso e tutto vola dalla parte opposta e lì riprende
questo gioco incessante, pericoloso e... inutile. Ricordò molte
altre cose che erano state compiute con grande clamore dinanzi
ai suoi occhi negli ultimi anni. «Fumo,» mormorava «fumo»;
gli tornavano alla memoria le accese discussioni, le chiacchiere
e la grida da Gubarev, da altre persone di alta e bassa estrazione
sociale, progressisti e conservatori, vecchi e giovani... «Fumo,»
ripeteva «fumo e vapore». Gli tornò alla memoria, infine, anche il
famigerato picnic, gli tornarono alla memoria giudizi e discorsi di
altri uomini di Stato, e persino tutto ciò che predicava Potugin...
fumo, fumo e nient'altro. E le sue aspirazioni, i suoi sentimenti, i
suoi tentativi e i suoi sogni? Si limitò a scrollare il capo.
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