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| << | < | > | >> |IndicePremessa 5 Discriminazione di genere Escluse, ma ribelli 9 Trionfi marginali 10 Una modesta apertura 12 [...] Discriminazione razziale 61 I due volti della discriminazione: esclusi o super-atleti 61 Pionieri olimpionici dalla pelle scura 62 Vincitori naturali da indagare 64 [...] La discriminazione multipla: di genere e razziale Escluse due volte 110 Esordio con medaglie 111 Poche ma vincenti 112 [...] Discriminazione verso le persone con disabilità Discriminazione omissiva 127 Esordi olimpici 128 De Marchi e i due Giochi 129 [...] Discriminazione nei confronti delle persone transessuali e intersessuali Kallipateira e il test di femminilità 165 Pettegolezzi olimpici 166 Atlete non olimpiche che cambiano sesso 167 [...] Discriminazione religiosa La religione olimpica 201 La domenica dei cristiani 202 Momenti di gloria e ripensamenti 203 [...] Bibliografia 221 Immagini 224 Indice dei nomi 225 |
| << | < | > | >> |Pagina 5La pratica dello sport è un diritto dell'uomo. Ogni individuo deve avere la possibilità di praticare lo sport secondo le proprie esigenze. Questo principio, tra quelli fondamentali della Carta Olimpica, contiene una verità e nasconde un imbroglio. La verità è che ogni essere umano ha diritto alla pratica sportiva. Pur se lo sport non è presente esplicitamente nelle Dichiarazioni relative ai diritti umani, vi rientra per lo stretto legame che ha con altri diritti, come quelli riguardanti lo svago, l'istruzione, la salute, la cultura (basta ricordare la Carta Internazionale dell'educazione fisica e dello sport adottata dall'UNESCO nel 1978), ecc. Ma ha anche profondi legami con i diritti alla pace, allo sviluppo, alla solidarietà (tanto che dal 2009 il CIO è osservatore permanente alle Nazioni Unite e parte del Consiglio Economico e Sociale — ECOSOC). D'altra parte, la Storia ci insegna che ogni movimento che ha rivendicato diritti sociali, politici, economici ha sempre inserito tra le proprie aspirazioni anche il diritto di praticare sport. Allo stesso tempo, ogni regime totalitario e ogni paese coloniale ha sempre cercato di impedire ad una parte della popolazione la possibilità di partecipare effettivamente alla pratica sportiva, specie agonistica. Da questo punto di vista, i Giochi Olimpici hanno rappresentato e rappresentano un evento di globalizzazione positiva, dove gli atleti e le atlete possono non soltanto mettersi alla prova ed in evidenza in quello che resta il principale evento sportivo, ma anche di realizzare un sogno, basato essenzialmente sui meriti. L'imbroglio sta invece nel fatto che per molti decenni (e in parte ancora oggi) le Olimpiadi non sono state aperte a tutti, come se quel diritto alla pratica sportiva valesse solo per pochi. Basti pensare che dei quasi 11.000 atleti in rappresentanza di 204 paesi che hanno partecipato ai Giochi di Pechino 2008, il 38,7 per cento proveniva da appena 10 nazioni: Cina (639), Stati Uniti (595), Russia (467), Australia (433), Germania (349), Giappone (351), Italia (344), Canada (332), Francia (323) e Regno Unito (312). Il fatto che questi stessi paesi siano anche le principali potenze più industrializzate al mondo (secondo i dati della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale), non è certamente secondario. Ancor più grave è che la chiusura del CIO sia avvenuta in barba anche ad un altro principio fondamentale contenuto nella Carta Olimpica, ovvero quello della non discriminazione ("senza discriminazioni di alcun genere"). Prendendo lo spunto dai cinque cerchi olimpici, divenuto simbolo dei Giochi, in questo libro vengono esaminati cinque tipi di discriminazioni presenti nella storia olimpica: la discriminazione di genere, quella razziale, quella verso le persone con disabilità, quella nei confronti delle persone transessuali e intersessuali e quella religiosa. Fatta eccezione per quest'ultima, che presenta alcune specificità, negli altri casi la discriminazione è stata (significativamente ma solo parzialmente) superata grazie anche alla pressione esercitata dai movimenti di rivendicazione dei diritti civili e per le pari opportunità. D'altronde, la resistenza del CIO ad una piena applicazione dei principi contenuti nella Carta Olimpica, ha spesso coinciso con una maggiore flessibilità a concedere la partecipazione ai Giochi a paesi apertamente razzisti o sessisti, se non addirittura ad accettare come sede olimpica città di paesi che violavano palesemente il rispetto dei diritti umani (da Berlino nel 1936, a città del Messico nel 1968, a Pechino nel 2008). Questa doppiezza è spiegabile in parte con il fatto che queste stesse posizioni discriminatorie erano fatte proprie anche da diversi rappresentanti del CIO, in parte perché l'inclusione olimpica ha sempre risposto anche a fattori che hanno ben poco a che vedere con lo sport. Tuttavia, anche quando il CIO ha deciso di aprire a coloro che fino ad allora aveva escluso, lo ha fatto proponendo modelli che quasi mai puntavano alla piena integrazione, come se il "vero" riferimento restasse quell'atleta "maschio, bianco, normodotato, eterosessuale" assai caro all'élite occidentale e al mondo militare, veri padrini del l'Olimpismo originale. Il tutto proposto con una retorica molto ingannevole. Lo stesso de Coubertin, se da una parte affermava che "lo sport è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata", dall'altra è sempre stato fortemente contrario alla partecipazione delle donne ai Giochi Olimpici! In quest'ottica, la frase tipicamente olimpica "l'importante è partecipare", appare una falsa interpretazione del principio che vuole che la pratica dello sport sia un diritto di tutti. Ed è falsa per almeno due motivi. Il primo è che l'accesso alla pratica sportiva, compresa anche la partecipazione ai Giochi Olimpici, non si basa soltanto sul merito sportivo. Condizionamenti sociali, economici, culturali e politici, hanno impedito e continuano ad impedire in molti paesi la possibilità a tutti di praticare sport e di poter sognare di gareggiare, un giorno, alle Olimpiadi. Il caso italiano dei figli dei migranti nati e/o cresciuti in Italia che, pur avendo i requisiti sportivi per andare a Londra, debbono rinunciarvi per via di una legge astorica sulla cittadinanza, è solo una delle tante sconfitte di un paese che non sembra saper più fare dello sport un diritto capace anche di modificare la società, ma di ridurlo ad una pratica lasciata alla buona volontà del singolo e delle istituzioni. L'importante quindi è sì partecipare, ma a patto che si permetta a tutti di poterlo fare. Altrimenti è un diritto dimezzato.
Il secondo motivo per cui la partecipazione sportiva, pur se importante, non
è sufficiente per essere considerata un diritto dell'uomo,
riguarda il come si può partecipare. Per restare nell'ambito olimpico,
il passaggio dall'esclusione alla partecipazione dei diversi gruppi in
passato discriminati, è avvenuto attraverso modelli tra loro assai diversi, ma
solo parzialmente inclusivi, come analizzeremo nelle pagine
seguenti, ripercorrendo le storie sportive e umane di atleti ed atlete
che hanno contribuito a far diventare i Giochi un po' più, ma ancora
non del tutto, rispettosi del diritto di non discriminazione.
Questo libro è dedicato a tutte e tutti coloro che non hanno potuto o che ancora non possono partecipare ai Giochi Olimpici. Non per demeriti sportivi. Soltanto perché non previsti nella "società immaginaria" costruita intorno ai Giochi, che troppo spesso riproponeva (e ripropone) una società reale in cui gli stessi erano (e sono) esclusi anche dal pieno godimento dei diritti. Non previsti perché non hanno una nazione che li riconosce o perché è la loro nazione a non essere riconosciuta, perché praticano sport non considerati olimpici, perché l'accesso alla pratica sportiva è sempre più vincolata da fattori economici, perché sessismo, razzismo, transfobia, omofobia, e discriminazione verso le persone con disabilità continuano ad essere presenti ancora eccessivamente nell'ambito sportivo, olimpico e non. Questo popolo di esclusi costituisce un vero e proprio continente, al quale, come ha intelligentemente sostenuto Gianluca Di Girolami, andrebbe dedicato uno specifico cerchio olimpico. Una sorta di sesto cerchio, che si somma ai cinque che raffigurano metaforicamente i continenti. Un sesto cerchio per ricordare a tutti noi l'importanza di garantire e rendere effettivo il diritto allo sport per tutti. | << | < | > | >> |Pagina 9Escluse, ma ribelli. Le Olimpiadi nascono con una discriminazione esplicita verso le donne, escluse dalla prima edizione, disputata ad Atene nel 1896. I motivi sono vari. De Coubertin la giustifica richiamandosi agli antichi Giochi, dove le donne – ad eccezione della sacerdotessa di Demetra, delle sue ancelle e di Kallipateira, di cui ci occuperemo in un altro paragrafo – non potevano né gareggiare né sedersi in tribuna. Anzi, se sorprese sul sito delle competizioni (altis) venivano condannate a morte. Potevano solo iscriversi – ma non assistere – alle competizioni equestri, come proprietarie, allenatrici e allevatrici di cavalli. È quello che aveva fatto la spartana Cinisca, figlia del re Archidamo II, i cui equipaggi si erano aggiudicati la gara di quadriga nella 96° e 97° edizione (400 a.C. e 396 a.C.). La sua vittoria aveva comunque scosso la società greca e il mondo sportivo, e presto altre donne avevano "vinto", come Eurileonide di Sparta, la macedone Belistiche, Teodota di Elide. De Coubertin e gli altri membri del CIO (che saranno solo uomini fino al 1981!) preferiscono non prendere in considerazioni questi atti di "ribellione femminile", in nome di un'adesione apparentemente totale ai Giochi dell'antica Grecia. Adesione che, invece, viene meno, ad esempio, nelle discipline sportive ammesse alla prima edizione, non tutte disputate nel passato. Più che autentica, quella del CIO è una posizione che risponde sicuramente ad una visione marcatamente sessista e ad una particolare interpretazione dello sport, ancora incentrata sul modello dell'atleta/soldato, e cioè "come esercizio di forza, resistenza, coraggio, abilità, competizione, astuzia e, spesso, prevaricazione, sopraffazione, violenza, quando addirittura non diveniva un gioco per la sopravvivenza" (Aledda, 2002, p.207). Qualcosa inizierà a cambiare con lo sviluppo dei movimenti di rivendicazione dei diritti delle donne che mettono in discussione il potere maschile nella società, che chiedono la parità giuridica e nelle opportunità sociali ed economiche. Per Aledda, comunque, lo sport "è il terreno di confronto nel quale la battaglia per la parità dei sessi è stata più difficile che altrove". Anche lo sport olimpico, quindi, è stato originariamente inteso – da un punto di vista fisiologico, estetico e valoriale – come attività prevalentemente maschile. Non solo. La possibilità di una partecipazione olimpica femminile viene osteggiata anche perché comporterebbe una pericolosa "promiscuità sessuale" contraria allo spirito olimpico. In realtà, già ai Giochi di Atene nel 1896, una donna greca di umili origini, Stamata Revithi, madre di un bimbo di un anno e mezzo, chiede ugualmente di correre la maratona, perché convinta di poter competere con gli uomini. Negli annali, scritti quasi sempre da uomini, questo suo desiderio agonistico viene in genere interpretato in senso strumentale: lo fa per guadagnare soldi o per farsi notare e trovare un lavoro. Ovviamente, regolamento alla mano, non le viene consentito di misurarsi nella gara ufficiale. Lei però corre lo stesso, il giorno dopo la gara maschile e con il divieto di compiere l'ultimo giro dentro lo stadio, facendo registrare il tempo di 5 ore e mezzo (mentre il vincitore è accreditato sotto le 3 ore). La Revithi proverà a comunicare il suo risultato al Comitato olimpico, nella speranza di farlo riconoscere. Ma della lettera e della documentazione inviata si perderà ogni traccia, relegando così la sua ribellione ad uno sbiadito ricordo.
Come vedremo, ci vorrà circa un secolo prima che una donna
venga ammessa ufficialmente a correre la maratona olimpica!
Trionfi marginali. Il CIO mostra più disponibilità in occasione del Giochi di Parigi nel 1900, ma soltanto verso pochissimi sport, quasi tutti praticati dalle classi elevate occidentali. Complessivamente sono presenti 22 donne (1,5% dei partecipanti) impegnate in 4 discipline (su 18 totali): tennis, golf, croquet e vela. La prima a vincere un titolo olimpico è la tennista britannica Charlotte Cooper (1870-1966), che nella finale del torneo individuale femminile batte la francese Helen Prevost. Il tennis era entrato a far parte dei programmi dei Giochi già nell'edizione inaugurale, dove però erano stati disputati solo il singolo e il doppio maschili. A Parigi, oltre al singolo femminile, è introdotto il doppio misto, vinto ancora dalla Cooper, in coppia con il connazionale Reginald Doherty. La Cooper non era certo una principiante. Aveva già vinto per tre volte il torneo di Wimbledon, torneo nato "maschile" nel 1877, ma che dal 1884 aveva previsto anche il torneo singolare femminile (il doppio femminile e il doppio misto saranno inseriti solo nel 1913). Quasi a ribadire che la donna che pratica sport è un po' fuori dal normale, la trentenne "ancora" zitella Cooper, l'anno dopo i Giochi, deciderà di sposarsi con un uomo più giovane di lei di sei anni. Vincerà a Wimbledon anche nel 1901 e nel 1908 (quando, con i suoi 37 anni e 282 giorni, stabilirà un record anagrafico ancora imbattuto), arrivando in finale nuovamente nel 1913. | << | < | > | >> |Pagina 18Milliat vs de Coubertin.A questo punto entra in scena la francese Alice Milliat (1884-1997). Plurisportiva, dopo aver dato vita ad una squadra di calcio femminile (che partecipa in Inghilterra a quello che è considerato il primo torneo internazionale femminile), organizza nel 1921 le prime Olimpiadi femminili, a cui aderiscono cinque nazioni: Francia, Gran Bretagna, Italia, Norvegia e Svizzera. È una competizione che, proprio per le protagoniste, qualcuno chiamerà "Olimpiadi della Grazia". Pochi mesi dopo, fonda la Federazione sportiva femminile internazionale (FSFI) e, nel 1922, propone una seconda competizione internazionale con 300 atlete provenienti anche da Belgio e Cecoslovacchia. Visto l'ottimo esito, la Milliat prova a convincere de Coubertin ad aprire le Olimpiadi alle donne, certa che, essendo l'atletica lo sport principale dei Giochi, è soprattutto da lì che passa l'emancipazione sportiva femminile (come d'altra parte si stava verificando in quei paesi dove lo sport femminile aveva avuto maggiore radicamento). Dal CIO riceve però un netto rifiuto. Per protesta, la FSFI organizza, sempre nel 1922 ma a Parigi e con ancora più adesioni, una nuova edizione dei Giochi Olimpici femminili, che già nel nome vogliono esplicitare la contrapposizione ai Giochi che riservano le gare di atletica ai soli maschi. Vi partecipano 18 atlete, in rappresentanza di cinque paesi (Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera, Cecoslovacchia), che si misurano in undici discipline, davanti a 20.000 spettatori. È un ulteriore successo che, come vedremo, presto obbligherà il CIO a trovare un compromesso. Per il momento, è impegnato a organizzare, nel 1924, l'ottava edizione dei Giochi, nuovamente a Parigi. Il numero di donne è il doppio rispetto all'edizione precedente: 135 (4,4%). Gli ori a disposizioni diventano 11 (su 126) in 3 discipline sportive (su 17): 7 negli sport acquatici (5 nel nuoto e 2 nei tuffi), 3 nel tennis, 1 nella scherma. Nel nuoto (che in questo periodo rappresenta la punta di diamante dell'equivalenza di genere) i 300sl vengono sostituiti dai 400, e vengono previste due gare in nuovi stili – 200 rana e 100 dorso. Rilevante novità è l'apertura alle donne della scherma, sebbene solo nel fioretto individuale, nuova specialità olimpica. È comunque la rottura di un tabù sportivo, visto che la scherma era appannaggio degli uomini sin dal 1896, per i quali a Parigi sono previsti sei eventi: due nel fioretto, due nella spada e due nella sciabola, quest'ultime armi "proibite" alle donne ancora per i successivi 80 anni! D'altra parte, il fioretto è considerato un'arma non di combattimento, né da duello, ma di "pura accademia" e per l'allenamento. Il primo oro della scherma olimpica femminile va alla danese Ellen Ottilia Osiier (1890-1962). Nel rispetto di una tradizione che vuole la possibilità di affermazione delle atlete "facilitata" nel caso in cui anche il marito sia uno sportivo, la Osiier è la moglie di Ivan Osiier, tra gli schermitori più affermati dell'epoca. Tuttavia, in previsione della nuova edizione dei Giochi nel 1928, il CIO cerca una mediazione con la Milliat, nel tentativo di evitare una pericolosa concorrenza al "marchio" originale. Nel 1925 viene così proposto alla FSFI di rinunciare al termine "olimpico", in cambio dell'inserimento di gare femminili di atletica nei Giochi del 1928. La FSFI accetta e denomina la competizione che si tiene a Goteborg nel 1926 non più i Giochi Olimpici femminili ma i Mondiali femminili d'atletica, ai quali partecipano dieci squadre, compreso il Giappone. Ciò non toglie che, come vedremo, la Milliat e la FSFI continueranno a chiedere una maggiore apertura del CIO verso le atlete. Quasi contemporaneamente, inizia ad emergere un dibattito, per molti versi ancora attuale, tra chi sostiene di riservare alle donne "competizioni volutamente non troppo spinte, attente a sottolineare soprattutto l'aspetto della festività e della socializzazione" (come i cosiddetti play days, cioè con "regole proposte e modificate per loro"), e chi invece ritiene che lo sport femminile debba ispirarsi a quello "con le regole dei maschi". Per il momento, in molti paesi il problema principale resta l'avversità alla pratica sportiva femminile. Così scrive l'italiano Michelangelo Jerace nel 1926: "La donna sportiva, in genere, come quella americana e quella inglese, ha le spalle troppo larghe, le braccia troppo muscolose, i piedi eccessivamente lunghi e larghi, le gambe lunghe e nerborute, il passo del tutto mascolino, mentre poi non ha nessuna di quelle plastiche rotondità del corpo e del petto, nessuna di quelle eleganze di linee e del viso che fanno così bella e così ammirata la donna. A furia di voler preparare per le loro figlie una vita vigorosa, gli Inglesi si trovano ora di fronte ad un genere nuovo neutro, che va attorno con le gonne corte e i capelli tagliati, per poter portare meglio berretti da uomo, che parlano ad alta voce con accenti maschili e che non mostra nessun ritegno a dividere i piaceri dell'altro sesso (...). Gli sports fanno prendere alla donna abitudini maschili e virilizzano la sua psiche e questa virilizzazione psichica conduce a una virilizzazione somatica, per mezzo dei riflessi neuro-endocrinici e per lo stesso effetto fisiologico dell'esercizio fisico violento rappresentato da alcuni sports. L'abito somatico femminile, mascolinizzandosi, porta a modificazioni anche della struttura scheletrica, tra cui il rimpicciolimento del bacino. Altre conseguenze sono l'atrofia delle ghiandole mammarie e possibili lenti traumi sull'apparato sessuale, che si ripercuotono su la funzione della maternità e su l'avvenire della razza" (in Teja, 2004, p.11). Insomma, la donna sarebbe "per natura" non idonea all'attività sportiva, specie agonistica. | << | < | > | >> |Pagina 23Femminilità e mascolinità.Tra i molti timori conseguenti al maggior numero di donne presenti ai Giochi, c'è, ovviamente, quello della promiscuità sessuale che distrarrebbe dall'impegno agonistico. Tant'è che ai Giochi di Los Angeles del 1932, per la prima volta gli atleti vengono ospitati in alloggi separati: gli uomini in un villaggio olimpico, le donne in albergo. Se in termini assoluti le donne iscritte scendono a 126, la loro percentuale resta al 9,5%, perché complessivamente i partecipanti diminuiscono, sia per la crisi economica, sia perché il CIO aveva posto che, per ogni singola prova, un paese potesse schierare al massimo 3 atleti. Le medaglie d'oro a disposizione salgono a 15 (su 117) sempre in 4 discipline (su 14), ma con la momentanea uscita di scena della ginnastica, e il ritorno della vela con una gara per equipaggi misti (Star). Nell'atletica leggera ci sono due eventi in più: gli 80hs (laddove i maschi gareggiano sui 11Ohs) e il lancio del giavellotto. Tuttavia, non venendo confermati gli 800, in atletica le medaglie sono sei. A dimostrazione della qualità sportiva, a Los Angeles vengono battuti ben quattro record del mondo: a parte la polacca Stanislawa Walasiewicz (1911-1980) sui 100 (con 11"9), gli altri tre record sono stabiliti da atlete statunitensi: la staffetta 4x100, Jean Shiley (1911-1998) nel salto in alto (con 1,65m) e Mildred 'Babe' Didrikson (1911-1956), sugli 80hs (con 11"7). Proprio la Didrikson è la rivelazione di Los Angeles, grazie ai due ori conquistati nelle nuove specialità: 80hs e lancio del giavellotto, oltre all'argento nel salto in alto. In realtà, aveva saltato anche lei 1,65m come la Shiley (quindi record del mondo ad ex equo), ma i giudici l'avevano declassata al secondo posto perché aveva superato l'asticella con uno stile "ventrale", anziché con quello "a forbice" ritenuto più decoroso per le donne. La "mascolinità" della Didrikson è anche oggetto d'interesse della stampa che sottolinea il fisico muscoloso e alcune sue passioni: pratica quasi tutti gli sport, tra i quali anche la boxe e il biliardo; beve whisky e fuma sigari. E alla giornalista che le chiede se c'è qualcosa a cui non sappia giocare, risponde: "le bambole". Tutto questo solleverà qualche dubbio sulla sua vera identità sessuale. In realtà, la Didrikson, con quel suo corpo e con quei suoi comportamenti, rompe i modelli dominanti di femminilità del tempo, inclusi quelli accettati nell'atletismo femminile.
La pressione che la Milliat e la FSFI continuano ad esercitare sul
CIO, anche attraverso l'organizzazione di altre due edizioni dei Mondiali
femminili (a Praga nel 1930 e a Londra nel 1934, dove partecipano ben 19
nazioni), ottiene un ulteriore importante risultato, anche
perché ormai lo sport femminile si è aperto anche alle classi lavoratrici,
pure per un interesse delle aziende in cui sono impiegate (sia per ottenere
migliori rendimenti lavorativi, che per questioni di marketing).
Le donne di Berlino. Ai Giochi di Berlino del 1936 il numero di donne iscritte aumenta fortemente (329), sebbene percentualmente scende all'8,3%. Gli ori a disposizione sono 16 (su 129), mentre le discipline sportive a cui le donne possono partecipare passano a 5 (su 19), visto il ritorno del concorso a squadre nella ginnastica. Tra le atlete c'è la prima italiana che conquista un oro olimpico: Trebisonda "Ondina" Valla (1916-2006), vincitrice sugli 80hs, che in semifinale aveva eguagliato il record mondiale (11"6). Quarta è l'altra italiana Claudia Testoni (che presto porterà il record mondiale a 11"3). È una vittoria che ha del "miracoloso", perché, come evidenziato da Felice Fabrizio, nel regime fascista "un autentico sport femminile in Italia non esisteva: la pratica agonistica era scarsissima" (p.123). D'altra parte, nel 1930 il Gran Consiglio del Fascismo aveva dichiarato che la donna, anche se si fosse dimostrata abile nello sport, non doveva distogliersi dal suo ruolo più importante: essere una buona madre. Posizione ampiamente condivisa e supportata anche dalla Chiesa cattolica. | << | < | > | >> |Pagina 33Afroamericane e sovietiche.Ai Giochi di Roma del 1960 le donne aumentano ancora — 612 (11,4%) — e gli ori a disposizione salgono a 37 (su 150) ma sempre in 7 discipline (sempre su 17). Quindi, ancora una volta, l'aumento di titoli è essenzialmente a favore degli uomini. Comunque, non mancano le novità. Nell'atletica leggera – dopo due edizioni senza variazioni – le gare diventano dieci, visto il ritorno degli 800, non più disputati dall'edizione 1928. Altra novità è nel nuoto, dove gli eventi femminili sono sette, per l'aggiunta della 4x100 misti. Anche nella scherma si assiste ad un ampliamento delle competizioni, che passano a due con il fioretto a squadre. Analogamente nel kayak le gare ora sono due (con il K2 500). Nella ginnastica si torna invece a sei ori, per l'eliminazione della gara con attrezzi a squadre. Nella vela, le competizioni miste diventano quattro, con il Flying Dutchman. La vera protagonista dei Giochi è sicuramente l'afroamericana Wilma Rudolph (1940-1994), che vince due ori individuali (100 e 200) e uno con la 4x100, stabilendo anche due record, sui 100 (11"3 in semifinale) e con la staffetta. È la prima statunitense a vincere tre ori in atletica. La sua biografia è un esempio concreto di una discriminazione multipla, in quanto donna, nera ed ex poliomielitica, che ha trovato nello sport una importante rivalsa (di lei ci occuperemo anche in altri paragrafi). A mettersi in evidenza anche la sovietica Lyudmila Shevtsona (1934) che vince gli 800 con il nuovo record del mondo, che già deteneva (2'04"03). Il quarto record mondiale battuto nell'atletica a Roma è della sovietica Tamara Press (1937) nel lancio del disco (57,15m in qualificazione), sulla quale presto si scateneranno numerosi gossip circa la sua vera identità sessuale. Tra i milioni di spettatori televisivi dei Giochi di Roma c'è anche papa Giovanni XXIII. Ma, stando agli annali, non segue né gli incontri di pugilato né gli sport con donne non troppo coperte. | << | < | > | >> |Pagina 50Tra le conseguenze della Conferenza c'è una modifica della Carta Olimpica, che viene emendata all'art.2, paragrafo 5. Si specifica che il CIO, nella sua gestione della diffusone dell'Olimpismo: "favorisce, con tutti i mezzi appropriati, la promozione delle donne nello sport ad ogni livello e in tutte le strutture, e in particolare modo negli organi esecutivi delle organizzazioni sportive nazionali e internazionali, per una rigorosa applicazione del principio di uguaglianza tra i sessi".Il passaggio successivo avviene nel giugno 1996 ad Atlanta, alla vigilia dei Giochi. La 105° sessione del CIO decide che i Comitati Olimpici nazionali, entro il 31 dicembre 2000, dovranno riservare alle donne un minimo del 10% dei posti in tutte le strutture che hanno un potere decisionale. Questa percentuale dovrà essere del 20% entro il 31 dicembre 2005. Sarà però un obiettivo che ad oggi non risulta ancora raggiunto. Più concreto è invece l'impegno per un aumento della partecipazione femminile ai Giochi.
Infatti, all'art.52 della Carta Olimpica, si precisa che possono essere
iscritti nel programma dei Giochi, soltanto gli sport diffusamente
praticati: in almeno settantacinque Paesi di quattro continenti dagli
uomini, e in almeno quaranta Paesi di tre continenti per le donne.
Una sorta di azione positiva a favore della partecipazione femminile,
ma in un sistema fortemente differenziato, dove le gare miste, ad
esempio, restano assai limitate.
I supporter del sistema differenziato, sottolineano l'esistenza, tra uomini e donne, di diversità fisiologiche che hanno ricadute anche importanti specie nelle attività fisiche che richiedono forza e velocità. Schematicamente, rispetto agli uomini le donne hanno mediamente una maggiore percentuale di grasso corporeo, una massa muscolare relativamente minore, un peso costituito per il 25% da tessuto adiposo (mentre nell'uomo tale percentuale è del 15%), una minor presenza di emoglobina (che influenza "negativamente" la capacità di trasportare ossigeno nel sangue), una statura mediamente più bassa, un cuore più piccolo (e quindi un minor volume del sangue pompato ad ogni battito cardiaco), muscoli e tendini meno resistenti, il bacino più ampio che, specie nella corsa, costituisce uno svantaggio meccanico (costringendo ad un lieve movimento laterale ad ogni passo, che sottrae una parte della spinta alla velocità in avanti), e soprattutto hanno poco testosterone, l'ormone maschile. Questo lungo elenco di "svantaggi meccanici e strutturali" non può, comunque, essere un motivo per giustificare discriminazioni, sia perché si basa su medie statistiche, sia perché nelle prestazioni sportive subentrano altri fattori, non ultimo l'allenamento, le reali possibilità di accesso alla pratica sportiva e le resistenze psicologiche e culturali. | << | < | > | >> |Pagina 59Verso Londra 2012.Questo processo di riduzione delle differenze tra i sessi per ciò che riguarda presenze, titoli e discipline sportive disponibili continuerà anche ai Giochi di Londra nel 2012. Per la prima volta verrà inserita tra i giochi olimpici anche la boxe femminile, con tre categorie (mosca, leggeri e medi), laddove la boxe maschile è specialità olimpica già dal 1896. Nella canoa, il K1 donne 200m, prenderà il posto del C2 uomini sui 500m. Non sarà invece presente il nuoto sincronizzato maschile, che resta così sport olimpico riservato alle donne. Il suo inserimento era stato proposto da diverse società sportive maschili, anche per mettere fine a quella che viene considerata una discriminazione "alla rovescia", cioè verso gli uomini. A farsene portavoce era stato anche il ministro inglese per le Olimpiadi, Tessa Jowell, che aveva chiesto al CIO di eliminare gli ultimi vincoli di genere sul riconoscimento degli sport olimpici proprio a Londra 2012. Probabilmente bisognerà attendere l'edizione olimpica del 2016. Ma la data da segnare dovrebbe essere l'Olimpiade del 2156, perché, stando ad alcuni studi, sarà in quell'occasione che avverrà il sorpasso femminile sui 100 metri, dove la vincitrice donna farà registrare un tempo inferiore rispetto a quello del collega dell'altro sesso. Per la precisione 8"079 contro gli 8"098. Questa stima futura è stata ricavata dalla proiezione dei tempi realizzati dalle medaglie d'oro olimpiche maschili e femminili negli ultimi cento anni, e poggia sul maggiore miglioramento fatto registrare dalle campionesse.
In realtà, già in passato simili previsioni si erano dimostrate fallaci.
Prendendo in esame i miglioramenti fatti registrare in cinque tipi di
corse dalle Olimpiadi del 1900 a quelle del 1992, alcuni ricercatori
avevano profetizzato che le differenze si sarebbero annullate intorno
al 2000. Altri studiosi hanno invece ribadito che questo sorpasso nelle
corse non ci sarà mai, sebbene si registrerà una riduzione delle differenze
nelle prestazioni. Altri studiosi ancora attribuiscono alle donne
una maggiore "acquaticità" e "flessibilità", che potrebbero permettergli ottimi
risultati nelle discipline sportive dove tali qualità hanno
maggior peso. E forse sarà proprio nel nuoto che il sorpasso "di genere" avverrà
prima.
Questi discorsi, anche avvincenti, rischiano però di spostare l'attenzione sul piano dell'elemento fisico, sulle performances, distogliendo dai molti passaggi che ancora restano da fare per il pieno rispetto delle pari opportunità in ambito sportivo. Anche ai Giochi Olimpici. Come denuncia la Ligue du Droit International des Femmes, che alla fine del 2011 avvia una petizione affinché a Londra 2012 vi sia la piena applicazione della Carta Olimpica. Sette le richieste: 1) bandire i paesi che escludono le donne dalla loro delegazione; 2) assicurare la neutralità dello sport vietando di indossare simboli religiosi o politici; 3) smettere di supportare competizioni separate per sole donne, che istituzionalizzano la segregazione sessuale nello sport; 4) esigere l'effettiva parità tra donne e uomini in discipline ed eventi olimpici; 5) rispettate la quota minima determinata dal CIO ed aumentare il numero di donne negli organismi dirigenti; 6) dentro e fuori dai Giochi: eliminare la discriminazione di genere basata su stereotipi sessuali; 7) omaggiare le donne pioniere nello sport: la medaglia d'oro per la maratona – considerata ancora la gara più simbolica dei Giochi – dovrebbe essere consegnata anche alla vincitrice della maratona femminile (infatti, fino ad oggi, il presidente del CIO, prima della cerimonia di chiusura, in segno di riconoscenza a tutti gli atleti olimpionici, consegna personalmente una medaglia d'oro al vincitore della maratona maschile). Vedremo quante di queste richieste verranno esaudite. | << | < | > | >> |Pagina 61I due volti della discriminazione: esclusi o super-atleti. Quando ad Atene, nel 1896, viene inaugurata la prima edizione dei Giochi Olimpici moderni, in gran parte del mondo le relazioni sociali sono basate sulla discriminazione razziale, avvalorata spesso da teorie razziste che tendono a classificare gli esseri umani anche in base al colore della pelle. Ci sarebbero bianchi, neri e gialli, che i razzisti collocano su una presunta scala gerarchia immodificabile, dove al gradino più alto ci sarebbero i bianchi e a quello più basso i neri (motivo per il quale, in questo capitolo utilizzeremo il termine generico di "nero"). Questo razzismo antineri ha una ricaduta anche in campo sportivo, ma con un paradosso. Da una parte c'è chi ritiene i neri troppo "selvaggi" e "dominati dall'istinto" per poter rispettare le regole sportive, specie nei giochi di squadra, e quindi è bene escluderli e comunque evitare che possano rappresentare il proprio paese. Dall'altra, invece, gli si attribuiscono particolari doti atletiche naturali, che gli permetterebbero di primeggiare soprattutto in alcuni sport. All'origine di questa posizione c'è il mito del super-atleta nero, che mantiene e forse rafforza le teorie razziste: se il nero vince non è perché è il più bravo, ma soltanto perché dotato di alcuni vantaggi da parte della natura. E la sua superiorità atletica non sarebbe altro che una "compensazione" ad un'altrettanto innata debolezza intellettiva, fatto che ne fa l'avversario per eccellenza dei bianchi, "naturalmente superiori per intelligenza". L'atleta nero è quindi schiacciato tra l'essere o un escluso dalle competizioni sportive, o un vincitore, non per i propri sforzi, ma per qualche dono naturale. Da parte sua, il CIO ufficialmente non ha mai vietato la partecipazione ai Giochi Olimpici a determinate "razze". Tuttavia, se una nazione applica un regime razzista, il CIO, "nel rispetto dell'autonomia del singolo paese", fa molta fatica a "imporre" che almeno lo sport sia inter o multi-razziale. Nelle pagine che seguono, concentreremo la nostra attenzione soprattutto agli ambiti e alle biografie più significative rispetto ai pregiudizi e agli stereotipi razziali e razzisti. Agli atleti neri dedicheremo la prima parte del presente paragrafo, mentre la seconda parte alle atlete nere, molto spesso, anche nello sport, vittime di una duplice discriminazione: di genere e per il colore della pelle. | << | < | |