Copertina
Autore Davide Van De Sfroos
Titolo Le parole sognate dai pesci
EdizioneBompiani, Milano, 2003 , pag.90, dim. 124x170x8 mm , Isbn 978-88-452-5523-6
LettorePiergiorgio Siena, 2004
Classe narrativa italiana
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Indice

La Testa
Il Meccanico che ripara i Ricordi 9 La valigia 17
La lisca
La Magatiroide 29 Il Soldato degli Autunni 33 Il Violinista di Nebbia 37 La Luna e il ferro da stiro 41 Gek 49 La Ragazza del Negozio di Liquori 53 Zorro e la lavagna 57 La storia di Ginevra 63 Il Legionario nel Sottotetto 73 Verso le 10 e 30 77
La coda
La cassetta degli attrezzi, o il ritorno 89  

 

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Pagina 9

Il Meccanico che ripara i Ricordi



Appena scese dalla corriera, spese giusto il tempo di guardare se poteva attraversare la strada statale, poi si diresse giù per la mulattiera che portava al lago e alla Pensione Magnolia.

Muoveva adagio i passi e faceva dondolare la valigia come uno che torna a camminare su quei sassi che non avevano mai smesso di essere suoi, anche se era stato via così tanto tempo.

Buttò lo guardo su una vecchia altalena appesa al tramonto e poi lo spostò verso due persiane rosse, pennellate malamente, con un gatto color marmo tra le braccia della finestra.

Capì immediatamente che si sarebbe ripreso tutti gli odori e le ombre che gli appartenevano. Compresa la sua.

La sua ombra non era mai partita, non era mai stata caricata su una Mercedes color castagna una domenica di giugno, non aveva dovuto vedere mezzo paese guardare dentro quei finestrini che lo stavano portando chissà dove e non era stata obbligata a entrare in quella clinica lontana con il nome che un italiano non riesce a dire. Ma soprattutto non aveva dovuto strisciare su quei pavimenti a scacchi senape e granata, o su quei muri che ti davano sempre le spalle... Nossignore!

Lei era rimasta lì - fedele - ad aspettarlo, come il cavallo di Zorro, senza invecchiare e senza ammalarsi. Si era nascosta come aveva potuto, all'inizio della riva, infilata tra le barche capovolte, dove le pietre sotto il passo cominciano a farti camminare strano.

E proprio lì ritrovò la sua ombra, sulla scalinata di sasso, tra la melma secca e le margherite arrampicate.

Lei lo salutò dicendo una delle cose che era solita dire: "Le pietre sono buone per come ti sanno ascoltare. Le pietre sono serie per come ti lasciano sempre parlare o stare in silenzio... E non si sa se sono più dure quando ti colpiscono o quando le calpesti."

Ascoltò le onde agitate dall'ultimo aliscafo. Improvvisamente non era più un danzatore con il cuore masticato, non era più un corridore con un taglio sotto il piede.

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Pagina 33

Il Soldato degli Autunni



C'era una volta il Soldato degli Autunni, che aveva dormito in una villa col cancello grande, e dentro una guerra senza porte, e in un cappotto color novembre senza più i gradi.

Una mattina, lo videro lavare i fazzoletti nella fontana davanti alla Pensione Magnolia e sorridere con una candela di ghiaccio che gli pendeva dall'orecchio. Aveva passato la notte dove gli era stato possibile; ancora una volta, aveva rovesciato il calamaio di quel suo tempo severo, fingendo che fosse stato il cielo ad aver perso la penna.

Battezzava gatti, annegava rimpianti e stava terribilmente bene quando passava il Giro d'Italia, perché adorava vedere quelle automobili di tutti i colori che lanciavano pacchetti di sigarette. Catturava il sole con le sue orecchie a sventola, salutava la signora nel vestito a fiori come fanno i militari quando passa un generale, ma con la scopa al posto del fucile.

Là dove ci sono il lampione e le rose sul muro, lo si vedeva sfregare mille fiammiferi, muovendo il suo ghigno da anziano rettile. Ti voleva far capire che certe stelle le aveva conosciute molto bene - anzi, alcune gli avevano addirittura offerto da accendere.

Le sue scarpe del mercato di Lenno avevano fatto diversi rumori, una canzone per ogni cosa che aveva percorso o calpestato. I bottoni cuciti male non si erano mai chiusi completamente davanti al vento, forse perché la Madonnina di Lourdes legata al collo con lo spago ogni tanto voleva dondolare.

I bambini in bicicletta mettevano più occhi che denti nel loro "Buongiorno", e non capivano se a farlo diventare confuso era stato il proiettile che gli aveva scarabocchiato la testa o quel mazzo di carte maledetto.

Era sempre stato astuto, come un Cavedano: e come i cavedani si sapeva muovere, straccione e signore, vigile e ingordo, veloce e sfuggente davanti all'esca, e poi fin troppo fermo di fronte a un qualsiasi scarico della fogna.

Ma non poteva saperlo che quella notte era stato il diavolo a fare il mazzo.

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Pagina 63

La storia di Ginevra



Ginevra era bellissima, anche perché non ne aveva la minima idea, e questo le donava un bagliore unico. Sapeva guardare l'altra sponda e far rimbalzare i sassi piatti sul lago come se fosse nata lì, davanti ai pali bianchi e neri dei pontili e ai gabbiani che non hanno mai voglia di fare niente.

Aveva la carnagione scura, una pettinatura da temporale, e gli occhi mandavano gli stessi riflessi assurdi del Pesce Sole. Veniva da Paderno Dugnano ed era figlia di un ginecologo buddhista che, dopo essere guarito dall'esaurimento nervoso, era scomparso in Nuova Zelanda, portandosi via la moglie di un cugino pompiere.

Sua madre era bella come lei, e dimostrava meno anni di quelli che aveva, sebbene se ne sentisse addosso di più, ma questo lo capivi dalla singolare ed elegante tristezza che le riempiva il viso come un velo d'acqua, una pozzanghera dove tutti avevano voluto battere il piede e fare s'ciack! Era stata proprio lei a mandare Ginevra sul lago di Como, nell'improbabile appartamento della zia, vicino alla piccola valle e al cantiere nautico. Aveva deciso così con la scusa che l'estate da loro era un serpente boa, ma in realtà quell'anno tirava una brutta aria.

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