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| << | < | > | >> |IndiceNOTA LIMINARE 7 PRIMA LEZIONE 9 Gutenberg, e il mondo cambiò 10 I caratteri tipografici 14 Della carta, della filigrana e dei formati 19 Il torchio da stampa 27 SECONDA LEZIONE 35 Diffusione e sviluppo della stampa 36 Tirature e diffusione 46 La bottega e l'impresa 51 Lettere di dedica, ritratti nel libro, sottoscrizioni 55 Concentrazione d'impresa 61 E i librai? 62 TERZA LEZIONE 81 La forma del libro 81 Il colophon 83 La marca tipografica 89 Il frontespizio 94 La miniatura 102 QUARTA LEZIONE 113 Il numero di pagina: una lenta conquista 114 La correzione delle bozze 123 Impaginazione 123 Primi sviluppi dei caratteri a stampa 137 QUINTA LEZIONE 145 Tecniche d'incisione e libri illustrati 145 Le incisioni in rilievo 147 Le incisioni in cavo 152 La litografia 157 Breve divagazione sulle forme del libro 158 L'arte di legare i libri 161 SESTA LEZIONE 177 We moderns? 177 Cataloghi editoriali 181 I cataloghi della fiera di Francoforte 184 Le edizioni italiane dell'Encyclopédie (e le altre) 195 CONCLUSIONE 202 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Se quest'arte fosse stata inventata e conosciuta e usata prima, senza alcun dubbio molti libri di Tito Livio, Tullio o Plinio e di altri uomini dottissimi non sarebbero mai andati perduti nella disattenzione dei tempi. Hartmann Schedel, Liber Chronicarum Nella Saggezza del bibliotecario Michel Melot cita un guru dell'informatica secondo il quale il libro, fosse venuto dopo l'e-book, sarebbe stato salutato da tutti come un formidabile progresso. L'affermazione è provocatoria soltanto in apparenza. Pur se al centro di una rivoluzione ben più complessa e profonda di quella operata dalla stampa a caratteri mobili, il mondo dell'informatica si è posto per molti aspetti in rapporto di emulazione con il libro. I due universi costituiscono insiemi paralleli e in parte sovrapposti, seppure, data l'evoluzione del calcolatore in sofisticatissimo elaboratore di immagini e linguaggi, e non soltanto di dati, tale sovrapposizione quasi non si nota, sciolta come è in una rete di relazioni infinitamente più complessa di quanto avvenne per i libri a stampa nei confronti dei manoscritti. Inoltre, benché inimmaginabili siano stati i progressi scientifici da quando per la prima volta il polpastrello di un indice batté con timido rispetto sul tasto di un cembalo scrivano, merita ricordare che in tutto il mondo nel 2000, ultimo anno del XX secolo, sono stati pubblicati quattro miliardi di libri. C'è una ragione per supporre (per temere) che il libro debba sparire dalla nostra civiltà, sostituito dall'elaboratore elettronico? Persino Bill Gates lo nega. E c'è, al contrario, una ragione per credere che la conoscenza di come fossero i libri prima della Rivoluzione Industriale possa aiutarci a meglio comprendere l'editoria odierna, e persino il mondo dell'informatica? È quel che cercherò di provare nelle pagine che seguono. Perché, come ha scritto il grande bibliografo Donald F. McKenzie, il passato è il prologo. | << | < | > | >> |Pagina 19La carta dei nostri libri, siano effimeri "miti" usa e getta, siano compatti volumi dai robusti piatti telati, è pessima, peggiore ancora di quella "carta burro" sulla quale venivano stampate le edizioni popolari di Dumas, o di quella, così facile agli arrossamenti, così fragile e secca, impiegata un po' in tutta Italia sul finire del XIX secolo. La nostra carta è fatta di pasta di cellulosa, vive poche decine d'anni e poi si decompone fra le dita: è una carta acida, e i collezionisti di prime edizioni del XX secolo devono affrontare alte spese di restauro per garantirsi veri e propri interventi preventivi. La carta degli incunaboli, invece, ha superato indenne cinquecento e cinquanta anni, vedendo sorgere e tramontare il sole 200.877 volte, senza soffrirne minimamente. Perché? Anche la carta, come molte invenzioni dell'umanità, nasce in Cina: documenti certi risalgono al 105 d.C., ma non possiamo escludere date ancora più remote, come il I secolo a.C.; in ogni caso, nell'arco temporale dell'impero Han. Nel VI secolo la carta è ormai nota in Kashmir, e da lì passa a Samarcanda nel 751. La città allora era araba, e, sebbene la fabbricazione del nuovo materiale fosse inizialmente circonfusa di segretezza, nel 793 si apre una cartiera a Bagdad, e da lì, per Damasco e Fez, la produzione si estende nei califfati di Spagna, a Cordova, Toledo, Granada, Cadice, e, fuori dalla Spagna araba, a Xàtiva (o Jàtiva), presso Valenza. Gli arabi avevano introdotto alcune migliorie tecniche, rispetto ai cinesi: la conoscenza della ruota dentata consentiva di lavorare la pasta all'origine della carta con moto alternato e non con moto continuo, rendendo così più omogeneo l'impasto; inoltre, furono loro a sostituire il traliccio di bambù con un reticolo di fili metallici. La prima cartiera italiana viene impiantata a Fabriano nel 1276, forse grazie ai commerci del porto di Ancona, e ben presto le cartiere spuntano un po' in tutta Italia. raggiungendo notevoli livelli di eccellenza tecnica. Spiegando come si fabbricava la carta (o meglio, come ancora oggi si fabbrica la carta a mano) sarà facile rispondere al nostro 'perché': perché la carta degli incunaboli è intatta e quella di un libro del 1930 ci si sbriciola tra le dita? Perché la carta a mano non era fatta con pasta di cellulosa, ma con stracci di origine vegetale. Il lino dava i risultati migliori. È dunque evidente che l'industria cartaria necessitava di due elementi fondamentali: acqua e stracci. Quella era data da madre natura, questi dagli uomini. Per importanti che fossero i vestiti, nel medioevo, tanto da essere legati in eredità, gli indumenti di lino o di canapa resi irrecuperabili dall'uso venivano raccolti dalle autorità cittadine e portati alle cartiere. Qui, ben asciutti, liberati a colpi di lama da orli e cuciture, venivano smistati in quattro gruppi: superfini, fini, medi e grossi. Ridotti in pezze di dimensioni simili, venivano immersi in acqua per cinque o sei ore, poi lasciati per tre ore in vasche di acqua corrente e successivamente posti a macerare in mucchi ordinati. Ci voleva occhio molto esperto per cogliere il giusto punto di fermentazione: tolti prima, gli stracci avrebbero dato una carta grossolana, dopo, invece, una carta "sfibrata". Quindi gli stracci venivano sminuzzati e tritati dai mulini a martelli, o a magli, mossi dalla forza dell'acqua. In un gioco di cilindri di legno e metallo, pile e ruote dentate, ne usciva una pasta sminuzzata più o meno bianca (ma mai candida e abbagliante come certe carte ottenute industrialmente, e sulle quali si legge così male), più o meno fluida, più o meno densa, che, raccolta in vasche di deposito e da lì passata nei tini di lavorazione, era pronta per essere spalmata sulla forma del telaio. L'addetto al tino immergeva allora un telaio (a mani nude, in acqua la cui temperatura era di circa 70° centigradi) e con destrezza lo estraeva imprimendo una scossa oscillatoria tale da stendere la pasta in modo uniforme. Il telaio incorniciava una forma, fitto reticolo di fili metallici, più spessi e radi quelli verticali, o filoni, più fitti e sottili gli orizzontali, o vergelle. Qualsiasi foglio di carta osservato controluce rivela la trama disegnata da questo intreccio geometrico e regolare. Fatta sgocciolare l'acqua, i fogli di carta venivano calandrati, cioè pressati con feltri di lana così da aderire e venire asportati dal telaio. Allora i fogli venivano impilati, pressati e stesi ad asciugare come tante tovaglie. Successivamente venivano imbozzimati, cioè inamidati con colle animali o vegetali, al fine di renderli meno assorbenti, più impermeabili all'inchiostro. Quindi, nuovamente pressati, venivano messi ancora una volta ad asciugare. Imballati in risme (e da sempre una risma è composta da 500 fogli: una curiosa coerenza in un mondo le cui misure lineari e ponderali variavano da campanile a campanile), i fogli venivano inviati agli stampatori. Le cartiere europee produssero a lungo fogli dalle dimensioni non particolarmente grandi: ciò si ripercosse, ovviamente, sui formati dei volumi (vedi sotto). Gli in-folio antichi, per intenderci, sono più piccoli degli in-folio moderni. E solo nel Settecento che in Europa si torneranno a produrre fogli di formato 52x70, o 73,3x109,9, come riusciva di fare agli arabi nel IX secolo. Quasi da subito, ogni cartiera adottò un proprio marchio di fabbrica, visibile su ogni foglio: la filigrana, quella che inglesi e tedeschi chiamano "marca d'acqua". La filigrana, prima composta da gruppi di lettere, poi da immagini come teste di animali o altro, si otteneva piegando tra filoni e vergelle della forma un filo metallico intorno al quale si assottigliava lo spessore del foglio, dando in controluce l'immagine tracciata dal filo stesso. Dall'introduzione della carta in Europa alla stampa dei primi libri, si sono classificate circa 16.000 filigrane. La posizione della filigrana nei fogli piegati e cuciti è determinata dal formato del libro. | << | < | > | >> |Pagina 158In Europa esistono numerosi musei della stampa ma pochi musei del libro, benché molti pretendano di esserlo. Voi entrate nelle sale del suggestivo museo Gutenberg di Magonza e vedete come si facevano i libri. Vedete i libri? Sì e no. Ne vedete qualcuno, o meglio: lo guardate. Ma lo vedete davvero? Lo stesso è per il museo di Soncino, per l'olandese Plantin-Moretus e un po' per tutti i santuari della parola stampata. È come se, andando a visitare un museo dell'automobile, vi si mettesse di fronte a catene di montaggio, chiavi inglesi e strumentazioni per il bilanciamento degli pneumatici (ma esistono ancora gli pneumatici? Forse, come gli gnocchi e gli gnomi, solo nelle fiabe, soppiantati, nelle strade e nei micro-onde, dai pneumatici dai gnomi e dai gnocchi). E le macchine? E i libri? "Che cosa c'entra?" direte voi. "Le automobili sono diverse tra loro, e i libri invece..." Anche. Anche i libri sono diversi tra loro. Non ricordate i due menabò visti all'inizio della prima lezione? Non avete capito tutti, subito, che il volume brossurato quadrotto in carta patinata non poteva che essere un illustrato? Un catalogo d'arte, o un testo parascolastico, ma non certo un saggio, né un romanzo. Mentre invece il cartonato di forma rettangolare con carta color avorio era proprio questo: un saggio, o più probabilmente un romanzo in edizione non economica. Dunque, i libri sono diversi tra loro. E un museo del libro, invece di mostrare torchi e casse tipografiche (oppure, perché no?, mostrando anche torchi e casse tipografiche), dovrebbe insegnare a vedere la forma dei libri. La forma esterna e quella interna, del lay-out di pagina. Perché gli illustrati nascono diversi dai libri di solo testo, e tra gli illustrati quelli per adulti si distinguono subito da quelli pensati per un lettore bambino. Non solo, ma un illustrato del Novecento si riconosce spesso a volume chiuso rispetto a un illustrato dell'Ottocento. E prima ancora? Come si inserivano le illustrazioni, rispetto al testo, in illustrati celebri del Settecento, in livres à figures come le edizioni in-folio delle favole di La Fontaine o la Gerusalemme liberata illustrata dal Piazzetta? E come influirono sulla impaginazione nel rapporto testo-immagine le varie tecniche, o la nascita dei giornali a alta tiratura? Perché possiamo considerare Parallèlement un esperimento che anche come data di stampa, 1900, chiude l'Ottocento e apre l'avventura novecentesca del livre de peintre (che, badate bene, è cosa diversa dal libro d'artista)? Insomma, così come la fisicità del libro ha, come vedremo, condizionato la sua forma esterna, così la fisicità dei processi iconografici ha influito sulle soluzioni grafiche e tipografiche. Meno immediate, ma altrettanto profonde, le varietà di soluzioni grafiche per i libri di solo testo. Quanto ha influito, sui libri a noi contemporanei, la rivoluzione tipografica degli anni Dieci? Che cosa ci insegna in merito alla forma del libro studiare l'impaginazione neogotica di un William Morris, l'austera scelta di essere "senza grazie" di un Eric Gill o la compresenza di stili propria dell'editoria degli anni Sessanta del Novecento? E la scelta dei caratteri? Usereste un Bodoni per un manuale di algebra o un Verdana per un qualcosa che non sia, al più, un titolo? E la loro impaginazione? La "forma" tipografica è anche questo, oltreché, naturalmente, l'invisibile equilibrio matematico degli elementi che formano la gabbia. Ma, senza addentrarci nei misteri della divina proporzione, pensiamo alla gabbia di stampa nelle sue forme più appariscenti: si potrebbe stampare un romanzo su due colonne? Sì, si può, ma lo si condanna da subito a essere una edizione popolare, come nel caso dei gialli Mondadori che infatti propongono i loro classici in una veste tipografica di formato diverso (più libro, meno fascicolo) e con un testo a colonna unica su giustezza piena. La doppia colonna, invece, non svilisce prodotti editoriali come le enciclopedie. Anzi, la madre di tutte le enciclopedie, della quale parleremo nell'ultima nostra lezione, nacque su doppia colonna (e quel bello spirito di Chamfort propalò subito la leggenda di un ricco mercante dalla recente nobiltà acquisita che, sì, l'aveva letta, questa tanto decantata Encyclopédie, ma l'aveva trovata un po' sconclusionata; si scoprì poi che l'aveva letta in orizzontale, saltando dalla prima alla seconda colonna). E i fregi, i finalini, le iniziali a capolettera, i cul-de-lampe, soluzioni tipografiche nate con gli incunaboli, abbandonate nei primi decenni dell'Ottocento ma ancora tanto amate a cavallo tra Otto e Novecento, che senso ha usarle ora? Oh, ha senso, se per esempio varate una collana modernissima nella veste e nei materiali ma dedicata, che ne so?, all'arredamento country, al collezionismo minore o alla cucina "di tradizione". Che bella soluzione grafica separare una ricetta dall'altra, nel capitolo SALSE VEGETARIANE, con un piccolo fregio a forma di fior di pisello. Non parliamo poi delle copertine. Si studiano, si montano, si smontano, si rifanno. Una copertina azzeccata può fare la fortuna di un testo; una grafica azzeccata può fare la fortuna di una collana. Volutamente povera e austera, come la BUR, la Biblioteca Universale Rizzoli grigia e nera che segnò la rinascita editoriale del dopoguerra, oppure illustrata e colorata, come gli Oscar Mondadori degli anni Sessanta. Sobria e identica a sé stessa come la Medusa, anch'essa mondadoriana, o ispirata a certa grafica inglese tra le due guerre, come Adelphi. A ogni scelta corrisponde un pubblico. Studiatevi le collane economiche degli editori francesi, o cercate di capire come i mutamenti delle copertine Penguin corrispondano a mutamenti di scelte tipografiche interne. E potete anche divertirvi a studiare le collane economiche italiane degli anni del boom: gli Oscar, appunto, e poi Longanesi con i Pocket, e Rizzoli con la BUR non più grigia e nera, e Feltrinelli con la NUE, la Nuova Universale Economica, e Einaudi con la PBE, la Piccola Biblioteca Einaudi. Scoprite poi come è cambiato l'approccio al pubblico da parte dei vari Club del Libro, quelle strutture editoriali che propongono la "consegna a domicilio" dei successi o pseudosuccessi di altri editori in edizioni che non si trovano in libreria. Sempre nei mitici anni Sessanta il Club degli Editori aveva affidato la linea grafica delle copertine a Bruno Munari. E sono infatti, perlopiù, copertine splendide. I libri in sé, decorosi, stampati con buona cura, non hanno oggi alcun valore di mercato: non sono prime edizioni, ebbero sempre alte tirature, nulla che possa suscitare la fiamma del collezionismo. Si può semmai parlare, quando si può, di affezione. Ma le copertine danno, anche all'occhio del più sprovveduto lettore, quel piacere che solo sa dare il mestiere di un grande grafico.
E quando i libri non avevano copertine editoriali, come si faceva?
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