Copertina
Autore Sebastiano Vassalli
Titolo Marco e Mattio
EdizioneEinaudi, Torino, 1994 [1992], Tascabili Letteratura 176 , pag. 315, dim. 120x195x20 mm , Isbn 978-88-06-13462-4
LettoreRenato di Stefano, 1996
Classe narrativa italiana
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Indice


  3   Premessa

  7   I.    Marco
 39   II.   Mattio
 70   III.  Zoldo
102   IV.   Lucia
135   V.    Venezia
167   VI.   I francesi
197   VII.  L'Anticristo
228   VIII. La Rivoluzione
257   IX.   La passione
284   X.    La croce

311   Epilogo

 

 

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Pagina 3

Premessa

Questo libro racconta la vicenda terrestre di Mattio Lovat, nato a Casal di Zoldo il 12 settembre 1761 e morto a Venezia l'8 aprile 1806: che per alcuni suoi comportamenti - diciamo cosí - inconsueti, e per i fatti strani e gravi che precedettero la sua fine, venne considerato uno dei primi «casi clinici» della psichiatria moderna e trattato come tale da diversi autori, in Italia e all'estero. Grazie alle nuove cognizioni della medicina e con il senno di poi, noi oggi possiamo dire che quel caso clinico, cosí come allora fu posto, era sbagliato, e che Mattio Lovat morì di un male antico e terribile chiamato pellagra: ancora molto diffuso, ai giorni nostri, in Africa e nelle regioni povere del pianeta. Una malattia della fame, anzi: la malattia della fame; che noi vediamo in televisione, o sui giornali, quando ci vengono mostrate quelle immagini di bambini scheletriti, con le pance gonfie e gli occhi lucidi di febbre, cosí pietose e inquietanti ma anche cosí lontane dalle nostre inquietudini abituali, perché nei paesi in cui viviamo, ormai, la pellagra non esiste piú! Ai tempi di Mattio, invece, la pellagra spopolava le campagne dell'Italia settentrionale e le valli alpine; veniva chiamata «pellarina» o «male della miseria», era causata da un'alimentazione insufficiente, a base di polenta di granoturco e aveva tra i suoi molti sintomi questa caratteristica, che distruggeva il sistema nervoso delle persone colpite, facendole diventare «matte». Anche Mattio Lovat, ammalato di pellagra, fu dichiarato pazzo e finí i suoi giorni in manicomio, in quell'isola di San Servolo davanti a Venezia dov'era in funzione fino dai tempi della Serenissima uno dei primi ospedali psichiatrici della storia d'Europa.

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Pagina 7

Capitolo primo

Marco


Il forestiero arrivò un martedí, venendo a piedi da quella strada del Canal che era ed è tuttora la principale via di comunicazione tra la valle di Zoldo e il resto del mondo. Era il 18 aprile del 1775. Le campane della Pieve avevano da poco battuto i rintocchi dell'Angelus e gli aromi provenienti dalla cucina incominciavano a filtrare sotto l'uscio dello studiolo del pievano, don Giacomo Fulcis; quando un'improvvisa scampanellata alla porta di strada interruppe il corso dei pensieri del prete, e causò scompiglio in tutta la casa. Il cane Fun, richiamato alle sue funzioni di guardiano, manifestò la sua presenza nel cortile sbatacchiando la catena di qua e di là e abbaiando con tutto il fiato che aveva in corpo, fino quasi a strozzarsi. Al piano di sotto, dov'era la cucina, ci fu il rumore di una porta sbattuta; si sentirono un passo frettoloso su per le scale, una voce maschile dalla strada e la voce di Pellegrina che diceva: «Entrate!» «Qualche malato che sta morendo», borbottò l'arciprete: passandosi le dita tra i capelli candidi come per ravviarli, in un gesto che gli era abituale. «Vuoi scommettere? Se non muoiono in una notte tempestosa, muoiono tutti all'ora di pranzo o all'ora di cena». E poi aggiunse ad alta voce: «Avanti!», perché qualcuno aveva bussato alla porta del suo studio. Entrò un uomo che don Giacomo non ricordava di avere mai visto, né a Zoldo né altrove, con indosso un mantello corto da viandante e brache di cuoio come s'usavano nel Tirolo, legate sotto il ginocchio con dei legacci rossi.

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Pagina 94

Dice un'antica massima della valle del Piave, e di tutta la campagna veneta, che quando in una casa la fame entra dalla porta, l'amore esce dalle finestre e dai balconi e da tutte le aperture che trova. I poveri, si sa, fanno una gran fatica a sopportarsi tra loro; e se il buonanima Karl Marx - che li esortò ad unirsi per spezzare le loro catene - avesse prestato maggiore attenzione a questa costante universale del comportamento umano, si sarebbe risparmiato molte illusioni e le avrebbe risparmiate a moltissima gente: compreso, ahimè!, l'autore di questo libro. Nel tabià dello scarpèr Marco Lovat la fame fece il suo ingresso con la morte del mulo, e insieme alla fame arrivarono le incomprensioni, i rimproveri, le accuse reciproche tra i coniugi, che portavano ogni giorno nuovi litigi. Arrivarono le prime scenate, violentissime, della signora Vittoria che inveiva contro il marito accusandolo di non essere un "vero uomo", perché non era capace di procurare il necessario per vivere ai suoi figli; se fosse stato un vero uomo, gli gridava, sarebbe andato a lavorare in città, come già avevano fatto tanti altri capifamiglía della valle di Zoldo, e iniziava a elencarli: il Tizio, il Caio... Ogni volta però che si giungeva a questo punto, cioè all'elenco dei veri uomini, lo scarpèr insorgeva: no e poi no! Lui a lavorare sotto un padrone non ci sarebbe andato e non avrebbe abbandonato la sua valle, qualunque cosa potesse succedere: perché i Lovat si erano sempre guadagnato il pane tra le loro montagne - sentenziava - e perché all'ombra del suo campanile nessuno mai è morto di fame! Ma la miseria, oltre a far scappare l'amore, attira le disgrazie: che incominciarono puntualmente a verificarsi, in casa Lovat, verso la fine dell'anno. Il penultimo dei figli, il piccolo Angelo, fu sorpreso a rubare legna in un bosco vicino a Casal, e il padrone del bosco gli diede tante bastonate che lo ridusse in fin di vita; in primavera, poi, toccò al secondogenito Ferdinando d'ammalarsi di un misterioso e terribile «male di capo», che gli annebbiò la ragione e lo rese stupido. Tutto andava per il peggio, attorno allo scarpèr, e cosí infine lui si decise: sarebbe emigrato, visto che il destino non gli dava altra scelta! Avrebbe lasciato la bottega di Casal al figlio Mattio, che già era in grado di mandarla avanti da solo, e si sarebbe trasferito in città per assaporare l'amaro fiele del pane degli altri e per diventare garzone di un altro ciabattino, lui che aveva avuto negozio e garzoni propri! Da quel momento le liti cessarono. Il 27 luglio 1778, giorno di San Pantaleone patrono dei medici, lo scarpèr Marco Lovat s'alzò un'ora prima dell'alba, si mise in spalla la bisaccia che s'era preparata la sera precedente e baciò il figlio piú piccolo, Michele: che aveva soltanto tre anni, e non fu svegliato. Gli altri figli, invece, erano già in piedi per salutare il padre che andava a lavorare in città: Floriano e il piccolo Angelo piagnucolavano e si fregavano gli occhi gonfi di sonno; Ferdinando dondolava la testa come faceva sempre da quando la disgrazia lo aveva colpito, e guardava attorno senza capire niente. La signora Vittoria s'asciugava le lacrime col grembiule: dopo tanti litigi, ora non avrebbe piú voluto che il suo uomo partisse, e continuava a raccomandagli, per l'amor di Dio!, di andare subito da fra Giuseppe a Sant'Alvise, una volta arrivato a Venezia; di farsi aiutare da lui a trovare lavoro. Ripeteva: «Tu sai quanto bene ci vuole! » (E lo scarpèr, che quando gli parlavano del cognato grand'uomo si portava una mano alla cintura, dove teneva un amuleto di corno, badava a dire sottovoce: «Sí, alla larga! Di disgrazie ne ho avute anche troppe, in questi ultimi tempi!») Mattio poi accompagnò il padre per un tratto di strada, fino al sagrato della Pieve. Era ancora buio: soltanto il Sasso di Bosconero, verso oriente, incominciava a schiarirsi e a illuminarsi d'una luce color madreperla, che preannunciava una giornata serena. Davanti alla chiesa di San Floriano si abbracciarono. «Mi raccomando, Mattio!, - disse lo scarpèr. - Bada a tua madre e ai tuoi fratelli piú piccoli, e lavora in bottega! Abbi giudizio!»

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Pagina 108

[...] Tutte le donne e tutti gli uomini della valle erano piú che fiduciosi: erano certi!, che quel prete venuto da Belluno gli avrebbe finalmente svelato le ragioni delle loro disgrazie, e che gli avrebbe suggerito un modo concreto per farle cessare. In mezzo a quella folla c'erano anche Mattio con i suoi fratelli, e la signora Vittoria con in braccio il piccolo Antonio: soltanto lo scarpèr era rimasto a Casal, seduto sulla porta di casa a fissare il vuoto. Nel primo dei suoi tre sermoni don Giovanni Talamini ammoní i fedeli che per un'intera settimana avrebbero dovuto osservare il digiuno, ed ogni altro tipo di astinenza: perché la mano di Dio s'era alzata per colpirli come un tempo s'era alzata per colpire il popolo d'Israele, e soltanto il digiuno, i sacrifici e le preghiere potevano fermarla. Che Dio fosse adirato contro tutti gli uomini, e specialmente contro gli zoldani - disse il predicatore - non era cosa dubitabile, purtroppo: troppi segni stavano a confermarla, e da troppo tempo! Le stagioni non erano piú le stagioni: c'erano temporali d'inverno e nevicate d'estate; la siccità persistente, anno dopo anno, aveva tolto la neve dalle montagne, aveva disseccato i pascoli e impedito i raccolti; quello poi che la siccità aveva risparmiato era stato guastato dalla grandine, dai topi e da altri flagelli. Gli animali domestici, indeboliti dalla fame, venivano decimati da un terribile contagio, il cosiddetto morbion, che gli faceva gonfiare il ventre: vacillavano, tremavano dalla testa ai piedi, cadevano senza piú potersi rialzare, muovevano la testa d'un moto convulso e poi morivano nel volgere di poche ore, o, al massimo, di pochi giorni! E morivano anche gli uomini. Una nuova malattia, che i medici ritenevano essere causata da calor di fegato, e che il popolo chiamava pellarina, li faceva delirare e uscire di senno al punto che non riconoscevano piú amici e parenti e perdevano ogni barlume di ragione, ancor prima di perdere la vita. «Molti tra voi li hanno già veduti, - gridò il prete, - gli ammalati del nuovo male! Uomini e donne che un tempo ebbero fama di saggi, balbettano ora parole senza senso, s'imbrattano dei loro stessi escrementi, si trastullano dall'alba a notte con qualche piccolo oggetto o sono attratti da cose senza importanza: una goccia che cade da un sasso, una nuvola che trascorre nel cielo gli fanno dimenticare il lavoro, i figli, perfino se stessi! Si riducono a dover dipendere dagli altri per ogni loro necessità; e perché lo strazio dei congiunti sia completo, possono durare, in quelle condizione, anche molti anni!»

Le cause della collera divina erano molteplici, ma tutte si riassumevano in una frase che fu il tema specifico della prima predica di don Talamini: «La pericolosa novità dei tempi, e la superbia e l'empietà del presente secolo». Questo secolo sciagurato - disse in sostanza il predicatore - con le sue nuove e false dottrine e filosofie ha rinnovato la sfida stessa di Lucifero, il suo sogno di dominare la materia e di scacciare Dio dal mondo. Come se ciò non bastasse, ha immaginato un universo senza Dio, dove la materia si riproduce da sola in modo meccanico, e la morte è la fine di tutto! Arrivato a questo punto del discorso don Talamini fece una pausa e alzò una mano, quasi volesse sottolineare con quel gesto l'enormità di ciò che stava per rivelare. Disse gravemente: «Io ho veduto con i miei occhi un libro a stampa, in cui si trova che le galline, le beccacce, le aquile, i maiali, i buoi, un tempo furono pesci, e che venuti in terra, a poco a poco scambiarono le scaglie in penne, in pelo, in ugne, in corna, e che tutti gli animali e la vita stessa hanno avuto origine nel mare; non vi si fa parola dell'uomo, in quel libro empio, ma vi si lascia intendere che anche l'uomo, come gli altri esseri viventi di questo nostro mondo, non è stato fatto da Dio al momento della creazione, secondo dicono le Scritture, ma è parente prossimo delle seppie e dei peoci!»

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