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| << | < | > | >> |Pagina 31Sono alle ventitrè, si campa a ore, dammi l'ora minuto per minuto Cioni Carpi Chi meglio di un tifoso di calcio sa muoversi nell'accidentata geografia del dopo-muro? Da lettore di testi storici e antropologici, so che esistevano i Giliaki e i Chirghisi, ma oggi di quest'ultimi lo stato, già una delle repubbliche socialiste sovietiche, si chiama Kirghizistan (Kyrgyzstan, Kyrgyz Respublikasy, Kyrgyzskaja Respuhlika). Quanto alla capitale, lasciamo perdere. E gli Osseti, studiati da Dumézil? E quanti collegherebbero un'epopea come La pelle di leopardo a una delle attuali, e non meno cospicue, Repubbliche ex sovietiche? Ma prendiamo pure uno stato di maggior spessore storico: l'Ucraina. Capitale? Kiev, risponde sicuro il tifoso. Non esita, lui, tra Bielorussia (che è poi la Russia Bianca dei nostri trisnonni) e Ucraina. Magari non saprebbe dire con esattezza in quale continente si trova il Madagascar, ma su Kiev non esita. Kiev, la città della Dinamo. La partita del giorno prima, con tutte quelle bandiere gialle e azzurre, è stata molto eloquente. Kiev è l'antica capitale dell'Ucraina. Che poi sappia che Lviv è Leopoli, il nostro tifoso, questa è altra questione. La recente coppa d'Africa, vinta dall'Egitto su Camerun, Ghana (paese ospitante) e Costa d'Avorio (Au revoir Côte d'Ivoire, cantavano gli egiziani il giorno dopo la semifinale), avrebbe messo in crisi la generazione di mio padre, quella venuta su a Congo Belga, per capirci. E come vivevano, gli africani, i nomi imposti dai colonizzatori europei? Probabilmente la quasi totalità della popolazione di pelle nera del XIX e del XX secolo ignorò nomi di fantasia come Eritrea (colta riesumazione dovuta, credo, a Carlo Dossi) o eponimi come Rodhesia, per non parlare dei nomi di fiumi, laghi, montagne. Lago Vittoria? Lago Rodolfo? Ma se già i nomi arabi sono una sovrapposizione! Il tratto di valle tra Murzuk e Elauen si chiama Uadi Berdjutsch sulle carte, gli indigeni la conoscono come In Habeter. Gli antichi nomi dell'Africa erano lì da sempre e lì sono rimasti. Oggi alcuni fra essi riemergono come giganteschi fossili. Tragico oggetto di cronaca, il Darfur altro non è che l'antico Dar For, o meglio, For, uno dei potenti regni dell'antico Sudan con Abissinia, Naphta (l'avrà tenuto presente, Thomas Mann, nello scegliere il nome del suo personaggio?), Wadai, Baghirmi, Bornu, la confederazione degli Haussa, Borgu, Songhai, Gurma, Mossi, Djolof, gli stati Mande e tribù come i Sobat e i Nuba, che affascinarono la più nota fra le donne di cinema del Reich della svastica. A occidente il Fezzan, l'antico paese dei Garamanti. A sud le remote valli dei Mandingo, resi noti, negli anni Ottanta, al pubblico dei B movies da una pellicola pelosa di schiavi e sesso. Wagadugu (nome che oggi si scrive alla francese, e che allora non scriveva nessuno) era l'antica capitale dei Mossi. E Tommo Korro? Dov'era? Chi la abitò? Eppure fu, e ancora è. L'Africa! Ma che cosa è, l'Africa? L'Africa, la cui grande carta occupa come l'ala spezzata di un sogno il quarto atto di Zio Vanja, l'Africa che, dice un personaggio di Simenon, a scriverla con la minuscola sembra più vicina. L'Africa, continente che una cannoniera solitaria bombarda, assurda, nel coloniale silenzio di un cuore di tenebra.
I grandi poeti d'Africa, oggi, fanno rivivere il viatico degli avi, quando
il negro era per il bianco "l'uomo naturale in tutta la sua barbarie e assenza
di disciplina," un Calibano che "non costituisce
ancora un principio integrante per la genesi della civiltà". Parola di Hegel, lo
si può leggere nelle
Lezioni sulla filosofia della storia
del 1830. Ma il canto dei grandi poeti d'Africa non pensa a Hegel.
Un uomo – un vecchio, secondo i canoni del suo
tempo ma, oggi, ancora nel pieno della maturità
– si aggira smarrito nel suo vasto palazzo e contempla i tesori raccolti in una
vita: la preziosissima biblioteca che, ma lui non può ancora saperlo, costituirà
il nucleo fondante della biblioteca
nazionale del suo paese di adozione; la quadreria
raffinata e laica; gli argenti, i vasi, i bronzi, i mobili, a uno dei quali, una
particolare scrivania, gli
antiquari daranno il suo nome. Passa di sala in
sala, divorato dalla morte, lo sguardo smarrito, e
si chiede, e chiede al suo segretario: "Dovremo
dunque lasciare tutto questo?" Cardinale di Santa Romana Chiesa, è troppo
intelligente per credere alla Vita che verrà, o, se un po' ci crede in
fondo al cuore, troppo scafato per ritenerla preferibile alla bellezza terrena.
La bellezza dell'Arte, quella con l'A maiuscola. Sa che i suoi occhi
non potranno più bearsi delle fastose carni crude
di Rubens o godere della lettura di quella Bibbia
stampata da tal Gutenberg a Magonza intorno
all'anno 1455 dall'Incarnazione, monumento
tipografico che gli storici chiameranno anche
Bibbia delle 42 righe o, dal di lui nome, Bibbia
Mazarina. Sa tutto questo, forse sa anche che nella
Chronica
stampata a Milano da Antonio Zarotto
nel 1492 Donato Bossi scrive per il 1457: "Hoc
anno salutifera doctrinarum omnium imprimendorum librorum ars, auctore Ioanne
Gutenberg germano reperta est." Sa tutto questo e corre angosciato le sale,
quasi ad accumulare negli occhi della memoria tutta quella bellezza.
Ante mortem. "Dovremo lasciare tutto questo!"
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