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| << | < | > | >> |IndiceNota 5 1. Era il 7 marzo 7 2. Tanti soldi tutti insieme 13 3. L'esplosione fu assordante 19 4. «Son las seis» 21 5. Alvise torreggiava accanto al mio letto 25 6. «C'è una visita per lei» 33 7. Mi ero fatto portare il mio computer 39 8. I giorni passavano monotoni 45 9. "Finalmente una faccia amica" 49 10. «Mi trema tutto il pizzo della camicia» 53 11. L'ingessatura della mia spalla pesava di sicuro meno di cento chili 61 12. Non potevo guidare 67 13. «E morto sul colpo e non l'abbiamo identificato» 73 14. Doveva essere contento il dottor Pacciughi 77 15. Ho deciso di uccidere Silvio Berlusconi 83 16. Il braccio sinistro pendeva al mio fianco 87 17. Al centro della busta c'era un simbolo dorato in rilievo 91 18. Avevo fatto male i conti 99 19. Era una improvvisatrice la nobildonna irlandese Violet Gibson 109 20. Sentivo odore di letame equino 113 21. Non ho niente contro le donne bellissime 121 22. Ho formulato un piano d'azione 127 23. Eravamo una strana coppia 129 24. Era un incartamento odioso e deprimente 135 25. Averlo nel mirino telescopico 143 26. Per me è come una droga 149 27. «I am a stranger here myself» 163 28. «I bagged one! Ne ho beccato uno!» 165 29. "Fu come se il cielo avesse baciato la terra" 169 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Era il 7 marzo. Appena sveglio aprii la finestra. Non faceva più freddo. Il sole già scaldava. Feci il conto: erano passati settantasei giorni dal solstizio d'inverno. Due mesi e mezzo. Dunque la radiazione solare era intensa come ai primi di ottobre. Un mese dopo sarebbe stata come quella di settembre e sarei andato a nuotare. Poi mi ricordai del salice piangente, e guardai giù. Era l'unico albero nel giardinetto del mio vecchio zio, Alvise Borromeo, al primo piano. Lui stesso mi aveva ricordato la data un paio di mesi prima: «Jack, sono trent'anni da quando lasciasti l'Italia per l'America. Eri un ragazzo. Ricordi? Mi venisti a dire addio. Guardasti il salice. Dicesti: "Sta mettendo le prime foglie. Chissà se tutti gli anni succede il 7 marzo." Da allora ci faccio caso ogni anno. Al massimo sgarra di sei giorni. Vediamo che fa quest'anno.» OK. Era in orario. Il giorno prima si intravedevano solo gemme. Oggi erano foglioline di almeno due centimetri. Sorrisi. Andava tutto bene – quasi. Da nove anni fatico a rispondere «Bene», se mi chiedono. «Come va?» Nove anni fa cadde un aereo di linea – il solo in Europa nell'arco di dodici mesi. Morirono tutti i passeggeri. Erano fra loro mia moglie Fiorella e mio figlio Vittorio di sei anni. Avrebbero dovuto raggiungermi a Barcellona. Avevo appena completato una consulenza informatica per una banca catalana e dovevamo andare in vacanza in Costa Brava. Da allora non vado più in vacanza. Lavoro sempre. Non ne traggo piacere. Ho smesso di dirigere centri di calcolo elettronico. Faccio il promotore finanziario. Guadagno bene, ma dei soldi non so che farmene. La mia droga è concludere con successo le imprese che comincio. Dopo la disgrazia, tornai ad abitare nel mio attichetto a via dei Battilori 4. Lo zio Alvise sta al piano terreno dello stesso stabile. Lui è il fratello di mia madre. È un colonnello di artiglieria in pensione. Combatté in Marmarica, ma non parla mai della guerra. Ha letto ogni sorta di libri. Da anni sostiene di stare scrivendo un manuale di galateo. Se è vero, sarà un libro divertente. Lui è pieno di storie curiose e di fisime paradossali. Una volta mi raccontò: «Anni fa stavo al bar dell'Hotel Principi di Savoia a Torino. A pochi metri da me un uomo inciampò, e gridò: "Porca madonna!" Mi avvicinai e lo schiaffeggiai. Dissi: "Non sono religioso, ma sono sicuro che la Madonna era una signora. Non ammetto che si offendano le signore. La sfido a duello."» Chiesi: «E lo faceste il duello?» «Certamente. Quel tanghero scelse la spada. Quasi gli staccai un orecchio.» Alvise ha una sua vita sociale che non mi coinvolge. Credo che frequenti gente titolata. Non cita nomi — e non li fa cadere dall'alto. Non mi chiede mai della mia vita privata. Talora gli racconto aneddoti gustosi, senza dire a chi sono capitati. Ceniamo insieme un paio di volte la settimana. Discutiamo le strategie dei conflitti in corso. Dibattiamo misure per combattere il terrorismo. Ragioniamo su dove disporremmo bazooka e mortai per difendere Castel Sant'Angelo, tante volte arrivassero i lanzichenecchi. Qualche volta penso che siamo già stati invasi da armigeri barbari. Però non ci abbiamo fatto caso. E ora è tardi per asserragliarsi in un castello. Con Alvise giochiamo a scacchi e, se non ho bevuto, lo batto quasi sempre. È un amico, anche se è un po' strano. Di qualunque cosa si parli, tira fuori una citazione appropriata, di cui ha dimenticato l'autore. Sto bene con lui. È un indizio di quanto io sia solo e scontroso. Tempo fa gli chiesi: «Non sarà che abiti qui soprattutto per consolarmi e tenermi su?» Rispose:
«Ma che dici? Io sono un vecchiaccio maledetto. Che bene vuoi che ti faccia?
Sei tu che tieni su me.»
Andai a farmi la barba. Ho messo un televisore nel corridoio davanti alla porta del bagno. Così mentre mi rado, vedo il TG nello specchio. Però non c'erano notizie su nessun canale. Lasciai accesa la TV su Rete 4. C'era una conferenza stampa di Berlusconi. Avevo sentito che si contraddiceva spesso. Qualcuno mi aveva detto che negava di aver detto parole che aveva appena pronunciato. Non cambiai canale. Un giornalista gli chiese: «Conferma la sua opinione, espressa in passato, che molte parti della Costituzione della Repubblica Italiana sono di ispirazione sovietica?» Lui negò. «Mi hanno frainteso. E lo hanno fatto in modo premeditato.» Poi aggiunse: «Certo anche il primo Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, scriveva da sovversivo. Propose di abolire i prefetti. Per lui erano longa manus dell'autocrazia e dello stato di polizia.» Subito un altro giornalista chiese: «Possiamo citarla, Presidente? Secondo lei Luigi Einaudi, il grande liberale, era un sovversivo!» E lui subito: «Ecco! Vedete che siete in malafede? Non ho detto "sovversivo". Ho detto "eversore". Avrei potuto dire "riformatore"!» Sembrava che i miei informatori avessero ragione. | << | < | > | >> |Pagina 19L'esplosione fu assordante. La grossa auto nera era ferma. Aveva tamponato un camioncino. Subito dopo doveva essere esplosa una granata. Il cofano fumava e si era abbassato di un palmo. Dalle altre auto saltarono giù quattro uomini armati, ma crollarono al suolo falciati da raffiche di mitra. Erano in due a sparare — uno col Kalashnikov e uno con la pistola automatica. Avevano la testa avvolta in passamontagna grigi. Dalle auto di scorta avevano sparato pochi colpi – e avevano smesso subito. Quello col mitra diresse il fuoco sulla prima auto. La carrozzeria faceva scintille, ma non si bucava. I vetri si riempivano di venature. Sembravano porcellane craquelé, ma non si spaccavano. Pensai che avrei dovuto gettarmi a terra. Però era passato il momento. Non sparavano mica a me. La situazione non mi riguardava davvero – e io disapprovo la violenza. Ricordo di aver mormorato: «Disapprovare — un cazzo. Qua bisogna resistere, resistere, resistere.» Afferrai una mezza dozzina di lastre di marmo e corsi avanti piegato in due. Quando ero dietro la seconda macchina di scorta, mi drizzai. L'attentatore più vicino a me era quello con la pistola. Lo vidi sparare lentamente tre colpi. Mirava con cura. Teneva l'arma con due mani. Si avvicinò di un passo all'auto e sparò ancora sulla maniglia della portiera. Era concentrato. Mi avvicinai a pochi passi da lui. Presi la mira. Poi lanciai con forza tre lastre di marmo come se fossero coltelli. Ruotavano veloci intorno al baricentro. Le prime due lo colsero in faccia. Mollò a terra la pistola. Si stava portando le mani al volto. Il terzo pezzo di marmo lo colpì alla mano che sussultò. Mi buttai a terra e afferrai l'arma caduta. Era pesante. Doveva essere una 45 o una calibro 9. La sollevai tenendola con due mani. Mirai al torace del terrorista col mitra e feci partire due colpi. Mentre sentivo il contraccolpo nelle mani, vidi la testa del terrorista che esplodeva in una nuvola rossa. Mi girai e sparai in una gamba a quello che avevo disarmato. Lui si copriva ancora la faccia con le mani. La pistola era restata aperta col canotto tutto indietro. Niente più colpi. Ma ormai non mi servivano più. Vidi un carabiniere che correva verso di me. Imbracciava un mitra corto. Gridai: «Fermo! Io non sono uno di loro! Ne ho fatto secco uno e poi non ho più colpi.» Lasciai cadere a terra la pistola. Il carabiniere, dopo tutto, non ce l'aveva con me. Guardava qualcuno alle mie spalle. Sentii una raffica. La giacca blu del carabiniere si riempì di sangue. Io sentii un dolore orrendo alla spalla sinistra. Mi voltai. Ce n'erano altri due in moto. Uno buttò a terra un mitra e filarono via rombando. Scivolai a terra. Il mio campo visivo diventò tutto nero. | << | < | > | >> |Pagina 83Ho deciso di uccidere Silvio Berlusconi. Non sono un terrorista. Non sono un sicario prezzolato. Non sono comunista, né ulivista. Sono parole brutte e spero che non restino nel vocabolario italiano. Ne faccio una questione di gusto, di morale e di fair play. Da quando i ministeri sono occupati da imputati latitanti, sento il disagio di vivere in questo paese. Mi sento proprio uno straniero. Mi sento esiliato, senza aver mosso un passo sulla via dell'esilio. Settanta anni fa era capo del governo Benito Mussolini. Era un tragico pagliaccio. Anche lui di pessimo gusto: mieteva il grano a torso nudo. Fingeva di pilotare aeroplani. Diceva: "Dio stramaledica gli inglesi." Proclamava: VINCERE — E VINCEREMO e, invece, perdeva. Ma non cantava canzonette e non dedicava la maggior parte delle sue energie ad ammassare una fortuna personale smisurata. Non stava in affari a titolo personale. Abitava a Villa Torlonia e aveva l'ufficio a Palazzo Venezia, ma stava in affitto. Silvio Berlusconi, invece, vuole sempre di più – come Tommaso III Conte di Saluzzo che allargava i suoi territori e aveva per motto Noch! – Ancora! Nella mia famiglia si ripeteva spesso che certe cose non si fanno perché non stanno bene. Quando ne facevo qualcuna, venivo punito. Le punizioni non erano tanto severe perché, dopo tutto, mi comportavo abbastanza bene. Silvio Berlusconi, invece, si comporta male. Fa troppe cose che non stanno bene. E ora che venga punito severamente. Così anche altri capiranno che non conviene comportarsi troppo male. Se uno si arricchisce indebitamente, rovina il Paese, dice menzogne continue, potrebbe ancora essere tollerato, non apprezzato, se dimostrasse immaginazione, eleganza nel coraggio, humour. Berlusconi non ha referenti per queste parole. È meschino, codardo, di pessimo gusto. Manca di stile. Non ho mai amato gli avvocati – e ne ho incontrati tanti nella mia vita. Ora sono moralmente sicuro che gli avvocati e certi giudici hanno imbrogliato le carte. Il Berlusconi generalizzato in oggetto ha rimandato e frenato i suoi processi. Ha accettato di non essere giudicato per decorrenza dei termini. Nessuna persona vagamente onesta farebbe una cosa simile. Se mi accusassero di furto, di corruzione, di peculato o di pedofilia, non cercherei di mandare il processo per le lunghe. Se il procedimento dovesse subire rinvii ripetuti fino a far trascorrere i termini statutari, rifiuterei ogni conseguente annullamento delle accuse. Insisterei per andare fino in fondo sicuro di dimostrare l'infondatezza delle accuse. Chi non si comporta così, aggiunge colpe a colpe. Se il sistema giudiziario è troppo burocratico o, peggio, è tenero con certi potenti perché accetta le loro regalie, i buoni cittadini devono prendere la responsabilità di raddrizzare il diritto che è stato deformato. La mia motivazione, dunque, è cominciata con semplici considerazioni di buon gusto, ma si è sviluppata fino a configurare il compimento di un atto di alto valore morale e sociale. Pare che non ci sia nessuno che senta questo imperativo categorico, ma io lo sento. Intendo progettare questa uccisione in modo prudente e oculato. Dovrò studiarla bene. Cercherò di mantenere l'anonimato e di restare in libertà. Se non mi riuscisse, non temo il carcere. Avrei tanto da fare in prigione: non ho letto mai "Anna Karenina" di Tolstoj, né "I Miserabili" di Victor Hugo. Sarebbe una buona occasione. Forse, poi, la durata della mia vita potrebbe essere più breve della eventuale pena detentiva che mi infliggerebbero. Un medico mi ha già fatto sorgere qualche ragionevole dubbio in questa direzione. Infine pochi mi disapproverebbero. Non mi attendo di essere portato in trionfo. Però anche Tommaso d'Aquino sosteneva che l'uccisione del tiranno non è peccato.
Infine, l'ipotesi di finire in carcere ha almeno un lato
buono. Mi considero romano, dopo tanti anni che vivo in
questa città, e ho sentito molte volte stornellatori d'osteria,
che ai tempi antichi si chiamavano "sminfaroli", ripetere che
... drinto Regina Coeli c'è no scalino chi nun salisce quello nun è romano.
Sarebbe dunque un modo di prendere la cittadinanza onoraria della Capitale.
Se il soggiorno in carcere (credo che oggi taluno dica "ar gabbio") fosse molto
spiacevole, potrei continuare lo stornello:
... drinto a Regina Coeli c'è 'na campana pozzi mori' ammazzato chi la sona! | << | < | > | >> |Pagina 95Stavo per offrirgli da bere. Non ci riuscii. Partì con una lunga tirata, quasi mormorando.«Forse abbiamo torto. Non è facile immaginare che cosa altro potremmo fare... eppure... eppure dà molta noia assistere a questi disastri. Come è potuto succedere? Ci siamo scivolati dentro. Hai letto, poi, quel libro di Paul Krugman che ti avevo dato? Ci parlavo recentemente con Paul e ha confermato quel che pensavo. Il suo titolo lo intende come falling apart, cadere a pezzi. Dovremmo dire "sfascio". Lui è molto dettagliato, ma mette in luce questo predicamento...» Esitò. «No: predicament non si può tradurre letteralmente. Mi hai capito, no? Mette in luce questa falsità globale che pervade l'Occidente e l'Oriente. Tutto. Il potere sovietico così pieno di sbagli e di terrore si è sfaldato e non ha fatto posto a una democrazia jeffersoniana. No. Abbiamo i fondamentalismi religiosi. Aggraviamo il predominio dei ricchi sui poveri. Bush continua ad abbassare le imposte dirette e i poveri diventano più poveri. Fra qualche tempo verrà qualcun altro che dirà: "Unitevi! Non avete da perdere che le vostre catene. E cercano di tenervi buoni con la religione."» Sospirò e mi chiese da bere. Tirai fuori il Glennfiddich. L'ultima volta lo avevo bevuto con Mila Manara. Alistair lo sorseggiava con evidente piacere. Senza commenti. Riprese il suo filo. «Anche il povero Clinton era religioso, ma non arrivava a questi picchi di ipocrisia o di cretineria. E hanno i loro sciocchi roadmap per fare guerre. Le hanno decise anni fa e non le sanno nemmeno fare. E lo sciocco Blair approva scioccamente. Mi viene da dire che l'Italia è fortunata ad avere solo Berlusconi con la sua sciocca Forzitalia. Almeno Berlusconi non ha le bombe atomiche. Ti pare poco?» Bevemmo un altro paio di whisky in silenzio. Non avevo nessuna risposta da dargli. Era lui l'esperto di politica e di economia. Guardò il soffitto con i suoi occhi blu che sembravano di porcellana. «Che fare?» Sorrise. «Era il titolo di un opuscolo di Lenin, del 1902 mi pare. E che ha fatto anche lui? A horrible mess, un casino orribile. E in che cosa possiamo sperare? Non in un sollevamento popolare. Vedi che continuano a votarli. E per chi potrebbero votare? Non c'è nessun altro. Qualcuno mi diceva la battuta: "Ti rendi conto che la metà della popolazione ha un'intelligenza inferiore alla media?" È una stupidaggine anche questa perché la circostanza dipende dal modo in cui definisci e misuri l'intelligenza. Ma c'è da essere disperati. I leader sono malevoli e non sanno distinguere il loro stesso buco del culo da un buco per terra. Il pubblico pare tutto teso a contraddire Lincoln. Lui diceva che si può prendere in giro una parte del pubblico per tutto il tempo e tutto il pubblico per un po' di tempo, ma non tutto il pubblico per tutto il tempo.» Interloquii. «Ho comprato in edicola una videocassetta di discorsi di Mussolini. Mi ha fatto un effetto tremendo. Era buffo. Si agitava come un burattino. Pronunciava violentemente banalità totali. E lo applaudivano in modo istantaneo e spasmodico. Vuoi vederla?» Fece un gesto vago. Non mi ascoltava – perso dietro alle sue tristi politologie. Si avviò alla porta. Mi aveva dato parecchio da pensare. Prima di uscire mi disse: «Anche in Italia le cose non vanno bene. Poco studio, poca innovazione e – dopo tutto – le bombe atomiche ci sono anche qui e sono in mano agli americani.» Mentre cominciava a scendere le scale, aggiunse: «Take care.»
Non vuol dire davvero "abbi cura di te stesso". Si dice
come diremmo "ciao".
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