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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 1. Perché tanta disuguaglianza? 9 2. Prezzi contro valori 27 3. Debito, guadagno, ricchezza 49 4. Credito, crisi, Stato 61 5. Meccanismi stregati 83 6. Due mercati edipici 109 7. Stupidi virus? 129 8. Denaro 151 Al posto di un epilogo. La pillola rossa 179 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Perché gli aborigeni australiani non hanno invaso l'Inghilterra? Tutti i bambini nascono nudi. Ma, molto presto, alcuni di loro vengono avvolti in costosi vestitini acquistati nelle migliori boutique, mentre la maggioranza si veste di stracci. Appena crescono un po', i primi storcono il naso ogni volta che i parenti o gli amici portano loro degli abiti nuovi (dato che preferirebbero regali ben diversi), mentre i secondi sognano il giorno in cui andranno a scuola con le scarpe non bucate. Questo è un aspetto della disuguaglianza che definisce il nostro mondo. Forse ne senti parlare, ma non te ne rendi davvero conto, non ce l'hai davanti, perché, diciamocelo francamente, io e tua madre ti mandiamo in una scuola che i ragazzi condannati a una vita di privazioni e violenza — purtroppo sono moltissimi, nel mondo — non possono frequentare. So, però, che sei a conoscenza, almeno in teoria, del fatto che gran parte delle persone non sono fortunate come te e i tuoi compagni di classe. Qualche tempo fa mi hai chiesto: «Perché c'è tanta disuguaglianza?», ma la risposta che ti ho dato non ha soddisfatto neanche me. Spero, quindi, che mi permetterai di provare di nuovo a rispondere, e stavolta ponendo io la domanda. Dato che sei cresciuta in Australia, a scuola hai partecipato a molte manifestazioni e seguito molte lezioni sugli aborigeni — sulle ingiustizie che hanno subito, sulla loro cultura, che i bianchi colonizzatori britannici hanno calpestato per due secoli, sulla povertà in cui, scandalosamente, vivono ancora. Ti sei mai chiesta, però, perché sono stati gli inglesi ad aggredire l'Australia, impossessandosi con la forza della terra degli aborigeni e, di fatto, annientandoli, e non il contrario? Perché i guerrieri aborigeni non sono sbarcati a Dover e non sono penetrati rapidamente fino a Londra, assassinando qualunque inglese osasse opporsi? Scommetto che nessuno dei tuoi insegnanti ha mai neanche osato pensare di chiederlo. Eppure si tratta di un quesito importante. Se non rispondiamo in modo convincente, corriamo il rischio di accettare, senza pensarci, l'idea che gli europei fossero, in fin dei conti, più intelligenti e capaci. L'argomento opposto, ossia che gli aborigeni australiani fossero uomini migliori e che proprio per questo non siano diventati dei brutali colonialisti, non convince, poiché l'unico modo per provarlo sarebbe l'aver costruito grandi navi capaci di attraversare gli oceani e l'aver avuto le armi e la forza per arrivare alle coste dell'Inghilterra e battere l'esercito inglese ma, ciononostante, l'aver deciso di non sottomettere gli inglesi né di rubar loro le terre del Sussex, del Surrey e del Kent. Torniamo allora alla domanda iniziale: perché c'è tanta disuguaglianza tra i popoli? Forse perché alcuni popoli sono più intelligenti di altri? Oppure c'è dell'altro, qualcosa che non ha a che fare né con la provenienza né con il Dna delle persone, e che può spiegare come mai per le strade di Sydney non hai mai visto la povertà che invade, per esempio, le città della Thailandia. | << | < | > | >> |Pagina 20Ritorno alla domanda: perché i britannicí hanno sottomesso gli aborigeni e non viceversa?È ora di tornare alla domanda da cui sono partito. Perché gli inglesi hanno conquistato l'Australia e non gli aborigeni l'Inghilterra? In generale, perché tutte le superpotenze imperialistiche sono sorte in Europa e, più di recente, negli Stati Uniti (cresciuti grazie al «lievito» importato dall'Europa)? Com'è che in Australia o in Africa non si è formata nessuna superpotenza? È una questione di Dna? Certo che no! La risposta deriva da quanto ti ho detto finora. Abbiamo visto che in principio era il surplus. Senza surplus agricolo non sarebbe scoccata la scintilla da cui sono scaturiti gli eserciti, gli Stati autoritari, la scrittura, la tecnologia, la polvere da sparo, le navi transoceaniche eccetera. Abbiamo visto che le economie agricole hanno sviluppato persino le prime armi batteriologiche, in grado di distruggere popolazioni non agricole come quelle degli aborigeni australiani. Abbiamo visto che in Paesi come l'Australia, dove il cibo non è mai scarseggiato (dato che centinaia di migliaia di persone, in perfetta «collaborazione» con la natura, avevano esclusivo accesso alla flora e alla fauna di un continente delle dimensioni dell'Europa), non c'era alcuna ragione per mettersi a inventare la tecnologia agricola, necessaria a mietere un surplus.
Oggi sappiamo (una cosa che anche tu sai molto
bene) che gli aborigeni avevano creato una poesia, una
musica e una mitologia di altissimo valore culturale.
Non avevano, però, i mezzi per attaccare altri popoli
o per difendere se stessi. Al contrario gli inglesi, parte
del mondo eurasiatico, erano obbligati dalle circostanze a sviluppare il surplus
e tutto quel che comportava, dalle navi transoceaniche alle armi
batteriologiche. In questo modo, quando gli inglesi sono arrivati sulle coste
dell'Australia, gli aborigeni non hanno avuto alcuna speranza di cavarsela.
E l'Africa? «E l'Africa?» mi potresti chiedere. «Perché non c'è stata neanche una potenza africana in grado di minacciare l'Europa? Perché la tratta degli schiavi è stata a senso unico? Non è che, in fin dei conti, gli africani erano davvero inferiori agli europei?» No, niente di tutto questo. Ti basta dare un'occhiata alla cartina e confrontare la forma dell'Africa con quella dell'Eurasia. La prima cosa che noterai è che l'Africa si sviluppa in senso longitudinale. È – diciamo così – «lunga e stretta». Comincia nel Mediterraneo, si protende verso l'equatore, lo supera e penetra nell'emisfero meridionale. In altre parole, attraversa molte zone climatiche diverse: il deserto del Sahara, le aree tropicali e quelle subtropicali, il Sudafrica temperato. Guarda, adesso, l'Eurasia. Contrariamente all'Africa, che si estende da nord a sud, l'Eurasia inizia a ovest sull'Atlantico e si allarga verso est, fino alle coste della Cina e del Vietnam, sul Pacifico. È, insomma, «bassa e grassa».
Ciò significa che possiamo attraversare l'Eurasia dal
Pacifico all'Atlantico affrontando variazioni ambientali
relativamente modeste, mentre se andiamo da Johannesburg ad Alessandria d'Egitto
passiamo da una miriade di climi diversi. E perché questo è importante? Per
la semplice ragione che le società africane che avevano
sviluppato economie agricole (per esempio, quelle che
vivevano nell'odierno Zimbabwe) non potevano espandersi verso l'Europa perché
era impossibile per loro trapiantare le coltivazioni a nord, verso l'equatore o,
ancor peggio, nel Sahara. Al contrario, i popoli eurasiatici, una
volta scoperta la produzione agricola, hanno potuto agevolmente e a loro
piacimento spingersi verso occidente
o oriente, occupando altri territori, impadronendosi del
surplus, ma anche della cultura, delle popolazioni che
conquistavano, copiandone la tecnologia e creando veri
e propri imperi. In Africa, a causa della conformazione
geografica, tutto ciò sarebbe stato impossibile.
E quindi, perché tanta disuguaglianza? Sul piano della distribuzione mondiale dei beni, il fatto che Africa, Australia e America siano state sottomesse dagli europei si spiega con quello che ti ho raccontato finora: le condizioni geografiche oggettive hanno portato gli aborigeni australiani, i nativi americani e la maggior parte degli africani alla situazione attuale. Come vedi, non c'entra nulla il Dna dei bianchi, dei neri o dei blu. La chiave non è altro che il surplus agricolo e la relativa facilità o difficoltà a estendere le coltivazioni in modo che l'accumulo di surplus e la creazione di grandi Stati espansionistici (o, come si diceva una volta, imperialistici) si sostenessero a vicenda. Ma la disuguaglianza cresce anche a un altro livello: all'interno delle società sviluppate. Come ti dicevo parlando dello Stato e del clero, nati entrambi con la diffusione dell'agricoltura, l'accumulo del surplus produttivo ha richiesto (e ha creato) una «superconcentrazione» di potere, e quindi di ricchezza, nelle mani di poche persone. Questa disuguaglianza, che corrisponde a uno squilibrio sul fronte politico, ha la tendenza ad autoalimentarsi e a riprodursi, aumentando sempre di più. In effetti, la possibilità di disporre del surplus crea un potere economico, politico e culturale su cui si può far leva per impadronirsi di una fetta ancora maggiore del surplus a venire. In parole povere, è molto più semplice guadagnare un milione di euro quando se ne possiedono già svariati milioni. Se non si ha nulla, invece, anche mille euro possono diventare un sogno irrealizzabile. Abbiamo quindi due piani su cui si sviluppa la disuguaglianza. Il primo, a livello mondiale, spiega perché alcune nazioni sono entrate nel XX e nel XXI secolo poverissime, mentre altre avevano tutti i vantaggi della potenza e della ricchezza, molto spesso ottenute saccheggiando i Paesi più poveri. L'altro piano risiede all'interno di ogni società. Anzi, molte volte notiamo che nei Paesi poveri i (pochissimi) ricchi sono molto più ricchi di molti ricchi dei Paesi più ricchi. La storia che ti ho raccontato in questo capitolo riconduce le radici della disuguaglianza alla produzione di surplus economico, ossia alla prima rivoluzione tecnologica della storia: l'agricoltura. Continuerò a narrartela nel capitolo che segue, in cui ti renderai conto che le disuguaglianze aumentano ancor di più a causa delle successive rivoluzioni industriali (per esempio, con l'invenzione della macchina a vapore o del computer), che hanno dato un contributo fondamentale alla creazione della società che vedi intorno a te. Prima di questo, però, un suggerimento: anche in futuro non cedere mai alla tentazione di accettare una spiegazione logica per le disuguaglianze che finora, da ragazza che sei, hai ritenuto inaccettabili. | << | < | > | >> |Pagina 36Tutte le società, sin dalle origini, hanno sviluppato dei mercati. Bastava che qualcuno dicesse a qualcun altro: «Se mi dai una delle tue mele, io ti darò una delle mie arance». Certo, non si trattava ancora di società di mercato. O, per dirla diversamente, non si trattava di società caratterizzate da una logica di mercato, come invece accade oggi. Per comprendere la differenza tra una «società di mercato» e una «società con dei mercati» è sufficiente farsi un paio di domande.Come si spiega il successo dei mercati spagnoli in America latina nel Cinquecento, o di quelli inglesi e olandesi in Estremo Oriente, un secolo dopo? Come si spiega il successo dell'industria automobilistica giapponese negli Usa dagli anni Settanta in poi? Alla prima domanda possiamo rispondere senza problemi considerando la potenza della marina militare del Regno di Castiglia e l'incontrastato predominio delle armi dei conquistadores sui Maya nel continente sudamericano. E la stessa cosa vale per gli inglesi e gli olandesi in Estremo Oriente, poiché anche in quel caso l'egemonia era collegata alla presenza delle loro flotte sia nell'Oceano Indiano sia nel Pacifico. Bene. Ma alla seconda domanda non si può rispondere ricorrendo alla supremazia militare o navale. La questione può essere illustrata solo in termini economici – termini che hanno a che fare con la struttura dell'industria giapponese, la sua capacità d'incrementare la produzione senza aumentare le spese, la qualità delle sue auto, le loro caratteristiche tecnologiche eccetera. Per dirla in modo più semplice, la supremazia dei mercati europei in Estremo Oriente e in America prima del XIX secolo non ha bisogno di un'analisi economica per essere spiegata, per la semplice ragione che, allora, non erano ancora sorte economie fondate su una logica di mercato, ossia società di mercato, ma solo società con dei mercati. La ragione per cui ti affliggo raccontandoti l'economia è il fatto che oggi le nostre società sono società di mercato, e quindi possiamo comprenderle e accettarle solo in quanto tali, in termini economici, cosa che non valeva tre secoli fa. La domanda ora diventa: come e perché sono sorte le società di mercato a partire dalle società con dei mercati? | << | < | > | >> |Pagina 44Pensa all'Inghilterra come a un enorme pentolone in cui sobbollivano centinaia di migliaia di diseredati senza lavoro, insieme al denaro che andava moltiplicandosi nelle banche di Londra grazie al commercio con le colonie britanniche, in particolare dei Caraibi, dove gli schiavi africani lavoravano nei campi dei conquistatori inglesi. Ora aggiungi al pentolone la macchina a vapore del signor Watt. Mescola un po', e che cosa pensi di aver ottenuto? Le fabbriche! Ed è lì che, per la prima volta nella storia, i discendenti degli ex contadini senza terra hanno trovato lavoro come operai e hanno cominciato a sudare accanto alle macchine.
E di chi è stata l'idea? Chi ha pensato di creare le
fabbriche? Ma ovviamente i mercanti, o quegli aristocratici che avevano notato
che per alcune merci c'era
maggiore richiesta sul mercato internazionale — come
per i prodotti di lana, i tessuti e i metalli. Hanno pensato che, se potevano
produrre in fretta e a buon mercato, si sarebbero arricchiti ancora di più.
Vedevano le orde degli ex contadini disoccupati sciamare per le
strade implorando un pezzo di pane, un lavoro, qualsiasi cosa. Poi hanno sentito
di un certo signor Watt, che aveva inventato una macchina capace di far muovere
contemporaneamente mille telai. Non c'è stato
bisogno di null'altro: il sorgere delle prime fabbriche
era solo questione di tempo.
La grande contraddizione Il trionfo dei valori di scambio su quelli d'esperienza ha cambiato il mondo, tanto in positivo quanto in negativo, e tutto in una volta! Da un lato, la commercializzazione dei beni, della terra e del lavoro ha posto fine alla servitù della gleba, a incredibili pregiudizi, agli Stati teocratici, all'oscurantismo. Ha fatto nascere l'idea della libertà, la prospettiva di un'abolizione della schiavitù, la potenzialità tecnologica per produrre beni sufficienti per tutti. Dall'altro, ha creato una miseria e un'infelicità mai viste, insieme a un nuovo tipo di povertà e a nuove forme di lavoro. Con l'avvento della società del mercato, a causa dell'esclusione dei contadini dalla terra coltivabile, quei diseredati si sono trasformati o in operai manifatturieri o in fittavoli che pagavano un canone ai proprietari terrieri. In entrambi i casi, si trattava di produttori «liberi», nel senso che nessuno poteva costringerli a lavorare, come accadeva nel feudalesimo. Di fatto erano liberi di fare quel che volevano dal momento che il loro lavoro aveva dei «clienti», ma erano anche stati «liberati» dai mezzi di produzione (ossia erano letteralmente in mezzo a una strada). Certo, potevano andare dove gli pareva, ma al tempo stesso erano alla mercé della povertà assoluta causata dall'esclusione dalle terre e dalla disoccupazione. Mercanti del loro corpo e del loro cervello, alla deriva in un mercato del lavoro che, a sua volta, dipendeva dall'offerta e dalla domanda mondiale di merci. Chi non era disoccupato, sgobbava per più di quattordici ore al giorno nell'atmosfera opprimente delle telerie di Manchester o dei giacimenti minerari del Galles. I giornali del tempo ci informano di bambini di dieci anni che in Inghilterra e in Scozia vivevano incatenati giorno e notte alle macchine a vapore per lavorare il più possibile. Donne incinte sfacchinavano nelle miniere della Cornovaglia e spesso erano costrette a partorire, senza alcun aiuto, dentro i cunicoli. Nello stesso periodo, nelle colonie (per esempio, in Giamaica) e nel Sud degli Stati Uniti, la produzione continuava a basarsi sulla forza-lavoro degli schiavi, strappati alla loro patria dai negrieri che li rivendevano al prezzo di scambio. Nella storia non era mai successo nulla del genere. Certo, l'umanità si era globalizzata molto prima (del resto, come sai, siamo tutti africani). Ma la Rivoluzione industriale ha creato la grande contraddizione: la coesistenza di ricchezze favolose e miseria indicibile. In questo modo, le disuguaglianze create dalla rivoluzione dell'agricoltura (che ti ho raccontato nel capitolo precedente) sono diventate ancora maggiori a causa delle nuove problematiche provocate dalla Rivoluzione industriale e dal trionfo dei prezzi sui valori. | << | < | > | >> |Pagina 78Debiti, ricchezze, Stato: un riassuntoIl debito è la materia prima delle società di mercato. Che cosa si produce con questa materia prima? L'utile, che è la forma che prende il surplus nelle società di mercato trasformandosi in due cose: la prima è l'investimento in nuova tecnologia (per esempio, le biciclette in carbonio di Michalis), in posti di lavoro e in prodotti; la seconda è... la ricchezza di chi ha accesso all'utile e lo accumula.
Se la comparsa dell'agricoltura, poco meno di
12.000 anni fa, ha creato il surplus ma anche le grandi
disuguaglianze (ricorda il primo capitolo), l'emersione
delle società di mercato all'interno della Rivoluzione
industriale ha accresciuto in modo straordinario tanto il surplus quanto le
disuguaglianze (e questo te lo
spiegherò più in dettaglio nel capitolo seguente). Allo
stesso tempo, ha dato origine allo Stato moderno, attribuendogli il suo
indispensabile ruolo di regolatore.
Ecco perché: il «miracolo» delle società di mercato
dipende dalla magia del sistema bancario che, però,
tende a diventare magia nera — e questo accade sempre, con la stessa regolarità
con cui i moscerini sono attratti dalla luce. Come risultato, scoppiano crack e
crisi economiche, che richiedono allo Stato interventi di grandi dimensioni:
• interventi che non sono affatto neutrali o imparziali; • interventi che accrescono ulteriormente le disuguaglianze; • interventi che alimentano il potere dei banchieri sugli imprenditori e sulla società in genere;
• interventi che diminuiscono il potere sociale di
chi non dispone né di banche né di imprese, ma
si mantiene solo col lavoro per il quale viene retribuito (o, per l'esattezza,
spera,
se sarà abbastanza fortunato, di venire retribuito).
Ogni società ha i suoi miti. La società di mercato non fa eccezione. I miti fondamentali del nostro tempo sono quattro: 1. Il debito privato è una cosa malvagia che le persone serie evitano, come il diavolo l'acqua santa. 2. Le banche prestano i soldi prendendoli dai depositi dei correntisti. 3. Il guadagno viene prodotto dai privati a livello individuale e lo Stato interviene per distribuirlo a favore dei più deboli.
4. Lo Stato è una struttura parassitaria e, in potenza, è avversario del
settore privato, ossia degli imprenditori.
Come tutti i miti, anche questi contengono qualcosa di vero, ma a ognuno di essi, in effetti, si può far corrispondere una verità completamente diversa: 1. Il debito privato è la materia indispensabile del guadagno. 2. Il debito privato porta al crack e alla crisi perché le banche producono crediti dal nulla, o meglio: quanto maggiore è il valore di scambio che riescono a sottrarre al futuro e a portare nel presente, tanto maggiori sono gli utili che accumulano. 3. Nelle società di mercato, il surplus viene prodotto a livello collettivo, ma in seguito, con l'aiuto dello Stato, viene privatizzato da coloro che hanno più potere sociale. 4. Le banche sono parassitarie per antonomasia, mentre lo Stato ha il ruolo indispensabile di stabilizzatore, perché argina la crisi originata dal settore privato e, parallelamente, aiuta i potenti a mantenersi tali.
Insomma, i potenti delle società di mercato esigerebbero, se già non
esistessero, che venissero inventati sia il debito pubblico sia il monopolio
statale del denaro (e se oggi sbraitano contro il debito pubblico
e la Banca Centrale, lo fanno perché si sentono al sicuro!).
In breve Debito, guadagno, ricchezza, crack, crisi: sono tutti elementi di un dramma. E questo dramma tocca i confini dell'assurdo quando, in seguito alle difficoltà causate dalla tracotanza dei potenti, in particolare dei banchieri, gli stessi potenti rifiutano con sprezzo l'idea di uno Stato che fornisca aiuto a chi ne ha veramente bisogno, ma ritengono di avere il diritto di chiedere, proprio a quello Stato, continue iniezioni di denaro al fine di risolvere i loro problemi. Si tratta di un puzzle complesso, di un enigma che puoi tentare di sciogliere illuminandolo con la luce della ragione, affrontandolo come una caccia al tesoro che si svolge su tutta la Terra, i cui indizi sono disseminati ovunque, in ogni luogo in cui gli uomini lavorano, soffrono e sognano. | << | < | > | >> |Pagina 94La resistenza del lavoro umano alla commercializzazioneUn esercito di androidi è il sogno di ogni imprenditore. Di ogni datore di lavoro. Lavorerebbero giorno e notte non solo svolgendo mestieri manuali, ma anche facendo gli architetti, i progettisti, gli inventori. Senza particolari esigenze (a parte quelle previste dalla manutenzione: revisione periodica, lubrificazione costante e fornitura di energia), senza problemi psicologici, senza il bisogno di andare in vacanza, senza un'opinione sull'azienda e, naturalmente, senza nessunissima simpatia per il... sindacato. La concretizzazione di questo sogno porterebbe, però, alla rovina del mercato del lavoro. Ricordi che ti dicevo che non possono esistere valori di scambio se non c'è l'uomo come fattore di produzione? Se tutta la produzione fosse affidata a eserciti di androidi, nessuno dei prodotti avrebbe un valore di scambio, perché se ne potrebbero sfornare quantitativi indefiniti, al punto che il loro prezzo, il loro valore di scambio, tenderebbe a zero. Esattamente come nella società delle macchine di Matrix o all'interno di un computer, in cui possiamo osservare un'enorme quantità di lavoro, migliaia di processi produttivi in atto, ma nessun prezzo e nessun valore di scambio. In una previsione meno pessimistica, una rivoluzione tecnologica del genere potrebbe portare all'eliminazione dei valori di scambio senza però distruggere la società umana. Succede, per esempio, in Star Trek, dove le macchine producono e gli uomini esplorano il cosmo interrogandosi sul senso della vita. Se ho ragione quando dico che la produzione di valore richiede la mediazione umana, allora abbiamo individuato un'interessante contraddizione sepolta nelle fondamenta delle odierne società di mercato. Da un lato le grandi aziende, che fabbricano quantità enormi di merci che tutti noi desideriamo, vorrebbero meccanizzare al massimo il processo produttivo in modo da ridurre i costi. (Se vai in una fabbrica di automobili o di computer, vedrai eserciti di robot che lavorano alacremente con il minimo intervento umano.) Dall'altro, però, quanto più le aziende riescono a sostituire i lavoratori con le macchine e a imporre ai lavoratori stessi una disciplina automatizzata, tanto più scende il valore dei loro prodotti e tanto più diminuiscono i loro guadagni. È quel che ti dicevo prima riguardo al sogno di ogni imprenditore, che si trasforma in un incubo quando diventa realtà per tutti. Come sostengono gli inglesi: «Guardati dal dio che realizza i tuoi più grandi desideri!». Adesso puoi capire perché ho iniziato questo capitolo parlandoti di Frankenstein, Matrix e Blade Runner, capolavori della fantascienza che all'apparenza non hanno nulla a che vedere con l'economia. In realtà, queste opere riguardano moltissimo le questioni economiche, e in particolare le crisi che affliggono periodicamente le società di mercato. Le grandi aziende si sentono obbligate dalla forte concorrenza a trasformare il più possibile i loro dipendenti in macchine che forniscono prestazioni, a far somigliare il più possibile l'assunzione di un operaio all'acquisto di un generatore elettrico o di un androide. Ma, per quanto ci provino, la cosa non può riuscire. Anche se lo si volesse, il fattore umano non perderà mai la sua capacità di stupire e stupirsi (per esempio, con la sua inventiva o le sue tendenze autodistruttive), di ribellarsi, di avere comportamenti imprevedibili e di andare ben oltre la programmazione: tutte cose che un androide non potrebbe mai imitare. Il paradosso è che proprio l'impossibilità da parte delle imprese di annullare le resistenze dei lavoratori per trasformarli in docili androidi salva le società di mercato. Perché? Perché se le resistenze fossero vinte, i valori di scambio, i prezzi e gli utili delle imprese si azzererebbero, distruggendo dalle fondamenta la base delle società di mercato, ossia il guadagno! È questo, per me, il significato dell'ultima scena di Blade Runner, quando Rick Deckard, il protagonista, si innamora di una delle androidi che hanno sviluppato dei sentimenti e fugge via con lei invece di distruggerla. In quel momento, insomma, smette di dare la caccia a creature la cui vicenda esistenziale è esattamente opposta rispetto a quella dei lavoratori di oggi. Mentre questi ultimi resistono strenuamente al tentativo degli imprenditori di trasformarli in androidi (e questa resistenza permette alle società di mercato di sopravvivere), gli androidi di Blade Runner sono riusciti a superare la loro natura di macchine e a diventare umani, e ci permettono di sperare che la tecnologia non condurrà necessariamente alla distopia di Matrix ma a qualcosa di più vicino all'utopia di Star Trek. | << | < | > | >> |Pagina 102In ogni crisi, lo capisci bene e del resto l'abbiamo visto poco fa, il presente non riesce a restituire i valori che il sistema bancario ha preso in prestito dal futuro. E quando questo accade, la conseguenza è una sola: bisogna che il debito venga cancellato. Non si tratta di una questione morale – ossia se sia giusto e degno non pagare i debiti che si hanno verso gli altri o verso il futuro. È una questione pratica: quando il debitore fallisce, non c'è alcuna possibilità che ripaghi i suoi debiti. Punto e basta.Ma, guarda un po'... i banchieri non accettano questa semplice realtà! Muovono mari e monti e si ingegnano in tutti i modi per convincere i politici a non cancellare i debiti dei privati, delle imprese e dello Stato nei loro confronti. E questo, nonostante siano proprio loro – i banchieri – i responsabili dell'irragionevole sottrazione di valore dal futuro che ha fatto indebitare tutti, trasportando nel presente un valore che non è più possibile restituire. Sta' attenta, perché il tentativo dei banchieri di persuaderci, in mala fede, che i nostri debiti nei confronti del futuro possono essere ripagati ha un'importanza fondamentale. Se i banchieri riescono a evitare la cancellazione del debito che – non c'è proprio niente da fare – non è ripagabile, questo resta nei registri delle banche come se potesse essere ripagato. A quel punto le imprese sopravvissute alla crisi, anche se volessero procedere a nuove assunzioni e a nuovi investimenti (per la ragione di cui ti ho parlato prima), non possono. Per tre motivi: 1. le banche non danno prestiti, visto che si fondano su beni patrimoniali inesistenti, ossia i debiti dei privati e dello Stato nei loro confronti, che non potranno mai essere ripagati; 2. le imprese sopravvissute, essendo già fortemente indebitate, non hanno alcuna voglia di contrarre altri debiti – cosa che vale anche per le famiglie, che per lo stesso motivo esitano prima di ricominciare a consumare anche se i loro introiti tornano a crescere;
3. lo Stato, avendo da parte sua deficit e debiti, è costretto ad aiutare le
banche a non chiudere, imponendo nuove tasse sulle imprese e sulle famiglie già
indebolite (e indebitate nei confronti delle banche),
con il risultato di ostacolare gli investimenti delle
prime e il consumo delle seconde.
Perché questa è l'opzione peggiore? Perché in una
situazione del genere, nonostante la tendenza all'aumento degli utili delle
imprese sopravvissute alla crisi
più nera, l'influenza delle banche sulla società (e sui
cittadini) può allontanare la ripresa e lasciare la società di mercato nella
palude della Depressione. Solo
se la società nel suo complesso si solleva e chiede con
forza un intervento coordinato dello Stato per la cancellazione del debito può
esserci un miglioramento.
Solo così l'atmosfera può ripulirsi da questa nebbia e
la ripresa cominciare. Certo, c'è uno scenario ancora peggiore — una guerra che
imponga ai politici di cancellare il debito attraverso la distruzione di edifici
e macchinari (e l'uccisione di migliaia di persone).
In questo caso, anche la crisi verrebbe annientata in
quattro e quattr'otto.
Epilogo: le macchine sono schiavi o padroni? L'uomo ha raggiunto la civiltà producendo utensili. Le macchine sono la forma più avanzata di utensile, e i robot intelligenti la forma più avanzata di macchina. Come il dottor Frankenstein voleva liberare l'uomo dalla paura della morte, così le macchine che costruiamo rispondono al desiderio comprensibile di liberarci dalla fatica del lavoro, che ci impedisce di scrivere poesie la mattina, far filosofia il pomeriggio, andare a teatro la sera e passare il resto del tempo tra le cene con gli amici e i piaceri della famiglia. Idealmente, la nostra capacità d'inventare e produrre schiavi meccanici dovrebbe liberarci e portarci più vicini a una società simile a quella di Star Trek, dove tutti gli uomini si occupano di questioni esistenziali, mentre le macchine lavorano. Però, quando le macchine appartengono a pochi, che le usano come strumenti da cui trarre guadagno, mentre ai più non resta che dare in affitto la loro forza-lavoro, queste finiscono per diventare le dominatrici incontrastate: tanto dei padroni quanto di chi lavora al loro fianco. La meccanizzazione delle società ci porta, dunque, più vicino alla distopia di Matrix che all'utopia di Star Trek, facendo sì che le macchine somiglino sempre più al mostro creato dal dottor Frankenstein. Generazioni intere vengono sacrificate sull'altare della crisi, colpo di reni con cui la società di mercato reagisce al trionfo delle macchine. Quanto più ci sviluppiamo, tanto più nutriamo, inconsapevolmente, il seme della crisi che incombe su di noi e, al tempo stesso, distruggiamo l'ambiente naturale in cui viviamo, avveleniamo le acque che beviamo, inquiniamo l'atmosfera che respiriamo, erodiamo il terreno su cui ci poggiamo. E quando il finanziamento alla produzione avviene attraverso la sottrazione da parte dei banchieri di quantitativi fuori controllo di valori di scambio futuri, ecco che le crisi, inevitabili, finiscono per sacrificare più di una generazione di lavoratori, finché un sovvertimento politico o una guerra non intervengono a schiacciare il tasto Delete, «Cancella», sul debito e ci fanno ricominciare da capo: più poveri, più divisi, meno umani, su una terra biologicamente provata. Ma è possibile per la società sfuggire al circolo vizioso che la conduce a Matrix, la costringe a subire lo spasmo della crisi e condanna milioni di uomini alla disperazione, per poi riprendere, ancora una volta, sempre sulla stessa strada verso Matrix, fino allo spasmo successivo? Possiamo esorcizzare il sortilegio che fa sì che le macchine, nostre creature, diventino i crudeli padroni del nostro destino? C'è possibilità di utilizzare la tecnologia anche a favore nostro e del pianeta che ogni giorno contribuiamo a distruggere? Una delle macchine di Matrix, l'agente Smith, a un certo punto condivide con l'umano Morpheus, alfiere della Resistenza, una riflessione: «Tutti i mammiferi di questo pianeta d'istinto sviluppano un naturale equilibrio con l'ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. [...] C'è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un'infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura». Forse la macchina ha ragione riguardo al comportamento che abbiamo tenuto finora. Come aveva ragione il mostro del dottor Frankenstein a odiare il genere umano, ivi compreso il suo creatore, che lo aveva atterrito. Ma io sono fiducioso sul fatto che la tua generazione smentisca l'agente Smith. Basta che non assumiate come dato di fatto la società di mercato e l'idea che gli schiavi meccanici debbano necessariamente appartenere a qualcuno, invece di essere una proprietà comune dell'umanità. | << | < | > | >> |Pagina 129Virus sbruffoni A giudicare dalle tre religioni monoteistiche — l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam — gli esseri umani hanno un'opinione di sé fin troppo grandiosa. Ci piace credere di essere stati creati «a immagine e somiglianza» di Dio, del Perfetto e dell'Unico. Ci sentiamo semidei, padroni della Terra, i soli mammiferi con il dono della Parola e della Verità e con la capacità di piegare l'ambiente alle proprie esigenze, invece di esservi sottomessi come capita a tutte le altre forme di vita. Per questo, forse, ci lascia sgomenti il fatto che una macchina si rivolga a noi come fa in Matrix l'agente Smith (o meglio, il riflesso nel cervello del protagonista dell'automa che usa quel nome). Ti ricordo di nuovo le sue parole: «Tutti i mammiferi di questo pianeta d'istinto sviluppano un naturale equilibrio con l'ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. [...] C'è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un'infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura». Quel che è peggio, è che sotto sotto temiamo che l'agente Smith abbia ragione – per non dire che sospettiamo che sia persino indulgente nei nostri confronti, dato che siamo anche più pericolosi di molti virus che evitano di uccidere gli organismi nei quali si rifugiano. Ovunque, in natura, possiamo notare i segni della catastrofe che segue il nostro passaggio. Da quando sono sorte le società di mercato, abbiamo distrutto i due terzi dei boschi del pianeta, creato le piogge acide che hanno avvelenato i laghi, sbarrato o prosciugato molti fiumi, accresciuto l'acidità degli oceani, eroso la terra, portato animali e piante all'estinzione, al punto da scompaginare l'equilibrio della biosfera. E, come se non bastasse, continuiamo a produrre sempre più gas (anidride carbonica, metano), che elevano talmente tanto la temperatura del pianeta da far sciogliere i ghiacci ai due poli, innalzando così il livello degli oceani, e sconvolgono il clima della Terra mettendo a rischio interi popoli. Chi può dubitare che l'agente Smith abbia ragione? Chi negherebbe che siamo molto simili al virus Ebola, che finisce per autodistruggersi quando uccide gli organismi nei quali trova rifugio? Mi dirai – e non posso certo contraddirti – che l'agente Smith non esiste. Che è il frutto della fantasia di uno sceneggiatore, un tentativo umano di dare la sveglia alle nostre coscienze. Proprio come il dottor Faust e il dottor Frankenstein, utilizzati da Christopher Marlowe e Mary Shelley per metterci in guardia dalle sventure che la società di mercato, allora ancora agli inizi, avrebbe portato con sé. Forse questi avvertimenti, attraverso la letteratura, l'arte e il cinema, ci dimostrano che esiste una speranza di non trasformarci davvero in un'epidemia, un cancro, un virus che minaccia il pianeta.
I virus, i batteri, i tumori maligni non hanno coscienza. Noi sì. E quindi,
quale occasione migliore per smentire l'agente Smith? In un modo o nell'altro
dobbiamo assumere una posizione critica e fronteggiare
con energia la nostra creatura più importante, ma ecologicamente catastrofica:
la società di mercato, che a poco a poco si sta trasformando nel nostro padrone
e, al tempo stesso, nel più grande nemico della Terra.
Valori di scambio contro pianeta Terra Le società di mercato hanno fatto la loro comparsa quando i valori di scambio hanno trionfato sui valori d'esperienza. È stata una delle prime cose che ti ho detto in questo libro. Abbiamo visto insieme che quel «trionfo» ha creato, contemporaneamente, ricchezze favolose e miseria indicibile. Che ha reso possibile l'automazione della società, accrescendo in modo esponenziale il numero di prodotti che l'umanità è in grado di produrre ma, al tempo stesso, trasformando gli esseri umani in servi, e non più padroni, delle macchine. Ora è arrivato il momento di scoprire come e perché la vittoria schiacciante dei valori di scambio ha posto il pianeta Terra sull'orlo della catastrofe ecologica. | << | < | > | >> |Pagina 139Nell'antica Grecia, quanti non ragionavano tenendo in considerazione l'interesse comune, quello della società, venivano chiamati idiotes. Nel XVIII secolo gli intellettuali inglesi, amanti della cultura classica, hanno dato alla parola idiotes, che indicava il «privato cittadino», il «cittadino che non occupa cariche pubbliche», il significato di «stupido». Da questo punto di vista la società di mercato ci ha trasformati in «idioti», in stupidi virus che uccidono il pianeta in cui vivono. Qualcosa di simile agli astronauti convinti che sia sensato avvelenare l'ossigeno all'interno della loro navicella spaziale.È possibile «sposare» l'interesse privato con quello planetario? Ma certo che è possibile! Gli aborigeni ce l'hanno fatta benissimo: hanno collaborato in modo da pescare e cacciare poco, riuscendo comunque a ottenere molto da mangiare, ma conservando anche tanto tempo libero da dedicare ai loro rituali, ai miti del Tempo, del Sogno eccetera. Sia come persone, sia come comunità intenzionata a vivere in armonia con l'ambiente, se la cavavano molto bene. Lo stesso accadeva in Europa prima della società di mercato, quando gli uomini, anche se molto più numerosi degli aborigeni, riuscivano a dare alla natura lo spazio che le serviva per vivere. A porre il pianeta su una rotta disastrosa è stata la commercializzazione di tutte le cose, la privatizzazione dei campi, il trionfo dei valori di scambio su quelli d'esperienza, il prevalere del guadagno personale sull'interesse pubblico. Se ci interessa la salvezza della Terra, dobbiamo trovare un modo intelligente per ripristinare la capacità degli uomini di decidere e agire in forma collegiale, smettendo di fare gli idiotes. Una soluzione è stabilire che alcune cose non passino più dai mercati e non siano valutate sulla base della loro commerciabilità. Per esempio, possiamo proibire di pescare trote per più di un'ora al giorno, o garantire che i boschi siano protetti dallo Stato come se fossero un patrimonio inestimabile di tutti, indipendentemente dal loro valore di scambio. La grande domanda, però, è: come possiamo creare questo senso di responsabilità in una società in cui le macchine lavorano senza sosta per produrre valori di scambio e generano profitto solo per i loro possessori, i quali non sono altro che un'esigua minoranza della popolazione di tutto il pianeta? | << | < | > | >> |Pagina 174La ragione per cui il denaro non può che essere politico, e la sua quantità non può che essere manovrata da qualche autorità statale, è che solo in questo modo può esistere una flebile speranza (nessuna certezza, certo) di trovare una rotta che eviti da un lato la Scilla delle bolle del debito e dello sviluppo non sostenibile e, dall'altro, la Cariddi della deflazione e della crisi. E dal momento che gli inevitabili interventi sul denaro pubblico sono per definizione politici (visto che influenzano diversi settori e classi sociali), la nostra unica speranza per una gestione «sopportabile» del denaro è il suo controllo democratico da parte di coloro che lo gestiscono per conto della società.Ricorderai che abbiamo detto qualcosa del genere nel capitolo precedente, parlando della possibilità che ha l'umanità di sfuggire alla catastrofe ecologica planetaria. Ebbene, non è affatto casuale. La democrazia, per quanto oggi il suo funzionamento sia molto problematico, resta l'unica salvezza per quel che riguarda l'ambiente, il lavoro umano e, come abbiamo appena visto, la gestione del denaro. | << | < | > | >> |Pagina 182Prima del sorgere delle società di mercato, alla fine del XVIII secolo, l'ideologia dominante aveva natura religiosa. La disuguaglianza, l'assolutismo, la violenza del potere venivano sempre giustificati come una condizione naturale, voluta dalla provvidenza divina. Dopo il trionfo dei valori di scambio e l'avvento sulla scena della società di mercato, però, l'ideologia dominante ha preso la forma della teoria economica, a cui ha dato una veste scientifica.Da qualche tempo a questa parte, i manuali di economia, la teoria economica dominante, gli inserti economici dei giornali, i commentatori che parlano di economia sui mezzi di comunicazione ci vogliono convincere che le questioni economiche sono squisitamente tecniche, per cui i comuni mortali non possono capirle e quindi è meglio che le lascino ai banchieri, ai tecnocrati e agli intenditori. Tutta questa descrizione dell'economia ricorda Matrix, esattamente come la descrive Morpheus a Neo: una realtà virtuale, una prigione della mente il cui obiettivo è nasconderci costantemente l'amara verità. Ma qual è questa verità? La verità è che noi umani siamo diventati schiavi delle macchine che abbiamo inventato perché fossero a nostra disposizione. La verità è che, invece di essere i mercati a servirci, ci siamo ridotti a essere servi, anzi schiavi di mercati impersonali e disumani. La verità è che il modo in cui abbiamo costruito le nostre società ci fa somigliare quasi tutti a Faust senza Mefistofele; pochi tra noi ricordano, invece, il dottor Frankenstein, creatore di mostri che minacciano la sua stessa vita. La verità è che tutto il giorno ci affanniamo per ottenere cose che, in realtà, neanche vogliamo e di cui non abbiamo bisogno, solo perché la Matrix del marketing e della pubblicità è riuscita a proiettarle nelle nostre teste. La verità è che ci comportiamo come stupidi virus che distruggono l'organismo in cui abitano. La verità è che le nostre società non sono semplicemente ingiuste: sono spaventosamente inefficaci nella misura in cui disperdono le nostre potenzialità di produrre vera ricchezza, con il risultato di diventare... ingiuste, appunto. La verità, infine, è che le persone che vogliono affrontare questa verità, e rivelarla, vengono punite in modo spietato da una società che non sopporta di guardarsi nello specchio della logica e del pensiero critico. | << | < | > | >> |Pagina 184Teologia ed equazioniMolti ribatteranno che tuo padre non sa cosa dice. Che l'economia e la teoria economica sono scienze. Che, come la fisica analizza con metodo e strumenti matematici la natura, così l'economia combina la matematica, la statistica e la logica per analizzare scientificamente i fenomeni socioeconomici. Scemenze! L'economia può anche utilizzare modelli matematici e metodi statistici, ma assomiglia molto di più all'astrologia che all'astronomia. Mentre in fisica il giudice imparziale delle ipotesi degli scienziati è la fysis, come dicevano gli antichi greci, ossia la natura, in economia non abbiamo niente di analogo, per il semplice fatto che non possiamo creare un laboratorio in cui controllare le nostre ipotesi riguardo a come si sarebbe sviluppata l'economia greca nel 2010 se, invece di accettare il prestito del Memorandum, l'amministrazione pubblica avesse proclamato la sospensione dei pagamenti. Questa sostanziale impossibilità di verificare empiricamente le nostre teorie è ciò che differenzia l'economia, il pensiero economico, dalle scienze positive. E quindi possiamo scegliere solo tra continuare a illuderci, come economisti, di essere degli scienziati, o ammettere che siamo più vicini ai filosofi che, per quanto possano ragionare in modo logico e saggio, è impossibile che arrivino a una conclusione comune e unanime sul senso della vita.
Purtroppo, la stragrande maggioranza dei miei colleghi economisti scelgono
di far finta di essere scienziati e così finiscono per sembrare astrologi,
magari teologi che mettono in campo dimostrazioni matematiche sull'esistenza di
Dio, sacerdoti che speculano sull'ignoranza e sul pregiudizio delle persone che
vivono in uno stato di terrore riguardo alla loro sopravvivenza e di paura per
quel che le attende.
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