Copertina
Autore Sebastiano Vassalli
Titolo Cuore di pietra
EdizioneEinaudi, Torino, 1996, Supercoralli , pag. 290, dim. 145x225x23 mm , Isbn 978-88-06-14189-9
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe narrativa italiana
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Indice


P.3       Gli Dei
  5   1.  L'Architetto
 14   2.  La città e la casa
 23   3.  Il garibaldino e la Giblon
 32   4.  «La città balla»
 41   5.  Il circo Progresso
 50   6.  Banca e manicomio
 59   7.  L'anarchico
 68   8.  Il mostro
 77   9.  Le gite in bicicletta
 86   10. «La Scintilla»
 96   11. Il gran ballo per la
          Società Geografica Nazionale
1o6   12. Garibaldi si sposa
115   13. Il Re della lue
124   14. Un Poeta venuto dalla Lapponia
134   15. La cugina siciliana
143   16. «Piú libri meno litri»
153   17. Iene, ippopotami & C.
163   18. Giovinezza, giovinezza...
172   19. Caruso
182   20. Gli scienziati della rivoluzione
191   21. Arrivano gli inquilini
200   22. L'ultimo comunista
209   23. Barbablu e la Donna Fatale
218   24. L'oratore
227   25. «Conosci te stesso»
237   26. Il concerto per la vittoria
247   27. Gli «intellettuali»
256   28. Una ragazza chiamata Siberia
266   29. Il paese delle automobiline
276   30. La Usl
285       Gli Dei

 

 

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Pagina 3 [ inizio libro ]

Gli Dei

In principio di questa storia c'è la città. La città è una città piuttosto piccola che grande, piuttosto brutta che bella, piuttosto sfortunata che fortunata e però e nonostante tutto questo che s'è appena detto, piuttosto felice che infelice - Era - ed è - collocata in una grande pianura, su una sorta di dosso formato, qualche milione di anni fa, dal moto delle maree o dai sedimenti dei fiumi di un mondo ancora inconsapevole delle nostre vicende, ancora beato dei suoi dinosauri e delle sue felci grandi come alberi; e si affaccia su un orizzonte di montagne cariche di neve come sulle quinte di un immenso palcoscenico, in un paesaggio che gli Dei hanno voluto sistemare in questo modo, perché fosse il loro teatro. Lassú sopra le nostre teste, infatti, negli spazi senza tempo che noi chiamiamo universo, di tanto in tanto gli Dei - quelli di Omero - vengono ad assistere allo spettacolo delle nostre passioni e delle nostre lotte; e un'eco delle loro risate è forse percepibile nello scroscio delle acque che in primavera straripano tutt'attorno alla città, allagando i terreni coltivati, e nel rumore del vento che, d'autunno, la turbinare le foglie sui viali, spingendo le nuvole verso le montagne lontane. Gli Dei - già il vecchio Omero ne era consapevole - non hanno alcuni pietà delle sciagure degli uomini e hanno un senso dell'umorismo piuttosto bizzarro, perché conoscono l'esito delle nostre vicende prima ancora che siano incominciate; sanno il giorno e l'ora in cui moriremo, e in quali circostanze; e ridono fino alle lacrime vedendoci lottare per cose che non ci apparterranno, e che saranno comunque diverse da come le abbiamo immaginare.

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Pagina 94

[...] La grande risorsa dei poveri, a quell'epoca, era il vino; e però il vino sembrava anche essere la loro maledizione specifica, piú della stessa povertà e dello sfruttamento a cui li sottoponevano i padroni, facendoli lavorare dall'alba a notte. A volte, tra una casa di poveri e un'altra casa di poveri, la maestra Graneri si fermava a prendere qualche appunto con la sua scrittura elegante e leggermente inclinata, in un quaderno che portava dentro alla borsa; e Garibaldi Perotti si sorprendeva a confrontare la realtà di quel mondo che vedeva tutte le domeniche, con le scintillanti teorie del socialismo e con le verità «scientifiche» di cui parlava il compagno Fantuzzi. Diversamente da suo fratello Mazzini e dagli altri redattori del loro giornale, che avevano soltanto certezze, Garibaldi era portato per temperamento ad avere anche dei dubbi; e uno dei suoi dubbi piú radicati e piú tenaci riguardava proprio il destino dei poveri. Quell'umanità dolente e pittoresca, spesso abietta, che i teorici del socialismo si ostinavano a chiamare con termini pomposi come «proletariato» o «classe operaia», era davvero all'altezza del progetto, o forse del sogno, a cui la si voleva spingere a ogni costo, anche contro la sua volontà? Era un dubbio cosí inconfessabile, questo di Garibaldi Perotti, e cosí vergognoso per un socialista, che lui non osò mai confidarlo ad anima viva, nemmeno al fratello o alla moglie quando poi prese moglie; e da cui si liberò all'età di venticinque anni emigrando in America. Di là dall'oceano, infatti, i poveri non si portavano dietro quella maledizione di dover cambiare il mondo, che li perseguitava in Europa. Potevano dedicare le loro energie a progetti piú piccoli e immediati, per esempio a quello di diventare ricchi; e qualche volta, se la fortuna li assisteva, diventavano ricchi.

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Pagina 100

Rimasto solo, l'avvocato fece cenno a un cameriere che gli portasse una coppa di champagne. Da qualche anno non aveva piú incarichi politici e diceva di essersi liberato di un peso, e di stare meglio; ma, in realtà, ne soffriva. Gli elettori della città alta avevano mandato in Parlamento al suo posto un uomo di soli trent'anni, il dottor Cesare Rossi: che aveva saputo far leva sulle loro paure e gli aveva promesso una scelta di campo cosi netta, da non lasciar spazio al minimo equivoco. («O con noi, o con la canaglia! O con la patria, o con i socialisti traditori della patria!»). Ormai, per fare politica, bisognava odiarsi; e lui, Alfonso Pignatelli, non era piú all'altezza dei tempi. Quando l'orchestra attaccò il ritmo di un galop e i giovanotti e le ragazze che erano li attorno incominciarono a saltellare tutti insieme, muovendo le gambe e le braccia come burattini e continuando a sorridersi, l'avvocato Alfonso si voltò per andare in un'altra sala; ma gli accadde un fatto curioso e anche un poco inquietante. Vide uno sconosciuto con i capelli bianchi e le guance flaccide che, muovendosi sbadatamente, gli veniva addosso; fece l'atto di scansarlo e le sue dita incontrarono la superficie liscia e fredda di una specchiera. Si guardò con commiserazione. «Per la prima volta nella mia vita, - pensò, - mi sono visto come mi vedono gli altri, e non mi sono piaciuto...»

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Pagina 122

«Gli abbiamo tolto una pallottola dal petto, - aveva detto il dottore; - ma avremmo anche potuto lasciarla dov'era, tanto ormai non c'era piú niente da fare... E morto sabato. Non so dove sia finito il suo corpo». Aveva preso un giornale che era sulla scrivania e aveva indicato un articolo in prima pagina. «I morti dichiarati dalle autorità sono piú o meno quelli che avete visti all'obitorio, una sessantina, ma nessuno sa quanti sono i morti reali! Nessuno, ancora, è riuscito a scoprire dove sono stati messi i corpi di tanti nostri compagni, vittime innocenti di una repressione insensata...»

Poi Baldàsseri aveva continuato a parlare e Costantino invece aveva smesso di ascoltarlo, perché tutt'a un tratto era diventato leggero. Stava seduto sopra il lettino - raccontava - e gli sembrava di galleggiare sui suoi stessi pensieri, di esserne trasportato come una piuma dal vento... Aveva avuto una famiglia e l'aveva perduta. Era solo al mondo: la Giblon era morta, Garibaldi era andato in Argentina, cioè all'altro mondo, Mazzini era morto... Aveva chiesto: «Com'è iniziata la sommossa? Perché gli operai sono insorti?»

Il dottore, allora, lo aveva guardato scuotendo la testa. «Non c'è stata nessuna sommossa, amico mio! - gli aveva risposto. - Soltanto un corteo di persone che cantavano l'Inno dei lavoratori... Un corteo con donne e bambini: si dice perfino che fosse autorizzato dalla Questura, e la cosa non è affatto improbabile. Un ufficiale gli ha ordinato di stare zitti, e siccome loro continuavano a cantare ha dato l'ordine di sparargli, perché cosi voleva il Re della lue... Voleva che ci fosse un massacro, e il massacro c'è stato!»

«Per quattro giorni, - aveva aggiunto il dottor Baldàsseri dopo un breve silenzio, - una città come Milano, tra le piú civili e progredite del mondo, è stata in balia di un pazzo: il Re della lue! Ma sí che lo conoscete... lo conoscono tutti!» Aveva tirato fuori di tasca una monetina di rame, l'aveva mostrata a Costantino. «Questo che si vede di profilo, - gli aveva spiegato, - e che molti credono sia il Re d'Italia, è il Re della lue, e la sua effigie, anziché sulle monete, dovrebbe essere raffigurata nelle dispense dei corsi di fisiognomica di tutte le università, perché è un vero e proprio campionario di caratteri degenerativi... Non sto parlando come socialista, badate; parlo come medico! Quest'uomo, figlio di un luetico conclamato e di una tisica, è l'estremo prodotto di una razza che ha praticato assiduamente, nel corso dei secoli, l'incesto e il matrimonio tra persone indebolite da tare ereditarie, e il suo viso lo dimostra con assoluta certezza. Le bozze frontali sono piú accentuate del normale, gli occhi sono fissi e dilatati come quelli di un rospo e il mento è quasi inesistente, ma quest'ultima caratteristica è in parte nascosta dall'opera del barbiere...»

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Pagina 165

Le differenze tra i nostri due giovani erano cosí grandi, che li facevano vivere a pochi metri di distanza l'uno dall'altro, come su due pianeti diversi e lontani. Ma, nonostante tutto ciò che si è detto fino a questo momento e ciò che ancora si potrebbe aggiungere sui loro rispettivi caratteri, Alessandro Annovazzi e Giuliano Pignatelli avevano almeno una cosa in comune: erano felici, ognuno a suo modo e per quel tanto che gli uomini possono esserlo. Il mestiere dello studente universitario, in quei primi anni del secolo ventesimo, era il mestiere piú bello del mondo; e Torino, città di studenti e di sartine, sembrava essere stata fatta apposta per viverci da giovani e per essere giovani alla maniera di Alessandro o a quella di Giuliano, indifferentemente. Le sue strade piú centrali e piú note erano un caleidoscopio di tramways gialli e di carrozze e di automobili nere, di mantelli azzurri e di cordoni dorati di ufficiali, di mantelli viola e di nappine rosse di goliardi, di scritte che tappezzavano interi palazzi e celebravano la famosa Compagnia di assicurazioni, le insuperabili Biciclette, le invincibili Macchine da cucire e l'infallibile Sciroppo, o che annunciavano al mondo: «Vende tutto», «La ditta Tale è traslocata nel tal posto», «Eccezionali nuovi ribassi», «Tutto a un soldo»! A ogni ora del giorno, in quelle strade, il frastuono era terribile; ma poco lontano da lí c'erano i grandi viali silenziosi dove i rumori del traffico non arrivavano; c'era il Po, con i suoi caffè all'aperto e i circoli dei canottieri; c'era il parco, per le passeggiate romantiche; c'era la malinconia, che a piccole dosi è un ingrediente indispensabile di ogni felicità. In piazza Castello, un editore musicale aveva riempito un'intera vetrina con i libretti di una canzone goliardica: Il commiato, dedicata «agli amici-compagni laureandi in legge» da un giovanotto che Alessandro Annovazzi conosceva bene, perché era stato - come lui - uno studente fuori corso, piú assiduo delle serate in birreria che delle lezioni all'università...

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Pagina 270

[...] E poi, ancora: se ne andarono il Macellaio e sua moglie, la signora Anna, in una località di villeggiatura vicino al mare, dove trascorsero il resto della loro vita guardando lo specchio dei sogni. Se ne andò l'avvocato di poche cause e molti quattrini Ernesto Merli: che con i suoi traffici aveva trasformato il paesaggio attorno alla città, riempiendolo di edifici che sembravano scatoloni di cartone e che erano destinati agli uomini piccoli e neri venuti dai paesi del Sud. Se ne andarono la signora Lina Vellani Annovazzi e suo figlio Attilio: da cui, dunque, dobbiamo prendere congedo. Attilio Annovazzi, che all'epoca del trasloco stava per laurearsi in filosofia, oggi è un professore universitario; ha i capelli grigi, e conserva in un cassetto del suo tavolo di lavoro quella cartellina piena di fogli scritti da suo padre che è all'origine del nostro racconto. («Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, della vita nell'asprezza il tuo canto squilla e va...»). E da lí, appunto, dai fogli un po' ingialliti di quel manoscritto, che sono state tratte le nostre storie, della grande casa sul viale dei bastioni e dell'epoca in cui i poveri non potevano essere felici perché il destino li condannava a cambiare il mondo o, meglio: a sognare di cambiarlo, facendolo diventare piú giusto. Questo sogno, che rimbalza da un'epoca all'altra e produce benessere e disgrazie, progresso e infelicità, è una delle cose che piú fanno ridere gli Dei sopra le nostre teste. E' un'illusione sempre uguale e sempre diversa, una commedia che si replica dalla notte dei tempi e che tornerà a replicarsi chissà quante altre volte ancora, finché nella pianura ci saranno degli uomini... L'ultimo ad andarsene dalla grande casa fu il Pittore: che aveva legato la sua vita e la sua arte a quella soffitta, freddissima d'inverno e caldissima d'estate, dove le immagini prendevano forma sulle tele praticamente da sole, e dove erano passate tante persone e si erano fatti tanti discorsi, dai tempi dell'Uomo della Provvidenza e da prima ancora! Ma le acque piovane, ormai, erano incontenibili; e un muratore a cui lui si era rivolto perché salisse sul tetto a cambiare qualche tegola gli aveva fatto segno da lassú, allargando le braccia: qui bisognerebbe cambiare tutto! Il Pittore, dunque, alla fine si arrese, come gli altri; e fece affiggere sui muri della città di fronte alle montagne un manifesto («Quarant'anni d'arte») con cui invitava tutti i suoi concittadini, anche quelli che non avevano mai avuto occasione di conoscerlo, a visitare quelle stanze dove si era compiuto il miracolo della povertà che va a braccetto con la felicità, e dove si erano accumulate centinaia di opere: disegni, quadri, ceramiche, acqueforti...

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Pagina 186 [ fine libro ]

E' perciò che le risate degli Dei rimbombano e rotolano da una parte all'altra del cielo con i temporali d'aprile, e che le loro grida d'incitamento spazzano la pianura con i venti d'ottobre. I personaggi di questa storia che è finita, e gli altri delle infinite storie che ancora devono incominciare, le loro futili imprese, le loro tragicomiche morti non sono altro che alcune invenzioni tra le tante di quell'eterno, meraviglioso, inarrivabile artista che è il tempo. E' lui che ci parla con la nostra voce, che ci guida, che manipola i nostri desideri e i nostri sogni e alla fine cancella le nostre vite per sostituirle con altre vite, di altri uomini che noi non conosceremo mai. E' lui che ci fa credere di essere il centro e la ragione di tutto, mentre ci ispira comportamenti e pensieri cosí stupidi che gli Dei ne ridono ancora quando ritornano lassú nel loro eterno presente, abbandonandoci agli sbalzi d'umore e ai capricci del nostro autore e padrone. Un suo battito di ciglia, e l'uomo che ha scritto questa storia non esisterà piú; un altro battito di ciglia, e al posto della grande casa sui bastioni ci sarà un edificio di cristallo in cui si rifletteranno le nuvole e le montagne lontane; un terzo battito di ciglia, e i contenitori chiamati automobili saranno a loro volta scomparsi... Perché no? Soltanto gli Dei sono immortali, mentre tutto ciò che esiste nel tempo è destinato a perire. Homo humus, fama fumus, finis cinis.

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