Copertina
Autore Davide Vargas
Titolo Racconti di qui
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2009, Le finestre , pag. 136, ill., cop.fle., dim. 12x18,6x1 cm , Isbn 978-88-7937-454-5
PrefazioneGiuseppe Montesano
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe narrativa italiana
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Indice


Prefazione di Giuseppe Montesano          7
12 fotografie di Luigi Spina              9

È morto anche il mare                    25

Finalmente scappo                        31

Proud Mary                               33
Pontili                                  39
Ci sono città con i fiumi                45

Finalmente scappo                        51

A terra                                  55
Stasera ho visto le lucciole             63
Pop art                                  69
Viti maritate                            73

Finalmente scappo                        81

Arbre magique                            83
New smoke lago Patria                    89
Incendi                                 103
Siamo strade                            111

Finalmente scappo                       117

Era li almeno da mercoledì              121



 

 

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Pagina 25

È morto anche il mare


Una nuvola di polvere sollevata dagli autotreni rimane sospesa nell'aria biancastra.

Quando ricade sulla malerba dei cigli, ricoperta da un telo di plastica nero appare immobile la lunga massa della discarica.

L'auto la costeggia e non finisce mai, sarà più di un chilometro, una striscia di pennarello tra la campagna e il cielo, spessore dieci metri, forse dodici.

Dove batte il sole il colore della plastica si trasforma in antracite, le pieghe del telo si accendono di striature argento come onde del mare.

Viene in mente il mare di Fellini per il Casanova, mare in tempesta, acque minacciose, teloni di plastica smossi da ventilatori nascosti e frustati da luci artificiali. Per uomini in parrucca e barche di cartapesta, realtà falsa e tutto più vero.


Più avanti, proprio in fondo, all'altro capo, c'è il mare vero, quello che resta del mare: una verità contro una rappresentazione. Ma la verità del mare d'acqua e dei suoi abissi è stata ridotta a rappresentazione tragica e allora forse la rappresentazione di spazzatura e plastica è la verità.


La macchina prosegue nella polvere acre, incrocia autotreni giganteschi, il puzzo di nafta stringe alla gola, la massa nera della discarica è così vicina e nello stesso tempo così irraggiungibile.

La polvere, i miasmi, i camion uno dietro l'altro, tutto diventa insopportabile.

Le solite puttane nere aspettano e ammiccano, hanno maglie colorate e borsette a tracolla.

Qua e là alberi da frutta, nutriti dai suoli putrefatti dai liquami.

Una sensazione di pericolo innerva il luogo e si appiccica addosso come un mastice.

Nella luce di questo giorno limpido vengono in mente immagini notturne, distese oscure che si attraversano piegati o qualcosa del genere.

Non è questo quello che cerchiamo oggi.


Andiamo verso il mare.

La macchina avanza su una strada dritta tagliata da uno spartitraffico e costeggia un'inferriata alla ricerca di un varco.

Non c'è distrazione, e nessun varco per ora.

Una luce metallica si insedia sulle cose.

La memoria spinge per riportare in superficie immagini di automobili di altre epoche cariche di secchielli e bambini incollati ai vetri in gita verso lidi dai nomi augurali e il pensiero imbarazzato si aggira tra il presente.

Forse questa desolazione. Forse questi caseggiati tracotanti piantati ai lati della strada, sui bordi di sabbia, a ridosso delle pinete. Forse queste puttane nigeriane ferme sul ciglio. Forse questa violenza. Forse questo squallore. Forse tutte queste cose chiedono di essere raccontate, ma il pensiero nega, perché non è questo il punto, assolutamente no.


Andiamo avanti verso qualcosa di più immune.

Finalmente fuori dell'abitacolo, i piedi imboccano un taglio nella lunga striscia di pineta e sabbia nera, percorso incastrato tra recinzioni di lamiera e reti – e noi siamo al di qua o al di là?... quale è lo spazio inaccessibile? –, percorso impresso delle orme di uomini e cani, copertura di sottosuoli combustibili, percorso che si perde sotto una duna allungata come una barriera.

L'orlo di mare si mostra davanti e distante come un lembo di frontiera.


Andiamo avanti.

Andiamo tenacemente avanti, la macchina, le braccia, i pedali puntati verso il punto in cui la rappresentazione si rapprende – deve pur esserci –, e si fa accento, due punti e racconto della condizione, il particolare che svela le ragioni del narratore, l'indizio nascosto che smania per essere decifrato, il dito puntato, la parola che dice delle nostre strette interiori, la figura omologa di un bisogno imprecisato che si confonde dentro di noi.

Questo in fondo cerchiamo: di leggere l'informe dentro noi stessi. Un pezzettino, soltanto, quello che oggi, in questo frammento di giornata, vuole venire fuori.


Andiamo avanti agitati, ingombri di scorie di immagini vuote, con le domande aperte.

Il paesaggio di mare scorre a lungo inutile.

Il pensiero è stanco ed è questo il momento: la coda dell'occhio trattiene per un secondo di troppo l'immagine laterale.

È il segnale, come quando uno soltanto riconosce in una macchia d'inchiostro o nella nuvola spumosa o nell'ombra compatta l'inequivocabile sagoma di una creatura vivente e si sorprende che nessun altro la veda.

La macchina si arresta.

In un'aria immobile che risale agli inizi lontani, l'accumulo di immagini svapora e il cemento affiora dalle capsule dei cisti senza aromi, come avanguardia di un futuro perso.

È solo un muro di cemento, il colore della polvere e della sabbia, che corre basso, quasi a pelo di sabbia, come la cucitura di una ferita, e corre dritto verso il mare.

Muro che separa due opposti scenari, da un lato il taglio dell'acqua nella sabbia, dall'altro un'ombra scura che si modella sulla duna.

Muro che separa e basta.

Come fanno a volte le parole degli uomini.

Muro che si sbreccia. Opaco. Tagliente come una linea.

Muro che taglia e basta.

Tutto qua per la vista, ma è un rimbombo di schegge inafferrabili.

Muro che deraglia in punta e non osa finire nel mare.

Tuffarsi nel mare.

    26 dicembre 2006
    Trentola - Ischitella - Mondragone
    ore 10-14

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Pagina 45

Ci sono città con i fiumi


Dalla superstrada che in quel punto curva si vede il lungo filare di pini teso come una tangente.

Vado a vedere.

I tronchi spuntano dritti come menhir. Le chiome si congiungono. Cammino sotto un tetto di nuvole verdi che si sfilacciano di tanto in tanto scoprendo omologhi addensamenti violacei.

Il cielo è carico di elettricità. Pioverà.

Da un lato un canale d'acqua irreggimentato tra sponde di cemento. Dall'altro un rigagnolo inciso in un tappeto d'erba che precipita in basso.

È bello il posto. Come un viale che sorvola antiche mura.

Le chiome si specchiano e scoloriscono in un grigio melmoso.

Qui da noi la bellezza deve lottare con la controparte. Un marcantonio grosso che tira cazzotti che fanno un male boia. Fino a uccidere. Allora la bellezza finge di soccombere per acquattarsi dolorante tra le pieghe in attesa. È pur sempre una salvezza.

Mentre trattiene il respiro, perde íl suo nome.

Si chiamerà, chissà, tregua. O ribellione. O disperazione bianca.

E se smuovendo la crosta la chiamerai bellezza, ti guarderà con lo sguardo appannato di chi è sfinito dal ribattere. Non dirà una parola. Neanche la speranza di essere riconosciuta per ciò che tace. Fino a farti sentire in colpa.

E pensi che bisognerà cambiare nome a tutte le cose. O restituirglielo.

Una puzza di marcio che brucia ogni resistenza umana sale dal canale e occupa il luogo. Immorale come la pornografia.

Vado avanti. Le sponde di cemento racchiudono l'acqua facendola marcire come in una prigione. Il canale va dritto in una processione di melma e si perde lontano. Il rigagnolo scompare sotto il dominio delle erbe. Come un fiume sotterraneo senza nome che irriga il suolo dei propri miasmi.

Un edificio rosso è ridotto alla carcassa di un depuratore. Una vecchia aspetta sulla soglia. Il volto di legno racconta una nostalgia lontana di secoli. Stanca. Consumata. Quando bambina nell'aia salutava uomini con i gambali di cuoio e il fucile a tracolla che scendevano da cavallo e bevevano caffè di cicoria.

Stringe uno stecco in una mano, bianco come un osso. Poi lo posa su una panca. Ha intorno al collo una collana di perle candide che rilucono.

Altri tempi, qui c'erano le vasche della canapa e le nonne immergevano i bambini nell'acqua fetida per rinforzarli. Una usanza che mi racconta prima di premere un fazzoletto sul naso.

Ha un senso questa vecchia qui. Come un'apparizione, per dirmi cosa. Un presagio. Indica un punto.

Mi guardo intorno. Non ci sono altri esseri umani, espulsi dalle spire di tutti i luoghi sacrificati. Lontano oltre un improbabile cavalcavia che si immobilizza nel cielo come il dorso inarcato di un animale – non si capisce che cosa scavalchi – vedo una masseria. La masseria della lupara, dice la vecchia, me la stanno portando via. Pezzo pezzo, si vede ancora un fasto antico, pietra dopo pietra, fregio, dopo fregio, affogata in uno spiazzo di fango sotto la violenza di avvoltoi.

In un recinto ciondolano poche indolenti bufale nere.

La puzza è asfissiante. Disumana. Guardo l'acqua. Si ravviva in tragici gorghi ad ogni scarico laterale. Come affluenti di un fiume.

Ci sono luoghi con i fiumi.

Davanti a un fiume ogni uomo ha sognato di navigare per andare lontano. Ha guardato all'altra sponda come alla possibilità di un'esistenza diversa. Ha visto scorrere tutte le opportunità sfumate. Ogni uomo che volesse conoscere se stesso ha pensato di discendere un fiume. Verso un punto nomade. Ogni uomo ha cercato di sentire verso sera nel silenzio del sartiame arrotolato sul peschereccio la voce del viaggio, degli approdi, degli angiporti, degli antipodi, del mare infine.

Ogni uomo ha creduto di poter tagliare i ponti.

Ci sono città con i fiumi. E trattengono nell'aria tra i comignoli delle case e gli alberi delle barche le fitte inquiete della partenza. E gli uomini abitano nella trama dell'avventura.

Sognano un giorno di rifondare.

Ci sono acque che non fanno sognare.

Mi guardo ancora intorno. Vedo palazzi, strade, un campanile, una stazione, l'orologio sulla porta, un barbiere. Vedo i lampioni che si accendono quando le ombre si allungano, i ragazzi che rompono in terra le bottiglie di birra. Vedo facciate ingrigite dove erano i pini. Vicoli e insegne. Edicole e botteghe. Tufi e piperni. Intonaci screpolati. E la mia città. Vituperata. Riconosco la puzza dei cumuli di spazzatura che conquistano metro dopo metro strade piazze angoli slarghi, come in un assalto vittorioso. Che sgretola ogni forma di resistenza. Riconosco la puzza delle cose andate a male. Una puzza che ustiona.

Piove.

Gocce troppo grandi cadono dal cielo. Tonde come bulbi.

Non sono gocce d'acqua.

Piove ed è una cerimonia per la fine di una storia.

Palpebre chiuse anneriscono il cielo come stormi e piovono sulla strada, si impigliano tra gli aghi di pino, nell'intrico dei rami, scivolano sui tronchi degli alberi fino alle radici che rigonfiano il suolo, si depositano nei rappezzi dell'asfalto, ricoprono in migliaia le pozzanghere. Assalgono la malerba come fiori tristi, le zolle di terra rimosse. I copertoni abbandonati. Hanno ricoperto tutto il viale, minuziosamente. Occhi uno vicino all'altro, uno sopra l'altro, serrati, sulle sponde. Galleggiano sul canale e nascondono l'acqua. Atomi mondati da ogni ipotesi di sangue.

Non c'è cruenza. Solo una distesa infinita di occhi ciechi.

    aprile 2007
    Caivano
    ore 16

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Pagina 73

Viti maritate


I pioppi sono allineati e distanziati, i contadini legano tra l'uno e l'altro fili di ferro paralleli. Sui fili si arrampicano e si allargano i rami delle viti, nascono da un ceppo e si intrecciano in una struttura radiale con i rami del ceppo vicino.

La trama si ripete campitura dopo campitura in una lunga sequenza.

I fili si incurvano sempre di più salendo verso l'alto, il filo in sommità si inarca come una catenaria, tutto è un diagramma di forze.

I fili sono la sottotraccia appena visibile del reticolo di rami e nodi, ma il gioco continua.

I rami sono a loro volta la sottotraccia del fogliame che tra pochi giorni tutto coprirà.

«Preferisco le viti maritate in questa stagione, le preferisco in bianco e nero come in una grafica, le preferisco contaminate dalla presenza immancabile di una casa sullo sfondo... le preferisco incuneate tra lo svincolo dei viadotti della superstrada dove pali della luce lisci e bianchicci sostituiscono i pioppi. La bellezza non è mai da una parte soltanto, a volte è nella contaminazione...».

«La mia prima impressione è un senso di soffocamento, come se fosse una gigantesca tela di ragno da cui è difficile uscire...».

«Ti senti in trappola?».

«È difficile sottrarsi, è come essere nella trama di vene di un corpo e non riuscire a essere fuori e guardare con un'altra prospettiva, magari dall'alto...».

«Eppure io mi avvicino e lancio lo sguardo quasi parallelo alla lunga parete traforata e i rami in prospettiva si accostano e la trama si fa ancora più fitta, quasi non dà scampo... e questo mi piace. Mi sembra una potenza e allora sale un'altra sensazione... sì, proprio così, sale come salgono questi rami dalla terra, come già vi salgono i succhi interni, sale un'altra sensazione, quella di un dialogo silenzioso ma fittissimo tra ogni pianta e le vicine e questo tessuto interminabile, se mi metto ad ascoltare, è come se facesse risuonare di voci la terra. Si sentono le voci degli uomini che hanno intrecciato i fili e dialogano con le piante che dialogano tra loro per mezzo della rete. È molto fitto il tessuto...».


... le voci degli uomini, le bestemmie... l'uomo è in cima alla scala così stretta che si stenta a credere, un ginocchio infilato tra i pioli e il piede puntato su quello inferiore, l'altra gamba tesa fino al piolo più in basso, le mani allungate ad annodare un ramo al filo, l'uomo è intento a fare il lavoro e una fondina gli pende sul fianco.

Sembra arpionato, da sotto la pancia è ancora più gonfia.

A fianco altre scale vuote partecipano alla geometria generale, come tentativi per raggiungere l'altezza, e ti aspetti che all'improvviso comincino ad allungarsi come il mercurio nel termometro.


«Il vento a volte le ribalta... d'inverno, quando è forte...».

«E questi sono pioppi?».

«Pioppi vecchi, perciò li vedi così storti... ne hanno passate... tira di qua, tira di là... coi fili... il trattore...».


... magari dall'alto... da dove si riconoscono le tracce di antichi territori, misure romane e reticoli quadrati, riconoscibili chiari: centuriazioni; e le viti parallele orientate logiche, lunghi fili che potresti allungare e intrecciare su tutta la terra, e scoprire gli indizi delle ragioni umane, uno sguardo dall'alto privo di schifiltà.


La campagna è solcata da lunghe dighe.

Più avanti irrompe il colore, una vaporosa nuvola rossa, come la balza di un vestito di fate, sono i fiori di pesco già sbocciati ed è bellissimo l'omologo grigio del cielo annuvolato.

Un cielo basso, incombente, prossimo al crollo, come in un graffito primitivo la grande catenaria superiore vuole sorreggerlo. Un cielo che spegne ogni inutile indugio. Così i fiori sono più seri. I colori più densi, quasi cupi.

[...]

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