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| << | < | > | >> |IndiceIX Introduzione 1 1. La periferia risarcita. Dall'età costituzionale asburgica alla seconda guerra mondiale (1868-1941) 1.1 La democrazia bloccata e il conflitto nazionale 10 1.2 La perdita del centro e l'irredentismo 19 1.3 La redenzione come controllo dell'antistato 29 1.4 Il fascismo e l'italianità sicura 35 2. La nemesi. Dallo scoppio della guerra al ritorno dell'Italia a Trieste (1941-1954 ) 2.1 Il ritorno dell'antistato 41 2.2 Il nazismo contro il comunismo e la terra di nessuno 52 2.3 Il subentro del comunismo al nazismo 57 2.4 Il comunismo contro la democrazia 67 2.5 Lo stato assente 71 2.6 Il ritorno dell'irredentismo 79 2.7 L'eredità del GMA: le anomalie triestine 89 3. Risarcimento e Schuldfrage. Dal memorandum di Londra alla protesta contro il trattato di Osimo (1954-1978) 3.1 Le anomalie corrette 101 3.2 I valori conciliati: nazione, democrazia, sicurezza 112 3.3 L'antifascismo e la fine illusoria del dopoguerra 119 3.4 La Schuldfrage e la ripulsa dello stato 129 4. Risarcimento e mito. Dalla città ribelle alla città risorsa (1978-2000) 4.1 La protesta e il suo contenimento 137 4.2 Il risarcimento 143 4.3 Il mito della città risorsa e le sue ricadute politiche 159 Nota bibliografica 176 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina IXIntroduzionePiù di trent'anni fa, per la precisione nel cinquantesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale e della congiunzione di Trieste all'Italia, venne pubblicata un'agile sintesi della storia recente della città. Era opera di Manlio Cecovini, che qualche anno dopo sarebbe figurato tra i fondatori di una nuova formazione politica autonomista, la Lista per Trieste, per poi divenire sindaco. Il suo sottotitolo - Discorso di un triestino agli italiani - era indice di una lodevole intenzione, perché nella coscienza nazionale italiana Trieste si è vista riservare un'attenzione saltuaria, provocata da scoppi di emotività, ma è stata per lo più un oggetto misterioso. In quell'occasione essa venne presentata come la città patriottica per antonomasia: una definizione che, in un paese piuttosto sordo al valore di patria, qual era l'Italia del 1968, ne faceva qualcosa di anacronistico. Una quindicina di anni dopo, Angelo Ara e Claudio Magris provarono a far uscire la società triestina da quel porto delle nebbie entro il quale stava nascosta. In questo caso la si volle definire come l'indefinibile: una realtà che sta sulla frontiera, su una frontiera mobile dal punto di vista materiale e immateriale, per cui le viene alle volte aggiunto, ma più spesso tolto, qualcosa. È e non è, diventa inafferrabile; da qui la sua unicità, la sua tensione pressoché permanente, se vogliamo, il suo fascino. A questa immagine accattivante, che fra l'altro ha alimentato l'autoreferenzialità triestina, è sicuramente arrisa maggior fortuna, non fosse altro per il fatto che in via generale l'unico tende ad attrarre più del ripetitivo. In tempi più recenti, tale unicità ha trovato nuova linfa nel discorso sulla multiculturalità, per cui Trieste è stata presentata come città multietnica e multireligiosa, quasi un laboratorio dove imparare a vincere in maniera costruttiva le intolleranze e le incomunicabilità proprie del tempo presente. Parallelamente, nell'ultimo decennio le vicende di Trieste e del confine orientale - o meglio, alcune vicende del passato: soprattutto le foibe e l'esodo dall'Istria, ma non solo - non sono state risparmiate dal dilagante abuso pubblico della storia alimentato dal cosiddetto "revisionismo storiografico". In realtà l'abuso non è dovuto tanto alla revisione critica del giudizio sul passato, che è in effetti sostanza dell'attività storiografica e più in generale pregio della cultura occidentale. Esso nasce piuttosto dallo stile dei revisori, di quella nuova categoria emergente all'interno della professione di storico, cioè quegli storici che, per poter salire essi stessi sul palcoscenico mediatico, strizzano l'occhio a chi anima il dibattito storico-politico (ma sarebbe meglio dire semplicemente politico). Ciò ha portato a privilegiare largamente quelle vicende e interpretazioni del passato triestino immediatamente collocabili e spendibili nel dibattito politico nazionale in quanto permettono di evocare immediatamente ciò di cui esso ha costante bisogno: i simboli, positivi o negativi, atti a indicare rispettivamente dove sta il bene o il male, il giusto o l'ingiusto. In generale l'immagine di Trieste che ne risulta è quella di una società nella quale gli estremi tipici del Novecento (prendendo a prestito il titolo inglese di un fortunato saggio di Eric Hobsbawm) sono stati tali più che altrove e hanno prodotto una lunga scia che da ultimo si allarga dal contesto locale a quello nazionale. Ne è segno il confronto pubblico sulle vicende salienti del recente passato tenutosi a Trieste nel 1998 fra l'allora presidente della Camera dei deputati, il democratico di sinistra Luciano Violante, e Gianfranco Fini, segretario di Alleanza nazionale, confronto che ha avuto un'eco notevole sulla stampa italiana, producendo ulteriori manifestazioni di interesse. Ma il fatto che il recente passato triestino diventi tema di consumo politico nazionale, dopo esserlo stato a lungo in sede locale, ha reso più fitta la nebbia nella quale già era avvolto, complice anche un moralismo di maniera nonché le cosiddette "politiche della memoria", che agiscono entrambi da surrogati dell'analisi storica, ovvero della consapevolezza critica del passato. È invece la storia che deve fornire alla memoria un quadro entro il quale ogni particolare passato (custodito dalla memoria individuale o di gruppo) possa riconoscersi senza pretese di esclusività accanto a quello dell'altro (o degli altri); ed è ciò che mi accingo a fare. Anche questo libro potrebbe avere come sottotitolo "discorso di un triestino agli italiani". In quanto tale, esso non può non misurarsi con le interpretazioni che si sono date del Novecento triestino (e di quello italiano ed europeo), un secolo che qui non è stato affatto breve perché è iniziato negli ultimi decenni dell'Ottocento e forse solo oggi si può ritenere concluso. Queste interpretazioni, sulle quali mi soffermerò più ampiamente nella nota bibliografica, vengono di solito definite storiografia nazionalista e storiografia antifascista, e hanno una versione sia italiana sia slovena. L'una e l'altra hanno ricostruito il passato facendo frequente ricorso, a seconda delle circostanze esaminate, a due paradigmi: la necessità ("non poteva che andare così") o la possibilità ("sarebbe potuta andare diversamente"). A ben vedere sono due paradigmi che debbono la loro fortuna al fatto di essere, per così dire, tranquillizzanti sia per i vincitori sia per i vinti, due gruppi che si trovano spesso nella storia triestina. Chi ha operato nell'ambito della necessità come chi ha agito nella sfera della possibilità alla fine viene sempre assolto. Entrambe queste correnti storiografiche presentano un ulteriore limite: hanno voluto chiudere la storia di questa società di confine entro una cornice di storia nazionale e vedere finalisticamente il motore della storia nelle ideologie. Ma queste non sono in grado di produrre da sole martiri o eroi, non sono di per sé fonte di tragedie o apoteosi; per diventarlo hanno bisogno di qualcosa che le sostenga materialmente, nel senso più pieno del termine: lo stato. È questo il punto di riferimento per eccellenza nella società triestina, società che non ha mai smesso di cercare lo stato, che ha avuto e ha bisogno, alle volte un bisogno ossessivo, di sentirlo fisicamente vicino. Tutto ciò che rappresenta lo stato a livello simbolico (bandiere, parate, ricorrenze, riti) a Trieste è di casa. Il bisogno poi acuisce a sua volta una sensibilità: è una società che sta perennemente all'erta, pronta a cogliere al suo interno chi agisce nella veste e con la finalità dell'antistato. Entro una cornice del genere trova spazio anche il comunismo triestino, componente nella quale si è soliti riconoscere una tradizione internazionalista, eredità del socialismo austromarxista. Internazionalismo infatti vuol dire prima di tutto estraneità rispetto al bisogno di stato e, parallelamente, predisposizione ad agire da antistato. Il resto viene dopo: legami di ferro o solidarietà ideologiche che dir si voglia. Da che cosa nasce il bisogno di stato? Per spiegarlo va recuperato un concetto proposto da colui che più ha contribuito a spostare l'asse della riflessione storiografica al di fuori delle cornici proposte dalla storiografia nazionalista e da quella antifascista, Elio Apih. Il concetto è l'insularità. Trieste dunque è stata - ed è - una periferia e la sopravvivenza delle periferie dipende dal rapporto con un centro. È ciò che negli ultimi decenni dell'Ottocento fa rapidamente virare il nazionalismo in irredentismo, inteso come ricerca di una condizione di sicurezza che solo il centro, ovvero lo stato nazionale, può offrire. Ciò produce altrettanto immediatamente un corto circuito con l'altro processo in atto, la modernizzazione della società. È qui che si apre il lungo Novecento triestino, con le sue anomalie rispetto al Novecento italiano. Eppure per gran parte di questo secolo la sicurezza è più un'aspirazione o una condizione momentanea che una realtà duratura, per cui assai più spesso è presente il suo opposto, l'insicurezza. Modificare la condizione di insicurezza diventa allora il problema dominante, fatto che farà convogliare su questa società le grandi forze del Novecento europeo. In particolare nell'ultimo cinquantennio l'antidoto all'insicurezza sarà un bisogno di risarcimento, carattere specifico del rapporto che la periferia intrattiene con il centro. Ma la soluzione più efficace (sebbene graduale) del problema sarà un'altra: ricomporre quanto all'inizio si è diviso, nazione e democrazia. Non pretendo in alcun modo di essere riuscito a definire in tutti i suoi particolari l'architettura di una società e come essa si sia modificata nel corso del tempo. Ma se sono riuscito a far vedere un basamento, qualche pilastro, qualche architrave, certe ristrutturazioni anche, alcune fatte a regola d'arte altre con imperizia e causa perciò di successive incrinature e crolli, ritengo di avere fatto abbastanza. Di più allo storico mi pare non si possa chiedere, soprattutto se si ferma, come in questo caso, alle soglie dell'oggi. Un'ultima notazione, che è un po' cenno autobiografico e un po' istruzione per l'uso di questo libro. A Trieste, forse più che altrove, l'intellettuale, e lo storico in particolare, si è presentato non di rado nella veste del militante, una veste per i più comoda, perché conferisce immediatamente un senso di appartenenza. Oggi la figura dell'intellettuale militante, o organico che dir si voglia, mi sembra desueta, mentre è più facile incontrare, come ho illustrato in precedenza, l'intellettuale che strizza l'occhio ai politici. A mio modo di vedere l'unica condizione possibile per l'intellettuale è ben diversa, a Trieste come altrove: l'essere un maverick, espressione gergale americana per indicare il bestiame che pascola fuori dal branco; ovviamente del pascolo ha bisogno, ma va a cercarselo da solo senza affidarsi a un capobranco e trovandosi alle volte anche nella necessità di compiere percorsi difficili. Ma non dicevano i filosofi antichi che il saggio è uno che cammina sui crinali? Ebbene, non pretendo che questa sia l'opera di un saggio, basta che sia il libro di un maverick. | << | < | > | >> |Pagina 1434.3 Il mito della città risorsa e le sue ricadute politichePer quanto riguarda l'intervento dello stato, vi è un altro aspetto ancora più importante: si sta aprendo un vaso di Pandora, dal quale sortiranno a grappolo miti e antimiti destinati a depositarsi nella mentalità collettiva. In effetti gli anni ottanta sono i più mitopoietici della storia contemporanea triestina e il decennio successivo, anche se per altre ragioni, non sarà molto diverso. L'attività mitopoietica, presente da lunga data a Trieste, in questo momento rinasce dal modo in cui si interpreta a Trieste l'intervento dello stato. Come si è visto, esso è semplicemente la parte essenziale della politica di contenimento nei confronti della LPT, una prassi di recupero del consenso per così dire normale nell'Italia degli anni ottanta. A Trieste, invece, ciò viene interpretato in base a una sensibilità di lungo periodo, vale a dire come esempio di un rapporto fra centro e periferia incrinatosi in seguito al trattato di Osimo e che ora si vuol ricostruire. L'intervento economico dello stato diventa così l'indice del risarcimento nei confronti della periferia tout court. È un'idea presente in larga parte del panorama politico triestino. Se per la LPT nasce dalla continuazione della protesta contro il trattato di Osimo, per la DC ha origine dalla volontà di correggerne alcune clausole. Ma a questa idea non è estraneo neppure il PCI, il quale ha proposto nel marzo 1979 che «alla città sia riconosciuto il carattere di zona emarginata e tale da essere ammessa ai contributi CEE per i programmi di riequilibrio regionale finora assegnati esclusivamente alle zone meridionali». Nel corso degli anni ottanta a questa si aggiungono altre e più autorevoli voci. Nell'ottobre 1984, ricorrendo il trentesimo anniversario del ritorno dell'Italia a Trieste, il presidente del Consiglio Bettino Craxi parla di «ingiusto confine e di angusto territorio» e tocca esplicitamente il tema del risarcimento: «Lo stato è in debito con voi», egli afferma. L'anno dopo, a proposito del pacchetto Trieste, il sindaco democristiano Franco Ricchetti afferma che esso «nasce dal presupposto della mutilazione territoriale di Trieste e Gorizia», e aggiunge che «si è consolidato il dialogo della città con Stato e Regione». Per parte sua "il Piccolo" conferma: ora lo stato ci ascolta, «Roma, la grande accusata, ha riscoperto il nome di Trieste». Città che si aspetta un risarcimento e stato che interviene a risarcire, ovvero periferia e centro che hanno ricostruito un rapporto armonico: ecco dunque la duplice immagine che attecchisce nei partiti, segno che il loro patrimonio culturale si sta deideologizzando. In seguito si aggiunge una terza immagine, che costituirà il mito degli anni novanta: Trieste è una città che, se adeguatamente risarcita, "ha del suo da dare"; in altre parole è una risorsa che può dar frutto, purché inserita in un programma di grande respiro; in definitiva può farsi arbitro del proprio futuro e quindi restituita a una condizione di piena sicurezza. È un destino a lungo inseguito che ora appare in procinto di compiersi. [...] In definitiva il particolarismo politico è ormai un equivoco, e lo è pure il ricorso al mito, grazie al quale si è riverniciato rispetto agli anni settanta: il mito di Trieste risorsa sia nel ruolo di baricentro del contesto mitteleuropeo (soprattutto in seguito al processo di allargamento dell'Unione europea verso l'Est), sia nella sfera culturale (la Trieste multietnica, multireligiosa, "straordinario crogiolo di cultura e storia" e quindi laboratorio di convivenza per il secondo millennio). È evidente che con ciò si sta intercettando il nuovo mito, sparso un po' dovunque a piene mani, della multiculturalità. È pur vero che i miti - spesso nella versione di stereotipi - sono sempre stati di casa nella cultura politica triestina, tanto che oggi, dopo il tramonto delle ideologie, a qualcuno può presentarsi l'idea di trasformarli in loro sostituto. Eppure a lungo andare il mito svolge una funzione ben differente, non diversamente dalle ideologie. Come ha affermato il grande storico inglese Arnold Toynbee - che, per inciso, di Trieste si occupò in tempo di guerra all'interno del Foreign Office - «il mito è uno strano animale, si nutre di se stesso e più divora più si ingigantisce». Alla fine esso impedisce di immaginare il futuro nei suoi contorni reali e toglie ossigeno alla mente. Piano piano, al punto che quando uno se ne accorge è troppo tardi, si trova già in condizioni di asfissia. Non c'è bisogno di inseguire i miti, vecchi o nuovi, perché essi non sono serviti ad altro che a distorcere il senso del percorso compiuto dalla società triestina nel corso del lungo Novecento. Si è trattato di un percorso molto accidentato, cosparso di ostacoli interni ed esterni, segnato di frequente da rallentamenti quando non da retromarce, ma che nel complesso si può definire come un'esperienza di integrazione: prima attraverso la nazione e contro la democrazia (perciò integrazione parziale perché si è accompagnata a esclusione); poi attraverso lo stato (che però da fattore costruttivo è divenuto causa di ulteriori e più laceranti fratture); infine, nell'ultimo mezzo secolo, sia pur con molte anomalie, attraverso la democrazia e il lento riconoscimento che la comune cittadinanza comporta diritti comuni.
Come la politica, che oggi fa innanzitutto leva sull'appartenenza, possa
trovare una relazione costruttiva con la società (che sia pur con difficoltà
integra), non è oggi un problema triestino; nella sostanza interessa tutte le
società occidentali. A Trieste, dunque, non siamo più né diversi né speciali.
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