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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione di Walter Veltroni 13 Prologo — Una città ingovernabile 15 — Monsù Travet, 16 — Gli aiutatori, 19 — Casa e bottega, 20 — I cannoni di monsignore, 22 — Bava d'inferno, 25 — La prima Pasqua laica, 26 — Il prence Augusto, 28 — Orge brecciajuole, 29 — Le bersaglieresse, 30 — Note, 33 35 La presa di Roma nel veridico racconto di Oscaretto er Cerretano — In prima mondiale, 37 — I sorbetti di Pio IX, 38 — L'uva del noviziato dei gesuiti, 39 — Il cannone di Pelloux, 40 — I cannoni di Nino Bixio, 41 — L'entrata, 41 — La bombarda di Cencio Melacotta, 43 — Note, 44 45 Addio alle armi — Un variegato esercito, 47 — I volontari, 49 — I nuovi zuavi, 50 — La Guardia Nobile, 51 — Daje allo zampitto, 52 — Note, 55 57 Il plebiscito — Voti nulli, 59 — Per alzata di cappello, 60 — I cinghiali di Castelporziano, 62 — Il temperamento del generale, 63 — Le formose sorelle, 64 — Note, 67 69 Per il papa o per il re — La grande nobiltà, 71 — La neutralità dei milioni, 72 — Inni, 74 — Le damigelle d'onore, 75 — D'Annunzio bizantino, 79 — Er fiume bojaccia, 79 — Note, 82 83 Il Santo Natale — Arrivato troppo in fretta, 85 — Il pontificale di Sua Santità, 86 — Niente funzioni, 88 — Bianchi e neri, 89 — Spazzacamini, 91 — Il bambino dell'Aracoeli, 94 — La tombola in piazza, 95 — Note, 97 99 I buzzurri — I nuovi abitatori, 101 — Una città da non credere, 104 — I colonizzatori, 106 — Il funzionario regnicolo, 107 — Note, 108 109 Il boom edilizio — I quartieri alti, 111 — Cafoni e buzzurri, 113 — La compravendita, 114 — Spalle al Vaticano, 115 — Lo sciupetto, 117 — Bancarotta, 120 — Note, 121 123 Il sogno di Garibaldi — Due minuti di ritardo, 125 — Una lettera non anonima, 128 — Er fiume bojaccia, 129 — Non si parli male di Garibaldi, 133 — Novecento lire, 134 — Note, 136 137 Quando imbragarono er fiume bojaccia — I muraglioni, 139 — Cartoline postali, 140 — Note, 143 145 La caccia alla volpe Un lieto avvenimento, 147 — La cavalcata della valchiria, 148 — La Madonna del Divino Amore, 150 — High Society, 153 — Coda di volpe, 154 — Note, 156 159 E Gasperone faceva la calzetta — Il lupo di Sonnino, 161 — Il cavalier Trissino, 163 — Una leggiadra giovinetta, 164 — Il lupo baciapile, 167 — Nella pace del Signore, 168 — Cinque vecchierelli, 169 — Sferruzzando, 170 — Note, 171 173 Lutto — La zingara del re, 175 — L'alluvione, 176 — Sangue preziosissimo, 178 — Note, 181 183 1884, il primo Derby Reale — Con 24.000 lire, 185 — L'attaccata del conte Tacchia, 187 — Note, 190 191 La prima festa del lavoro — La cavalleria dell'onorevole Nicotera, 193 — Libero pensiero, 196 — E rivoluzione sia, 198 — Note, 200 201 Tempi moderni: lo sport — Un milione di fucili, 203 — Corali ginniche, 205 — Lezione del ginnasiarca, 208 — Un gatto felineo, 210 — La patente ciclistica, 211 — Le pallottole del lawn-tennis, 213 — Arriva il football, 214 — Note, 215 217 La belle époque de noantri — Café-chantant, 219 — Arrivi da Napoli e provincia, 220 — Arrivi da Monti e Fontana di Trevi, 221 — Osterie sciampantí, 223 — Paradiso di voluttà, 224 — La mossa, 226 — Note, 229 231 Un monumento per Giordano Bruno — Abbrugiato vivo, 233 — Su moriam santa canaglia, 234 — Il naso, 238 — Un concistoro segretissimo, 239 — Note, 240 241 Contessa Lara. Cronaca in rosa e nero — L'odalisca, 243 — Amore e morte, 243 — Le mille e una notte, 246 — Al di là, 246 — Il romanzo di un giovane povero, 248 — Il processo, 250 — Una dignitosa sepoltura, 250 — Note, 251 253 Il secolo nuovo — Quanto sei bella Roma, 255 — Via de Merode, 257 — Arterie, 259 — Note, 261 263 Il Giubileo di Leone XIII — Il papa latinista, 265 — Note, 266 267 Il ballo Excelsior — Capodanno 1900, 269 — Note, 270 271 Fonti iconografiche |
| << | < | > | >> |Pagina 15Una città ingovernabileSi era appena insediato e: «Questa è una città ingovernabile», disse ai suoi della Giunta Provvisoria di Governo della città di Roma il generale Raffaele Cadorna, comandante delle truppe di Sua Maestà il Re d'Italia che l'avevano conquistata. Non se ne faceva un vanto il generale, conquistatore per suo dovere di soldato, ma sotto sotto amareggiato per avere recato offesa al buon Dio, e pure a Papa Pio IX suo vicario in Terra. La Roma del 1870: 226.000 abitanti dell'ultimo censimento, un 100.000 dei quali fino ad allora aveva campato dell'elemosina del papa-re cui si dichiarava incrollabilmente fedele; una spregiosa aristocrazia che, legata al Vaticano, non s'arrischiava ancora a prendere posizione; liberali di vecchia, provata fede; neoliberali di recente, dubbia, chiassosissima fede; liberi pensatori che si atteggiavano a conquistatori di Roma; neogiacobini sempre arrabbiati che maltrattavano tutti i preti, seminaristi e studenti di collegi stranieri in cui gli capitasse di imbattersi.
Tutto era successo in poche ore, dalla breccia di Porta Pia
all'ingresso in Roma del IV Corpo d'Esercito del generale
Cadorna. E andava a incominciare l'anno 1 di Roma capitale, nel tumultuoso
assestamento tra il vecchio e il nuovo.
Monsù Travet I vecchi e i nuovi abitanti di Roma si presero immediatamente in antipatia. Sgherri i romani de Roma, e al tempo stesso devoti di qualche madonna o santo, e soprattutto della mamma; allegroni e lunatici, rugantini e perdigiorno per quanto formali, riservati, abitudinari, seriosi erano quei monsù Travet usciti pari pari dalle pagine di Vittorio Bersezio. E quella loro fissa della puntualità, dell'ordine gerarchico, dei regolamenti, delle precedenze, del patrocinio reale, del lavoro e della ricreazione a cicli fissi, delle strade e dei ragionamenti dritti squadrati. E poi, piemontesi la più parte, parlavano una lingua qui sconosciuta. «Questi pe' fatte: annamo, fanno annuma; / pe' dì che famo dìcheno che fuma; / pe' divve addio dìcheno cerea», poetava Giggi Zanazzo il romano de Roma direttore del Rugantino. E concludeva: «E sò Tajani, dì, 'sti ciafrujoni?». Arrivarono in 15.000 nell'anno uno di Roma capitale: ufficiali del Regio Esercito, cavalleggeri e lancieri dei reggimenti Aosta, Savoia, Novara e Foggia, carabinieri, impiegati dello Stato, alti e meno alti burocrati, banchieri, bancari, capitalisti, ingegneri, imprenditori di opere pubbliche, negozianti, commercianti, speculatori, palazzinari, appaltatori e appaltati, finanziatori e usurai, parlamentari, portaborse, procacciatori e sollecitatori di favori e regalie, raccomandati e raccomandanti, professionisti dell'intermediazione e della tangente, trafficanti, traffichini. Roma conferì a tutti quanti l'appellativo di "buzzurri", come Firenze, la precedente capitale, aveva soprannominato i montanari che in autunno giungevano dalla Svizzera per lo smercio di castagne, castagnaccio, mosciarelle e polenta di farina dolce. C'era, in quell'appellativo, un'intenzione ironica che l'aria da colonizzatori dei buzzurri in qualche modo provocava.
Per i buzzurri, quella Roma sporca, sbracata e chiassosa che
viveva per strada era al di là di ogni immaginazione. Quasi 7.000
religiosi, più della metà uomini, oltre 600 tra chiese e conventi, 4.500 ebrei,
82 palazzi nobiliari, mucchi di ruderi, anticagliari che allo stesso prezzo
mollavano la patacca o il reperto
prezioso, catapecchie affacciate sul Tevere, i monticiani sempre
in guerra contro i trasteverini, orti e vigne nei prati di Castel
Sant'Angelo e di Testaccio, strade ingombre d'immondizie e di
bisogni corporali, osterie a cinque bajocchi la foijetta, il latte di
giornata nella nuova vaccheria di Valentino appena fuori Porta
Pinciana, caprari che facevano il giro quotidiano mungendo la
capra davanti al cliente, cazzeggi, alterchi, madrigali, creature,
cani da spulciare. E ambulanti che, a furia di strilli, imbonivano
la propria merce: ogni possibile merce, dalla cicoria all'acqua del
Tevere, una mano santa contro la risipola e il mal della pietra.
Gli aiutatori Quaranta giorni erano trascorsi da quando «vedemmo questa Città, Sede del Principe degli Apostoli e centro della Cattolica Religione, assediata da migliaia di armati; e, fatta la breccia nelle mura, e gittato per entro alle medesime il terrore di una grandine di proiettili, dovemmo deplorare che venisse espugnata a forza e colle armi...». Settantotto anni aveva Giovanni Maria dei conti Mastai Ferretti papa Pio IX quando, con la prima lettera enciclica di Roma capitale, denunciò i fatti del 20 settembre. Malgrado l'età avanzata, e una salute malferma, Pio IX conservava nobiltà d'aspetto, spirito lucido, corrosivo, e temperamento facile ad accendersi, imprevedibile negli sbalzi d'umore e implacabile nel rispondere ai torti, anche quelli presunti. L'enciclica puniva con la scomunica maggiore «tutti coloro i quali perpetrarono l'invasione, l'usurpazione, l'occupazione su qual si voglia provincia del Nostro dominio, e su questa Alma città, e parimenti i loro mandanti, favoreggiatori, aiutatori, consiglieri, aderenti». I rigoristi della Santa Sede dichiararono aiutatori del Regno d'Italia, e quindi scomunicati, i papalini che si erano messi in affari coi conquistatori di Roma: Guardie Nobili del Papa, Assistenti al soglio, alti esponenti della Famiglia Pontificia, alti prelati. Nell'imminenza della conquista, monsignor de Merode, ex pro-ministro delle Armi e più tardi Elemosiniere Segreto, aveva avuto la preveggenza di acquistare, per quattro bajocchi, la metà del colle Quirinale e i due terzi dell'Esquilino. E li aveva lottizzati, convincendo poi la Commissione edilizia istituita il 30 settembre che proprio i suoi terreni erano i più rispondenti al «progetto di costruzione di nuovi quartieri in quella parte che maggiormente si presta alle nuove edificazioni». Monsignore era stato molto persuasivo con consiglieri e assessori, molto molto persuasivo come, con qualche allusione, altri immobíliaristi meno fortunati mormorarono. Altrettanto abili di monsignore furono le undici famiglie legate al Vaticano che possedevano quasi la metà dei terreni all'interno delle mura aureliane: Torlonía, Borghese, Aldobrandini, Rospigliosi, Grazioli Lante della Rovere, Chigi, Boncompagni, Doria Pamphili, Pallavicini, Sforza Cesarini e Lancellotti. Orti e vigne che prima del Settanta valevano qualche bajocco al metro quadrato salirono in pochi mesi a 10-15 lire, e a 2-300 dieci anni dopo. Nelle ore pomeridiane l'aristocrazia nera si occupava di affari immobiliari: e la mattina dopo "faceva il bucato alla coscienza" rinnovando la propria devozione al papa che s'era rinchiuso in Vaticano. Il principe Aldobrandini mantenne la presidenza del Circolo San Pietro che si batteva per la difesa della Chiesa; don Mario Chigi fondò la "Società Primaria Romana per gli Interessi Cattolici"; in segno di lutto il principe Lancellotti inchiavardò il portone del proprio palazzo; don Marcantonio Borghese si ritirò, sempre in segno di lutto, nella sua villa di Frascati assieme ai figli, a un vescovo e a un arcivescovo che gli facevano da cappellani.
Tutti questi atti di pietà non valevano, secondo i sanfedisti, a
evitare all'aristocrazia affarista la scomunica maggiore. Al di sopra delle
parti, Pasquino sentenziò: «Chigi, Torlonia, Ruspoli e
Cesarini / Colonna, Borghese, Doria e Aldobrandini / la bocca
pe' la Chiesa, er còre pe' li quatrini».
Casa e bottega Il 2 ottobre 1870 Roma fu chiamata a votare il plebiscito: «Vogliamo la nostra unione al Regno d'Italia sotto il governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele II e i suoi successori». Vinse il sì con 40.785 voti contro 465. Ma bisognò attendere ancora prima che il re venisse a Roma. Non fu la ragione di Stato a condurvelo una prima volta, ma una mattana del Tevere, "er fiume bojaccia" che aveva allagato Roma. Il re arrivò il 31 dicembre alle 5 del mattino, fece un giro in carrozza da Trastevere a Monte Mario e ritorno, e alle quattro del pomeriggio ripartì. Annunziò che «per dar tempo alla città di riaversi», un giorno o l'altro sarebbe ritornato, e questa volta per sempre. In sua rappresentanza il re inviò il principe ereditario Umberto accompagnato da Margherita, moglie e cugina di primo grado. Arrivarono alle ore 16 del 23 gennaio 1871. Umberto era stato nominato comandante del I Corpo d'Armata, e come tale veniva a prendere possesso della sua carica e anche del Quirinale che gli sarebbe servito da quartier generale e da abitazione: casa e bottega, come si disse. I circoli liberali e monarchici, gli studenti della Sapienza e del Liceo, la Guardia Nazionale a cavallo e la Roma degli impiccioni e sfaccendati – «Un pugno di popolaccio», li definì il cardinale Antonelli segretario di Stato del papa-re appena deposto – fecero ala al corteo principesco: una pittoresca sfilata di corazzieri e lancieri in divisa di gala, e di staffieri in livrea rossa. Il principe Umberto era scortato dai suoi piemontesi, generaloni e colonnelli dal fiero, superbioso aspetto: così a prima vista non fece grande impressione, «un giovane di modesto aspetto borghese», scrisse il Gregorovius. Piacque invece la principessa «molto simpatica», a detta sempre di Gregorovius. Grevi e grevetti le fecero onore con qualche madrigale un po' sgherro. E madrigali ancora più sgherri complimentarono le dame d'onore che dopotutto erano di casa e c'erano abituate: la principessa di Teano, la principessa Pallavicini, la duchessa di Rignano, la duchessa Sforza-Cesarini, la marchesa Calabrini. Pioveva fitto, e la festeggiata ordinò graziosamente che il tettuccio della carrozza venisse aperto per un autentico bagno. Di pioggia e di folla. Spararono a festa i cannoni della caserma del Macao, come da ordine del generale Lamarmora. E qui scoppiò il primo incidente tra il Regno d'Italia e l'alta prelatura vaticana.
Proprietario della caserma Macao, oltreché delle vigne e degli orti tra
Termini, Quattro Fontane e Porta Pia, era monsignor de Merode.
I cannoni di monsignore Monsignore aveva dichiarato che dalla sua caserma mai si sarebbe cannoneggiato in onore degli usurpatori. Difatti fece immediatamente ricorso al procuratore del re. Il procedimento si trascinò per quattro anni, sempre più stancamente in quanto monsignore era entrato in affari coi cannoneggiatori: e via via delle cannonate abusive non si parlò più. | << | < | > | >> |Pagina 125Due minuti di ritardo«Ormai la difesa è impossibile. Usciamo da Roma con tutti i volontari che vorranno seguirci. Dove noi saìemo, Roma sarà». Così era finita, il 30 giugno 1849, la Repubblica Romana. E, con essa, il sogno di Garibaldi: Roma repubblicana. E adesso, 24 gennaio 1875, il vecchio sogno lo riportava a Roma. Solo che, in quei ventisei anni, l'utopia repubblicana si era spenta. E Garibaldi ritornava da deputato parlamentare nella capitale del Regno d'Italia. «È ritornato a Roma a fare la spesa», commentarono da destra. Dal suo ritiro di Caprera Garibaldi aveva anticipato che avrebbe speso il proprio prestigio e le proprie energie «per portare gran giovamento alla città di Roma»: la sistemazione del Tevere e la bonifica dell'Agro Romano. La Sinistra gli aveva offerto due collegi elettorali, uno proprio al Gianicolo dove, nel '49, aveva combattuto la sua ultima sfortunata battaglia in difesa della Repubblica Romana. E, l'8 novembre del '71, era stato eletto in entrambi i collegi: malgrado la strenua opposizione del ministro Marco Minghetti, e il manifesto di Terenzio Mamiani presidente del Comitato Centrale Elettorale. «L'elezione di Garibaldi a Roma sarebbe un fatto grave», scriveva il Mamiani, «dacché le idee di lui non sono conciliabili con quella reverenza che i clericali intendono di veder professare verso il Pontefice». Effettivamente Garibaldi non era stato, nelle sue più recenti esternazioni, molto riverente. «Il Papato ha fatto il suo tempo». «Eliminazione dell'esercito dei preti nemici dell'Italia e corruttori della pubblica morale». «Giovanni Maria Mastai Ferretti Pio IX cittadino italiano professione vice-Dio». E, «Papa bombardatore di Roma» a proposito della battaglia del Gianicolo che gli tornava sempre alla memoria. Garibaldi aveva preso il traghetto da Caprera assieme al figlio, e arrivò alle 14.48 di domenica 24 gennaio del '75. Il treno da Civitavecchia lamentò due minuti di ritardo, un dettaglio che, in quei tempi di treni che arrivavano in orario, i giornali non omisero di deplorare.
«Il governo sbigottito aveva messo la città quasi in stato d'assedio; e
cercò di nascondere l'ora d'arrivo del treno»: manco
Garibaldi venisse a Roma per una nuova rivoluzione. La Roma
del quieto vivere se ne rimase a casa. La Roma del garibaldinismo si presentò in
massa alla stazione Termini. Il sindaco Pietro
Venturi, che portava in braccio Clelia, la figlioletta di Garibaldi,
deputati d'ogni colore salvo i clericali, società operaie con le rispettive
bandiere rosse, «tutto Trastevere sbucato da' suoi squallidi e popolosi
vicoli», la corale del Regio Liceo Ginnasio Ennio
Quirino Visconti che azzardò una canzonetta di moda:
Il generale esibiva una tenuta molto colorata e molto informale, «un costume strano e teatrale», commentarono a destra: poncho bianco, una camicia rossa manco a dirlo, un fazzoletto scuro di seta al collo, un berretto turchino arabescato d'oro, tale e quale insomma com'era ovunque raffigurato. Quando la ressa si sfoltì, il ritratto gaudioso di Garibaldi si rimpicciolì nella figurina di un vecchierello stanco e malfermo, più vecchio dei suoi vecchissimi 68 anni. «Come a Dio piacque, il Generale poté essere calato giù dal vagone e messo su una poltrona la quale fu trasportata fino alla vettura del Municipio». La dettagliatissima cronaca della Perodi ha tramandato nomi e nomignoli dei compagni di carrozza di Garibaldi: a cassetta Napoleone Parboni e Mario Galliano, e intorno al generale il signor Bedeschini detto Checco er carnacciaro garibaldino della battaglia di Mentana, il signor Belardi detto Giggi er velletrano garibaldino della battaglia di Velletri, e un signor Basso del quale la Perodi non ci dice di più. La vettura municipale si fece strada a fatica per due-trecento metri finché una ventina di giovani ne staccò i cavalli e la trainò fino all'albergo Costanzi in via San Nicola da Tolentino. «Non volendo farsi trainare a quel modo, il Generale scese di carrozza per ristorarsi. Continuando le acclamazioni, fu portato su di una sedia al balcone dove si affacciò e disse...». Disse: «Siate seri, occorrono fatti non parole...», secondo la cronaca della Perodi. Disse: «Romani, siate seri, seri, seri...», secondo la cronaca di Ugo Pesci. Il giorno dopo, alle 2.40 del pomeriggio Garibaldi fece il suo primo ingresso in Parlamento. Nel registro della presenza firmò con nome, cognome e professione, "Giuseppe Garibaldi, generale, agricoltore". Entrò in sala da solo, reggendosi sulle stampelle. Stava parlando il deputato democratico Giuseppe Ferrari, oppositore al governo: ma non riuscì a continuare. La Sinistra si fece incontro a Garibaldi e lo condusse sul banco più alto a sinistra, scranno numero otto; applausi deliranti della Sinistra e tiepidi della Destra; Garibaldi si tolse il berretto arabescato e il presidente della Camera gentilmente gli fece cenno di coprirsi il capo; il presidente lesse la formula del giuramento: «Essendo presente il deputato Garibaldi lo invito a giurare»; i deputati Morelli e Macchi lo aiutarono a tenersi in piedi, anche gli altri deputati tutti in piedi. «Giuro», applausi adesso da destra e da sinistra, commozione delle signore alla visita di Garibaldi barcollante sulle stampelle.
Il giorno dopo, 27 gennaio, Garibaldi incominciò a illustrare
ad alcuni ingegneri del Comune il suo progetto per la sistemazione del Tevere.
Il giorno dopo ne fu distratto da illustri
visitatori, il conte Cencelli di Fabrica di Roma con la deputazione provinciale,
la Giunta Provvisoria di Governo della città
di Roma, il sindaco Venturi, i generali Medici, Dezza e Cosenz
con molti ufficiali della casa militare del re. E il 29 gennaio
Vittorio Emanuele II lo invitò a palazzo.
Una lettera non anonima Garibaldi si fece accompagnare al Quirinale dal figlio Menotti, bastone della sua vecchiaia e della sua gamba offesa ad Aspromonte dalla fucilata di un bersagliere del re. Ventidue minuti di udienza, il dono di un medaglione, niente politica, discorsi garbati ed evasivi, qualche accenno al Tevere e all'Agro Romano da parte di Garibaldi, e la sua richiesta di un intervento sovrano a favore dello scioglimento del suo matrimonio. Un matrimonio datato 1859, ma ancora valido, soprattutto risalente al tempo in cui, invaghitosi della marchesina Giuseppina Raimondi, di trentaquattro anni più giovane di lui e ardente patriota, egli la condusse all'altare; e, terminata la cerimonia, gli piovve chissà come in tasca una lettera autografa della marchesina con una dichiarazione d'amore per un garibaldino suo coetaneo. «Ella non poté negare»: e li sul sagrato della chiesa «Garibaldi la ripudiò». E facevano sedici anni che Garibaldi aspettava l'annullamento di questo matrimonio "rato e non consumato". Esattamente la formula con cui la Sacra Rota sanciva la nullità: ma al Vaticano Garibaldi non aveva entrature né voleva averne. E il re gli disse che non era in suo potere di emanare una legge ad personam. Così trascorsero altri sette anni, venti in tutto, prima che Garibaldi venisse dichiarato celibe. | << | < | > | >> |Pagina 193La cavalleria dell'onorevole NicoteraAprì la polemica l'onorevole Giovanni Nicotera, l'ex garibaldino dell'epopea risorgimentale che adesso, da ministro degli Interni, si era fatto forcaiolo: «Ai rivoltosi userò il riguardo di farli caricare dalla cavalleria, in modo da non esporli troppo da vicino alle baionette della truppa». Appena reduce dal penitenziario di Portolongone dov'era detenuto per una nuova "attività sovversiva", così gli rispose Amilcare Cipriani detto "Il Messia degli anarchici": «Venga pure la cavalleria di questo signor Nicotera, i suoi sbirri, i suoi sgherri: noi faremo inghiottire tanto piombo a chi ci toglie la libertà. Queste sono rodomontare e bravacciate che non meritano che disprezzo da chi non teme la galera, la forca, la fucilazione». Così destra e sinistra si avviarono alla "Prima Festa Sociale Operaia" dell'11 maggio 1891: una festa del lavoro che il governativo L'Illustrazione Italiana presentò per «un esperimento di mobilitazione, un'antiprova generale d'un tentativo di rivolta armata». C'era poco da fare festa a Roma in quegli anni. L'espansione incontrollata, a macchia d'olio, dei nuovi quartieri Esquilino, Prati di Castello, Testaccio e Celio, la distruzione di parchi e ville, lo sbancamento delle rive del Tevere con tutte le sue case e casupole per fare spazio ai muraglioni, insomma la furia edilizia che aveva stravolto la vecchia Roma del papa-re precipitava adesso nella disperazione la nuova Roma capitale del Regno d'Italia. Tra speculazioni azzardate di avventurieri, i "furbetti del quartierino" di quegli anni, fallimenti, false compravendite, mutui bancari, anticipi, pegni, cambiali e pagherò del valore di cartaccia, i soldi erano finiti. Spazzati via. La "mina finanziaria" minacciava banche solidissime; e, con le banche, il generetto e il generone romano, e i forestieri calati in Roma come in terra di conquista, imprenditori improvvisati che avevano rischiato tutti i loro risparmi. Chiusero l'Immobiliare legata alla finanza vaticana, l'Esquilino e la Moroni. Chiusero, nello spazio di venti mesi, 252 cantieri su 340. Chiusero cave e fornaci. Il Cracas-Diario di Roma era diventato il bollettino settimanale dei fallimenti. E delle notizie di attualità sull'occupazione di case non finite: famiglie di operai che si accatastavano nei prati di Castel Sant'Angelo, al colle dell'Esquilino, al "monte dei cocci" di Testaccio, sulla spianata di San Lorenzo, nella campagna fuori Porta Pia, e perfino nell'elegante nuovo quartiere Ludovisi. E due righe di notizia per assalti ai forni, ai cascherini del servizio di pane a domicilio per i signori, alle mense popolari del quartiere operaio in Testaccio, ai due vecchi pulciosi fienili che il Municipio apriva ogni sera a 500 sventurati privi di un qualsiasi posto dove trascorrere la notte. E si avviava alla bancarotta il Comune di Roma. «Il deficit dal Municipio Romano per la restaurazione della Capitale (opera politica e d'interesse nazionale), è per l'anno corrente di sei milioni e mezzo»: una cifra pazzesca, più il catastrofico preventivo di obblighi a breve scadenza. Il 14 marzo 1891 l'onorevole Nicotera dichiarò «essere deciso il Governo a provvedere alla città di Roma maturando una legge». La legge non maturò e «la Giunta Comunale sfiduciata del concorso governativo a restauro delle sue stremate finanze rassegnò le dimissioni». Dal dindarolo comunale, l'ultimo "tesoretto", uscì qualche migliaio di lire per lavori di sterro ai Fori Imperiali, poche lire per pochi operai. Un modello festevole di beneficenza e soccorso adottò il Comitato di Signore presieduto dalla marchesa Gravina, moglie del Prefetto: feste da ballo, spettacoli teatrali. Un altro comitato organizzò una gara nazionale di tiro a segno nello stadio di Tor di Quinto. Le altre notizie del giorno riguardavano «Tremila operai disoccupati che muoiono di fame». «Dal primo gennaio al 31 marzo furono arrestati in Roma 353 mendicanti». Nuovi disoccupati, nuovi mendicanti, nuovi affamati, nuove idee. Nella Roma che, per secoli e secoli, aveva tirato avanti a elemosine e sussidi del papa-re stava maturando una coscienza di classe: la rivolta contro la miseria non più accettata come una calamità naturale. Disoccupati, mendicanti, affamati si radunarono il 19 aprile in piazza Dante. L'anarchico De Santis, trascinante oratore, disse: «Ci è stato negato il diritto all'esistenza per mancanza dolosa di lavoro. Risvegliamoci! È mestieri affrontare impavidi le baionette!». E un altro garantì che «Cipriani non istà colle mani nella cintola»: Amilcare Cipriani di Anzio "il Messia degli anarchici", l'integerrimo che non aveva voluto prestare il prescritto giuramento al re, e aveva rinunciato alla carica di deputato.
«Disoccupazione nel campo operaio», annotò il clerical-monarchico
La Voce di Roma,
denunciando al contempo lo «spirito continuo di ribellione, e pretese di diritti
falsi e fallaci».
Libero pensiero «Nel Calendimaggio 5 o 6.000 operaj tennero comizio in piazza Santa Croce in Gerusalemme: gli anarchici eccitati da un tribuno (Galileo Palla da Aulla), si avventarono contro i carabinieri ed i soldati...». Il Cracas se la sbrigò nelle dieci righe della "Cronaca della Capitale". Molto altro accadde quel primo maggio in una Roma stranamente deserta e silenziosa. Come nell'attesa di qualcosa di terribile nessuno circolava per le strade, nessuna bottega era aperta. Alle 2 del pomeriggio piazza Santa Croce era già gremita. E gremite le terrazze e i balconi delle case circostanti, «enormi colombai entro cui si possono pigiare a centinaia le famiglie povere». Arrivarono in formazione compatta i tre partiti che sostenevano la protesta operaia; tipografi e muratori per i socialisti, artigiani e commercianti per i repubblicani, manodopera non qualificata e manovali per gli anarchici. E i bipartisan della Federazione anarchico-socialista. E i liberi pensatori che, nella giornata di protesta, avevano infilato il loro immutabile messaggio; «È in Roma, in presenza del Vaticano viso a viso del Papato, che il libero pensiero deve ringraziare l'umanità per essersi finalmente liberata dalla servitù sacerdotale». E arrivarono i sovversivi dei circoli Venti Settembre, Circolo Tiburtino, Valzania, Barsanti; e L'Unione Emancipatrice con la bandiera verde e la scritta "Vivere lavorando, morire combattendo"; e i sanlorenzini della Società Anarchico-Rivoluzionaria, del Grido del Popolo, e dell'Agitazione. In panciotto, lobbia o bombetta e bastone da passeggio, come ce li rimandano le foto d'epoca, molti dei comizianti avevano piuttosto un aspetto di borghesucci pacifici. E pacificamente presero a parlare della comune proposta delle otto ore, otto ore lavorative al giorno. Tutto intorno presidiavano la piazza i Granatieri di Sardegna, che proprio lì avevano la loro caserma, i Bersaglieri di San Francesco a Ripa, due squadroni del Foggia Cavalleria e quattro reparti tra carabinieri reali e pubblica sicurezza. E, tra la folla e la truppa, un viavai di limonari, acquacetosari, acquacedrai, grattacheccari, venditori di mostaccioli, nocchie straccaganasse, bruscolini spassatempo e biscotti Ave Roma.
In mezzo alla piazza, con poche assi inchiodate come viene
viene, era stata costruita una tribuna alta due metri da terra.
E rivoluzione sia Il Cipriani venne issato sul palco. Appena uscito dal penitenziario di Portolongone aveva salutato il suo ritorno alla libertà con una proposta: «Occorre sbranare la borghesia». Stavolta, però, fu assai meno leonino: «Oggi siete chiamati a provare alla gente pasciuta quanto siete tolleranti». La piazza non pasciuta ci rimase male. E peggio quando il tipografo Latella invitò i presenti a «tenersi lontani dalla politica»; e infatti il Latella venne zittito. A scaldare l'ambiente provvide il Liverani numero due degli anarchici: «Bisogna fare una guerra al coltello a quelli che ci opprimono». E il Bardi dei giovani anarchici parlò del comune dovere di «spargere il nostro sangue in questo giorno». Un altro anarchico, il Landi, pose alla piazza l'alternativa se cominciare il giorno stesso la rivoluzione, oppure l'indomani, oppure dopodomani. La piazza gridò: «Facciamola subito, subito, subito», il Landi disse «E sia» e si scapicollò giù dal palco. Il delegato di P.S. Marchionni ordinò i tre squilli di tromba per lo scioglimento della riunione, il Foggia Cavalleria rimontò in sella, granatieri e bersaglieri avanzarono verso la folla, dal palco il Cipriani saltò direttamente su un carabiniere ma «egli cede e si contunde alla fronte», un altro carabiniere, un ufficiale, tirò una piattonata di sciabola sulla bombetta dell'onorevole Barzilai repubblicano, la truppa sparò, uscirono fuori le mollette ossia i coltelli a serramanico, dall'alto di balconi e terrazze piovvero sulla truppa pietre, selci e vasi da fiori, cariche del Foggia Cavalleria spazzarono via le barricate alzate in un attimo in via Merulana e via Emanuele Filiberto, l'onorevole Cavallotti socialista raccolse da terra la bombetta dell'onorevole Barzilai. Restarono sul terreno trentasette feriti e due morti, il poliziotto Raco Carmelo per una coltellata alla schiena e una rivolverata in bocca, e il carrettiere Piscitelli Antonio per frattura del cranio. Oltre duecento comizianti vennero arrestati, il Cipriani il giorno seguente nell'abitazione d'un sarto amico suo e, dopo l'inchiesta, il Landi dell'«E sia», incriminato come ispiratore ed iniziatore della sommossa. La Camera si riunì d'urgenza nel tardo pomeriggio, l'onorevole Cavallotti gettò sul tavolo della presidenza la bombetta dell'onorevole Barzilai tutta acciaccata dalla piattonata del carabiniere. La presentò come "sacro deposito e trofeo di eroismo e di martirio", e chiese e ottenne "l'onore di portarsela a casa". Il Circolo Tiburtino dedicò a Piscitelli una lapide, «Alla vittima Antonio Piscitelli che, inoffensivo ed inerme, trovava immeritata morte»: ma il questore cavalier Terzani ordinò che la scritta venisse cancellata. Su quello sventurato primo maggio si commosse il poetico "Doctor Veritas" dell' Illustrazione Italiana, organo della borghesia illuminata e anche di quella oscurantista. «Povero maggio! Gli è stato impedito di profondere baci di luce su tutto il gaietto sciame di belle donne, e sulle nidiate di bambini vispi e leggiadri...». | << | < | > | >> |Pagina 219Café-chantantLa storia romana del Café-chantant ebbe inizio nel settembre del 1886 in via Nazionale angolo via dei Serpenti: nella Birreria Poli, dove graziose chellerine, bavaresi all'anagrafe, alternavano la passata dei boccali di birra con balli e canzonette del pari bavaresi. Al Caffè Torre di Belisario, un capannone a Porta Pinciana, andavano in scena, a trenta centesimi compreso un bicchiere di sciampagna, il cannellino di Frascati e un posto a sedere sulla panca, dodici numeri d'arte varia: "Killy il selvaggio quivi giunto dalle foreste dell'Hiamalya", Caterinella "Cantante italo-napoletana", Succi il digiunatore e il leone di miss Blanc, tutti e due privi di uno occhio forse per simpatia. E, dodicesimo e ultimo numero, l'esordio della sedicenne Natalina Cavalieri, figlia dell'olivaro ambulante di Villa Borghese e venditrice di violette, «Chi lle vò le mie violette?», sulla scalinata di piazza di Spagna. La canzone d'apertura, La stampatora, non soddisfece quel pubblico di caciaroni romaneschi, burini di passaggio in città, vetturini, piazzarole e militari di truppa biglietto a metà prezzo. Piacque molto invece l'altra, Te possino ammazzatte: tanto che, alla questua col piattino di fine spettacolo, la Cavalieri raccattò cinquanta centesimi, dieci in più del suo foglio-paga.
Esattamente un anno dopo, settembre del 1887, venne aperto
in via Due Macelli il Teatro delle Varietà, dove balli e stornelli e
passate di sciampagna venivano offerti da volenterose "canterine" a una
beneducata platea di terziario impiegatizio e bottegai.
Arrivi da Napoli e provincia Nel 1893 l'ormai sbrindellato Teatro delle Varietà fu rilevato da Igino e Carlo Marino proprietari del più famoso café-chantant italiano, il Salone Margherita di Napoli. Al loro nuovo locale dettero, sempre in onore della regina Margherita tanto amata da tutti, lo stesso nome: Salone Margherita. Ci misero dentro orpelli che parevano d'oro zecchino, stucchi, palchetti, tavolini e divanetti rococò, tappeti. E un sipario rosso sul boccascena. Ci misero dentro il vero champagne francese, 12 lire il Monopol e 14 il Moët et Chandon.
Ci misero dentro le
chanteuses,
sciantose come venne più comodo nominarle; tutte, «Songo frangesa e vengo da
Parigge», munite di affascinanti nomi francesi, Lilly Coquette, Mignon
Blondette, Ninì Bijou, Zazà Bonsoir più un fragrante florilegio
di nomi e cognomi: Carmen Fleurblanche, Yvonne de Fleuriel
coi suoi due diamanti a copertura di due molari forse cariati,
Flore Bonnet, Ada Violé, Lucienne Muguet, Nanà Gardénia,
Florette Jasmin. Quasi tutte avevano un repertorio di
couplet
svergognati che ammiccavano a una bomboniera, un cestino,
un paniere – «Uh che paniere, è proprio da vedere, uh che
paniere!» e una
pansé
che ricomparirà poi nel primo avanspettacolo:
Ci misero dentro, i fratelli Marino, tutte le possibili variazioni e specializzazioni, jongleur, uomo cannone, donna cannone, mangiatore di fuoco, equilibristi vuoi antipodi che monopodi, le pétomane, il cascadeur flammatico e il cascadeur acrobata, gommeuse la ballerina che si attorciglia su se stessa, si allunga e si accorcia come un pupazzetto di caucciù, canzonettista generica e canzonettista eccentrica, eccentrica burlesca, romanzista, napoletana verace oppure italo-napoletana, cantante di giacca invariabilmente severo e rigido nel suo rigatino, l' étoile di voce, la chantante-a-voix, la diseuse scarsa di voce che dice i versi più che cantarli.
Ci misero dentro comici provenienti da Napoli e provincia.
Nicola Maldacea inventore della macchietta: il Guappo, il Reduce dalle Patrie
Battaglie, il Tenore di grazia, il Seminarista, la Cocotte Intelligente:
E Peppino Villani con le macchiette della Napoli dei bassi, "Frate Brasciola" e "Zì monaco 'mbriacone". | << | < | > | >> |Pagina 233Abbrugiato vivoAlle 11.20 in punto di domenica 9 giugno 1889, in piazza Campo de' Fiori, il marchese Guiccioli, sindaco di Roma, tirò il velario che nascondeva la statua di Giordano Bruno. E fu questo lo snodo, indiscutibile ma non definitivo, di una contesa iniziata il 4 marzo 1876 quando l'Università di Roma lanciò una sottoscrizione nazionale per l'erezione del monumento, e terminata il 30 giugno del 1889 col Concistoro Segretissimo di papa Leone XIII. Tredici anni di scontri tra la Roma dell'Italietta liberale e la Roma nera, il proseguimento del 20 settembre 1870, il giorno della presa di Roma: «Roma restituita all'Italia», secondo il messaggio di re Vittorio Emanuele II, «L'invasione, l'usurpazione, l'occupazione: ingiusta, violenta, nulla ed irrita», secondo la protesta di papa Pio IX. La sottoscrizione nazionale si era appena aperta, e registrava ottimi incassi, che un autorevole religioso, l'abate Patti Barbier, ne mise in discussione il punto centrale sin lì indiscusso. «Arsione non vi fu», affermò l'abate. «Si vuole resuscitare la vecchia leggenda che il Bruno era stato bruciato sul rogo dell'Inquisizione: leggenda che, agli occhi dei sapienti, non è che pura favola». E non stette a sottilizzare, l'abate negazionista, se la vecchia leggenda contemplasse un'arsione totale oppure parziale, e conseguentemente un decesso oppure una semplice scottatura. Allora i Liberi Pensatori riesumarono dall'archivio di San Giovanni Decollato il documento ufficiale dell'esecuzione, l'"Avviso della Vaticana" in data 19 febbraio 1600: «Giovedì fu abbrugiato vivo in Campo de' Fiori quello scellerato frate domenichino di Nola, heretico obstinatissimo, havendo di suo capriccio formato diversi dogma contro la nostra fede ed in particolare contro la Santissima Vergine ed i Santi, con la lingua in giova spogliato nudo, accompagnato sempre dalla nostra Confraternita cantando le litanie e li conforti, 17 febbraio 1600». Di più dissero la stampa e la cultura di parte cattolica: «laido apostata» e «incoerente professore di vizio in libelli infami» il frate domenicano Giordano Bruno, «laida commedia» la pubblica sottoscrizione, «orgia bruniana» la prossima e ormai inevitabile cerimonia del monumento.
Per il libero pensiero aveva parlato Giordano Bruno in persona, quando, ai
giudici che gli leggevano la sentenza, aveva detto "che moriva martire et
volentieri se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso...".
Su moriam santa canaglia Al primo mattino del 9 giugno, con l'arrivo delle delegazioni, si formò in piazza della Stazione Termini un corteo che poi si avviò verso via Nazionale: forse cinquemila pérsone, forse diecimila, quella vaghezza statistica che ancora oggi si rileva nelle cronache di un Family Day o di un Gay Pride, una parte che conta in grosso e la parte opposta in piccolo. C'erano di sicuro, contate una per una, 86 bande e fanfare che alternavano l'Inno di Mameli, la Marcia Reale e la Marsigliese, e 1.782 bandiere: particolarmente notate quella del Circolo Anticlericale di Genova con l'effigie di Satana, e quella del Circolo Anticlericale di La Spezia sormontata, in cima all'asta, da un diavoletto alato. Ed il bandierone vasto come un lenzuolo con la scritta "Ex Galeotti Politici Pontifici". C'erano, ma poche, bandiere tricolori e quasi nessuna con lo stemma sabaudo. C'era una profusione di fasci, berretti repubblicani, immagini di Mazzini, aquile romane e fiamme rosse. C'era il sindaco di Nola in tuba da beccamorto e palandrana nera come partecipasse a un funerale. E, tutti nella loro festosa camicia rossa, i garibaldini della Repubblica Romana, e garibaldini di più recenti gesta sparsi qua e là nel corteo. C'erano, mescolate con le logge italiane, le "deputazioni di tutte le massonerie del mondo", 60 tra labari, stendardi e bandiere ognuna coi simboli e le insegne della massoneria; compassi, cazzuole, squadre, stiletti, pugnali. E 300 affiliati in abito nero, guanti bianchi e un ramoscello di quercia all'occhiello. C'era la Società Anticlericale Giordano Bruno appena installatasi in Borgo Pio «dove avrà sede finché il Papato avrà la sua nel Vaticano», una vicinanza sancita dal suo statuto. Già teneva sede nel rione il Circolo Donne Anticlericali di Borgo che erano, queste borghigiane anticlericali, le sole a circolare per Roma: le altre, e tutti gli uomini di Borgo Pio, diffidati quel giorno a uscire di casa dal cavaliere Manfroni detto "Cardinal Don Manfronio", er sor delegato del rione. C'erano gli universitari con appuntiti berretti di ogni colore, e gli studenti delle scuole comunali tutti contenti che il ministro dell'istruzione gli avesse concesso giorni tre di vacanza per queste "feste bruniane" del cui significato nessuno della scolaresca sapeva qualcosa. C'erano i "Liberi Pensatori" in cravatta alla Robespierre, e il Circolo Donne Anticlericali di Trastevere, esuberanti e rumorose come chiunque si vantasse di nascita trasteverina e di anticlericalismo. E c'erano gli anarchici del Grido del Popolo e dell'Unione Emancipatrice, gli uni e gli altri forniti di banda e inno sociale: "Vivere lavorando e morire combattendo" quelli dell'Emancipatrice, e "Su moriam, santa canaglia, e inneggiamo all'avvenir", quelli del Grido. Per una completa esecuzione di cori e motti, il corteo ogni tanto s'arrestava: "Viva Giordano Bruno il martire della libertà di pensiero", "Viva Garibaldi", "Viva Mazzini, Garibaldi e il Re", "Abbasso i grassi borghesi", "Viva la rivoluzione sociale", "Viva l'anarchia". E qualche espressione irrispettosa contro il Santo Padre, la religione cattolica, la monarchia, lo statuto. E contro la regina Margherita: la tanto pia, misericordiosa, benefattrice regina alla quale tutt'al più si poteva muovere l'appunto che, sempre grondante di gioielli e collane, pareva la Madonna del Pianto. Tutte le chiese sul passaggio del corteo erano chiuse. Nelle altre chiese il Cardinal Vicario a nome di Sua Santità aveva prescritto, in segno di riparazione, la novena degli apostoli e le litanie dei santi. E tutte chiuse erano le finestre dei cattolici: ma ne trapelava l'illuminazione dell'interno, in segno di protesta oltreché di riparazione. Molti ecclesiastici avevano abbandonato Roma. Per ordine di Sua Santità tutte le porte del Vaticano restarono chiuse, vietata l'uscita anche ai serventi, raddoppiate le sentinelle. E si misero a disposizione i nobiluomini della Guardia Palatina d'Onore. Anche er sor delegato prese le sue precauzioni. «Per ordine del primo ministro Crispi il Vaticano venne spiato, circondato, bloccato come lì dentro le sue mura si nascondesse un nido di contrabbandieri, o che servisse d'asilo ad un malfattore dieci volte condannato».
Una sorveglianza speciale fu affidata a 17 questurini e 8 carabinieri
scaglionati tra il seminario del Vaticano, il palazzo del
Sant'Uffizio, il colonnato, il portone di bronzo, la caserma dei
gendarmi pontifici e il lazzaretto. In cappello a lobbia, cravatta
e panciotto, se ne stavano fermi sul posto con l'aria di chi si
trovasse lì proprio per prendere aria, finché arrivava un'altra
lobbia, cravatta e panciotto, a dargli il cambio dell'aria: e insomma non c'era
dubbio alcuno che fossero tutori dell'ordine tutti quanti.
Il naso Quando tutti i cinquemila, o diecimila, si furono sistemati in piazza, il senatore Moleschott apri le celebrazioni col panegirico del festeggiato; l'onorevole Giovanni Bovio, repubblicano, libero pensatore e mangiapreti furente, tenne un discorso che agli altri mangiapreti presenti sembrò eccessivamente moderato e al cattolico La Vera Roma una «serqua d'improperii contro il Vaticano ed il Papa»; cadde il velario; s'inchinarono le bandiere; si levò «un grido d'inferno, questa folla ebbra di empietà si scioglie infine, le labbra stanche di bestemmie, ma felice e fiera...».
Si sciolsero anche associazioni e rappresentanze, gli studenti universitari
noleggiarono cento carrozzelle e percorsero il
Corso lanciando fiori alle signore, altri meno galanti comizianti si radunarono
a fischiare sotto i palazzi della nobiltà nera. Da
Fiorenzuola d'Arda il cantastorie Gianni Leopoldi inviò la sua
Tarantella sulle fruttaiole di Campo de' Fiori cacciate dal posto per via
del monumento a Giordano Bruno,
un inedito che fa:
L' Osservatore Romano scrisse che «col periodo delle feste per Giordano Bruno è cominciato per noi un periodo di lutto e di raccoglimento. Noi, dentro l'arca della sicura fede, sopra le cime intatte stiamo ad aspettare».
E Roma aspettò il concistoro che Leone XIII aveva preannunciato. Nel
frattempo la parte clericale ebbe il conforto del
Circolo Artistico che stroncò l'opera di Ettore Ferrari l'illustre
scultore: «Nella statua solamente visibile è la cocolla d'un frate.
Di tutta la persona del filosofo Nolano mascherato, imbacuccato, cocollato,
camuffato così dentro un sacco, che trionfa? Il naso, non altro che il naso».
Un concistoro segretissimo Convocati d'urgenza i componenti del Sacro Collegio, il concistoro segretissimo si riunì per due ore la mattina del 30 giugno. Nella sua allocuzione Leone XIII rievocò i «vessilli oltraggiosi» del giorno dello scoprimento della statua, le «insegne con l'effigie del perfido istigatore d'ogni ribellione», gli «scritti più rei nei quali senza pudore e senza ritegno apertamente inneggiavasi a quello che chiamano "libero pensiero" che è sorgente feconda di prave opinioni...». S'era sparsa la voce che il papa intendesse lasciare Roma. Due vetture ciascuna con un delegato e un questurino, stazionarono una presso il portone di bronzo e l'altra a piazza Santa Marta, non si seppe mai se per proteggere o per correre dietro alla vettura papale. Si disse — lo si ripeté più volte, e non ci fu smentita — che la maggioranza dei cardinali si pronunciasse per la partenza, e che «il Santo Padre per carità paterna desiderava restare ancora». | << | < | |