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| << | < | > | >> |Indice3 1. C'era una volta 10 2. Eros e il lato "b" 17 3. Eros, Nadia e Stefi 24 4. Alessandro e il lato "i" 32 5. La favola continua 40 6. Una mattina con la nostra protagonista 48 7. Un portafortuna a forma di sole 56 8. Una nave carica di schiavi 63 9. Il cappello del prestigiatore 72 10. «Era la stagione, felice su tutte, delle svendite» 80 11. Verso lidi lontani 88 12. Il Nino e il lato "g" 96 13. Romero e il "Cristo della Ragnatela" 103 14. Infilzare il drago 112 15. Una società di poveri ricchi 120 16. I sogni ritornano 130 17. L'avvocato giovane e il lato "s" 138 i8. Bombe di profondità 146 19. Post-femministe e post-maschilisti 153 20. Dio e i "disoccupati stanchi" 162 21. Una conclusione improvvisa 171 22. E vissero felici e contenti 174 Congedo |
| << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo primo
C'era una volta
C'era una volta: cosí incominciano le favole. C'era una volta: diciamo qualche anno fa, non importa quanti, una ragazza seduta davanti a una scrivania, intenta a leggere nello schermo di un computer qualcosa che doveva riguardare il suo destino, a giudicare da come erano spalancati i suoi occhi e dall'espressione del viso. La ragazza si chiamava Nadia Motta e dentro a quel computer c'erano, oltre al suo diario e alla sua agenda, oltre alla sua posta elettronica, un universo di informazioni e di relazioni dove anche lei ogni tanto veniva ad affacciarsi, senza allontanarsi mai troppo dal mondo delle cose reali. Se ora cerchiamo di scoprire cosa stava facendo quella ragazza nel momento in cui incomincia la sua favola, vediamo che sulla scrivania di fianco al computer c'era un piccolo foglio di carta, un biglietto della lotteria con stampati dei numeri: tanti numeri, e che lo sguardo della ragazza continuava a muoversi dallo schermo al biglietto e dal biglietto allo schermo. Ci accorgiamo che lei stava confrontando, forse per la quarta o la quinta volta consecutive, i numeri segnati nel biglietto con delle "x" con quelli che si leggevano nel computer. La sentiamo parlare con sé stessa, perché nella stanza non c'erano altre persone. La sentiamo esclamare: «Non è possibile. Non ci credo. È troppo bello». «Ho vinto!» Adesso approfittiamo del suo stupore, giustificato e legittimo, per dare qualche notizia su di lei e sui fatti che costituiscono l'inizio della nostra favola. Nadia Motta, all'epoca della sua vincita al super-lotto, era una giovane donna di ventiquattro anni, d'aspetto gradevole come di solito sono le donne di quell'età: una ragazza, si può dire?, "normale". I suoi capelli, scuri come gli occhi, erano in disordine perché lei, quella mattina, non aveva ancora avuto il tempo di pettinarli. Indossava una vestaglia bianca di felpa, stretta in vita con una cintura dello stesso tessuto, e aveva ai piedi le pantofole basse e piatte che di solito indossava quando era in casa. Dopo avere pronunciato le parole: «Ho vinto!», Si era alzata e aveva incominciato a camminare in su e in giú per la stanza. Parlava da sola e faceva dei gesti: «E pensare, - si diceva, - che non ricordavo nemmeno di averlo, quel biglietto! Se ieri sera non avessi visto in televisione il negozio dove l'ho comperato con quelle scritte sulla vetrina che annunciavano la vincita, sarebbe rimasto in fondo alla mia borsetta insieme alle ricevute e agli altri pezzi di carta. Ventuno milioni e seicentomila euro si sarebbero persi in quel modo, e buonanotte!» Aveva allargato le braccia. Aveva aggiunto: «Meno male che Eros non ne sa niente, e che io ieri sera sono riuscita a rimanere zitta quando ho ascoltato la notizia dalla televisione. Se gli avessi detto che avevo giocato alla lotteria proprio in quel negozio, avrebbe voluto vedere il biglietto e l'avrebbe controllato subito. Lui è fatto cosí». (Eros era il fidanzato della nostra protagonista, con cui lei viveva all'epoca dei fatti e di cui, naturalmente, parleremo piú avanti). Aveva alzato le braccia e stretto i pugni. Aveva detto: «Ventuno milioni e seicentomila euro. Quarantatre miliardi delle vecchie lire. Ce n'è abbastanza per cambiarmi la vita. Sembra un sogno...» Tutto era incominciato qualche giorno prima. Nadia Motta era entrata in una tabaccheria per comperare delle buste e aveva visto dei foglietti colorati e pieni di numeri, appesi a una cordicella proprio sopra al banco. Aveva chiesto cosa fossero e le era stato risposto che erano le schede di un gioco famoso: una lotteria, in cui si vincevano milioni indovinando i numeri che sarebbero stati estratti e segnandoli con delle "x". Per gli incerti e gli inesperti c'erano le schede appese alla cordicella, con le "x" già stampate su dei numeri presi a caso. Prima di quel giorno, Nadia non aveva mai giocato alla lotteria e a nessun altro gioco d'azzardo, e aveva voluto provare. Si era detta: «Chissà. Forse per una volta la fortuna vorrà aiutarmi». Aveva staccato una di quelle schede e l'aveva data al negoziante perché la convalidasse. Aveva messo la ricevuta dentro alla borsetta e se l'era dimenticata. La fortuna, invece, si era ricordata di lei e l'aveva fatta vincere. «Sono diventata ricca! Sono ricca!» Essere ricchi, all'epoca della nostra favola, era il sogno di tutti gli esseri umani che vivevano su questo pianeta, e naturalmente era anche il sogno della nostra protagonista. Fino dall'infanzia: tra gli eroi di Nadia c'era stato Paperon de' Paperoni, il personaggio di Walt Disney con la piscina piena di soldi. Nadia bambina aveva sognato di tuffarsi nelle banconote come lo "zio" Paperone; e di poter entrare nei negozi di giocattoli, o di dolci, per comperare tutte le cose che le piacevano. Un giorno, andava ancora alle scuole elementari e la maestra le aveva dato un tema da svolgere, a lei e agli altri bambini della sua classe: «Come immagino il Paradiso». «Il Paradiso, - aveva scritto la piccola Nadia, - è un posto dove tutti hanno tanti soldi e comperano quello che vogliono. Ci sono i carretti dei gelati in tutte le strade e ci sono tanti negozi con le vetrine piene di cose belle: giocattoli, vestiti, dolci. Ci sono le giostre e i baracconi dei giochi tutto l'anno e i bambini passano il tempo a divertirsi, senza andare a scuola. Quando non hanno piú soldi ne chiedono degli altri ai loro genitori e i genitori non solo glieli danno, ma gli raccomandano di spenderli in fretta. Questo è il mio Paradiso e io lo immagino cosí». La maestra si era messa a ridere. Le aveva obiettato: «Se esistesse un posto dove tutti sono ricchi, come dici tu, la ricchezza non sarebbe un privilegio e a cosa si ridurrebbe il tuo Paradiso? Si desidera quello che non si ha. In un mondo pieno di soldi, i bambini vorrebbero qualcos'altro per essere felici. Non ti pare?» «No, - le aveva risposto la bambina. - Io credo che bastino i soldi»; e anche i suoi compagni e le sue compagne erano stati d'accordo. Avevano detto: «Ha ragione lei». Di soldi, nella vita di Nadia, fino al momento della vincita ce ne erano stati pochi; e anche la felicità, che secondo le persone sagge non dovrebbe dipendere dal denaro ma che tutti cercano nel denaro, non si era fatta vedere tanto di frequente. Ciò che era mancato alla nostra protagonista erano i doni di fortuna: che nessuno può farsi da solo e che determinano le nostre storie fino dalla nascita. Sua madre Stefania detta Stefi era stata una "ragazza madre", che si manteneva lavorando come impiegata per il Comune della loro città. Un piccolo impiego con un piccolo stipendio. Suo padre Carlo Motta: uno studente di ingegneria e poi, al momento della nascita di Nadia, un giovane ingegnere di famiglia benestante, quando lei era nata l'aveva riconosciuta come figlia e, finché era vissuto, aveva pagato un assegno mensile per il suo mantenimento e la sua istruzione. Ma era morto, come si suol dire, "prematuramente", dopo essersi sposato con un'altra donna da cui aveva avuto altri due figli, e dopo una malattia lunga, dolorosa e costosa: talmente costosa che la sua eredità, su cui Nadia aveva fantasticato quando ancora era una ragazza, si era ridotta a ben poco. A pochi soldi, che lei teneva in una banca e che, fino a quel momento, non aveva voluto usare in nessuna circostanza e per nessuna ragione. A chi le suggeriva il modo di spenderli, rispondeva: «Quel conto è il mio salvadanaio. Se lo rompo per prendere i soldi, poi non mi resta nulla». Nadia Motta, all'epoca della vincita, viveva con il fidanzato Eros Ravasi e si definiva "laureanda in psicologia" nelle domande d'impiego che spediva per posta o portava personalmente alle ditte e agli enti a cui erano rivolte, e che fino a quel momento non avevano dato risultati apprezzabili. Di fatto era una studentessa fuori corso, iscritta all'università di una città distante qualche centinaio di chilometri da quella dove abitava e dove noi l'abbiamo incontrata, e nessuno avrebbe saputo dire con certezza a che punto fossero arrivati i suoi studi. Forse non lo sapeva nemmeno lei. Nessuno aveva capito perché avesse scelto di andare a studiare cosí lontano da casa, una materia che veniva insegnata anche in università molto piú vicine. Se gliene chiedevano il motivo si stringeva nelle spalle. Diceva che l'università dove si era iscritta era piú prestigiosa delle altre: ma la cosa, a ben vedere, non aveva un fondamento reale. Diceva che c'erano i professori migliori: il Tale e il Talaltro che nessuno dei suoi interlocutori aveva mai sentito nominare e con cui lei progettava di laurearsi. E poi, diceva che chi aveva studiato psicologia in quella università, trovava piú facilmente un impiego dopo la laurea: e nemmeno questo era vero. Ogni tanto la nostra protagonista si metteva in viaggio per andare a "dare un esame" (cosí, almeno, diceva lei) o per prendere accordi con un professore, e stava via per qualche giorno. Tra un esame e l'altro, e tra un viaggio e l'altro, lavorava come "baby sitter" o come "dog sitter" cioè facendo la custode di bambini o di cani, o trovava impiego come commessa in un negozio di abbigliamento nella stagione dei "saldi": che però si fanno soltanto due volte all'anno e durano pochi giorni, al massimo un paio di settimane. Scriveva domande su domande per cercare un impiego: ma erano tempi difficili, di crisi economica e il lavoro garantito (e ben retribuito) era un miraggio per tutti. Chi l'aveva rischiava di perderlo. Le aziende chiudevano, le fabbriche si trasferivano in paesi lontani dove la cosiddetta "manodopera" costava meno della manodopera di qui. Quasi ogni giorno, anche nella città di Nadia, c'erano cortei e dimostrazioni di protesta, di operai che erano rimasti senza lavoro e senza stipendio perché la loro fabbrica aveva chiuso i battenti, o si era trasferita chissà dove. Molti vivevano grazie alla "cassa integrazione", cioè con i sussidi dello Stato, e sognavano di vincere una grossa somma giocando a un gioco qualsiasi: al lotto, al super-lotto, al lotto abbinato al calcio o alle corse dei cavalli, al "gratta e vinci"... Tutti tentavano la fortuna con le lotterie, perché giocare in quel modo costava poco e se poi non si vinceva, pazienza! Si tornava a giocare dopo qualche giorno. La febbre del gioco aveva finito per diffondersi anche tra le persone benestanti, che a differenza delle altre giocavano in modo sistematico, secondo schemi preparati da esperti: e piú la gente giocava, piú grandi e addirittura favolose erano le vincite. Non passava giorno senza che ci fosse un annuncio. Un milione di euro, dicevano i giornali, era andato a un venditore porta a porta di prodotti cosmetici; dieci milioni erano andati a una casalinga; cento milioni, cioè una cifra da non riuscire nemmeno a pensarla, erano finiti in un villaggio di montagna, a un tale che nella sua vita non aveva mai visto mille euro tutti in una volta e che, quando gli avevano dato la notizia, era stato li li per rendere l'anima. Si vincevano somme enormi, al limite dell'assurdo. Montagne di denaro che non si sarebbero potute guadagnare nemmeno in un secolo finivano nei posti piú strani, in mano a persone che poi, passata la baldoria dei festeggiamenti, non sapevano cosa farne. Tutti speravano di vincere e qualcuno, alla fine, vinceva davvero: come la protagonista della nostra favola Nadia Motta. | << | < | > | >> |Pagina 24Capitolo quarto
Alessandro e il lato "i"
Nadia Motta era cresciuta con la madre e con le "compagne" della madre. Compagne di lotta e di vita: perché Stefi, dopo la nascita della sua prima e unica figlia, aveva cambiato atteggiamento nei confronti dei maschi. Diceva che ormai erano irrecuperabili e che non sarebbero migliorati nemmeno con l'amore libero. Li divideva in due grandi gruppi: quello dei maschilisti e quello dei femministi, cioè degli uomini (pochi) che si sottomettono alle donne e ne riconoscono la superiorità biologica e morale. Dei primi, cioè dei maschilisti, diceva che bisogna abbandonarli al loro destino perché non vale la pena di occuparsene. Degli altri, che appartengono comunque all'altro sesso e che non vale la pena di occuparsi nemmeno di loro. «Se le qualità migliori di un essere umano, - spiegava alle amiche e gridava anche nelle assemblee quando la lasciavano parlare, - sono quelle che si trovano nelle donne, non ha senso cercarle dove non ci sono o, al massimo, sono presenti in misura ridotta cioè negli uomini. Il mondo che verrà, dopo le rovine portate da millenni di predominio maschile, sarà un mondo di sole donne. Perciò è meglio che incominciamo ad abituarci alla scomparsa del maschio, e che impariamo a vivere da sole senza troppi problemi». In seguito a quell'evoluzione del suo pensiero, nella sua casa e nel suo letto erano entrate una Tiziana detta Tizzi, una Daniela detta Dany e una Simona detta Symo; che avevano anche avuto un ruolo non proprio marginale nella vita di Nadia. (Si usava allora tagliare i nomi a metà, soprattutto i nomi femminili, e infarcirli di lettere esotiche: di "y", di "k", di "h", di "w"). Con Symo, che assomigliava nel viso a un cane "boxer" ed era stata l'ultima e la piú tenace delle sue compagne, Stefi era vissuta otto anni. Poi la nostra femminista storica si era stancata anche delle donne e all'epoca della vincita di Nadia viveva da sola. Essendo figlia di tale madre, Nadia aveva incominciato a sfilare nei cortei ancora prima di andare a scuola. Non nei cortei delle femministe, che quando lei era una bambina già non si facevano piú, ma in quelli generici di protesta. Una compagna di Stefi: forse Dany, le aveva insegnato ad alzare le braccine e a unire le mani sopra la testa nel gesto della "fica"; e lei si esercitava in camera da letto davanti allo specchio dell'armadio. Soltanto negli anni successivi, dell'adolescenza, aveva incominciato a ragionare con la sua testa e il gesto della fica le era sembrato un gesto stupido. Le idee di Stefi e delle sue compagne le erano sembrate delle idee stupide, senza rapporto con la realtà e senza futuro. Dopo avere avuto le sue prime avventure (i suoi primi incontri e scontri o, se vogliamo usare una parola grossa: i suoi primi "amori") con ragazzi della sua stessa età e anche con ragazzi piú grandi, Nadia si era convinta che le faccende del sesso, e la divisione tra i sessi, non fossero cose cosí importanti come le si era voluto far credere. In quanto poi alle rivendicazioni delle femministe, pensava che fossero inutili: perché anche in questo mondo dove viviamo, pieno di ingiustizie e di cose assurde, le donne possono ottenere quello che vogliono e di solito lo ottengono meglio dei maschi. Con un po' di furbizia. A sedici, diciassette anni la nostra protagonista aveva capito che le donne sono piú deboli degli uomini soltanto perché credono di esserlo e perché vogliono esserlo. Aveva capito che la loro debolezza dipende soltanto dalla loro stupidità. Era diventata una donna che ha capito tutto. Una "post-femminista". Quelle sue idee, e quelle sue scoperte, l'avevano allontanata da Stefi. I rapporti tra madre e figlia erano diventati difficili, per questioni ideali ma anche per questioni pratiche che riguardavano la vita di ogni giorno: ad esempio per l'abbigliamento. Stefi continuava a vestirsi in modo antiquato e a giudizio di Nadia anche trasandato, con le gonne lunghe fino ai piedi che erano state, per secoli, il capo principale di vestiario delle nonne e delle bisnonne. Anche il resto del suo guardaroba era un campionario di stracci che venivano indossati a rotazione, insieme alle gonne di cui si è appena parlato. C'erano le camicione, le camicette e le camicie comperate alle svendite e ai mercatini dell'usato; c'erano le maglie e le magliette da indossare sulla nuda pelle, naturalmente senza l'odiato reggiseno (che nell'abbigliamento di una femminista storica non può esistere); c'erano i maglioni di lana grossa, per l'inverno, fatti da Stefi personalmente o dalle sue compagne con i ferri da calza. C'erano gli scialli di varie misure e di vari spessori. I piú grandi di quegli scialli erano dei mantelli, che servivano da cappotto nella stagione invernale. (In quanto alle pelli degli animali morti: le cosiddette "pellicce", era proibito anche nominarle. Meglio andare nude!) Stefi naturalmente avrebbe voluto che sua figlia vestisse come lei, anziché con i jeans a vita bassa cosí comuni tra le ragazze della sua età; e che disprezzasse le nuove mode degli abiti e degli oggetti "firmati". Detestava i capi di vestiario fatti per mettere in mostra le rotondità femminili: come se le donne che li indossavano avessero dovuto esibire la loro merce, per un pubblico eccitato di compratori maschi! Non capiva perché si dovessero spendere tanti soldi per coprirsi di niente, con le minigonne e le micro-gonne e le calze a rete che allora si usavano; e perché Nadia continuasse a volere altri vestiti, quando ne aveva già pieno un armadio. A questo proposito, i litigi tra madre e figlia diventavano spesso delle vere e proprie scenate, in cui Stefi rimaneva afona a forza di urlare e Nadia se ne andava di casa sbattendo la porta: giurava che non ci avrebbe rimesso piede, mai piú! Poi però le due donne si riappacificavano e si rassegnavano a sopportarsi fino al litigio successivo, vestendosi ognuna alla sua maniera. I due stili di vita continuavano a convivere. | << | < | > | >> |Pagina 58«Cosa hai provato quando ti sei accorta di avere vinto tutti quei soldi? Eri felice, o eri soltanto sorpresa e anche un po' spaventata? Te lo chiedo, - aveva aggiunto, - perché è in situazioni come quella che si rivela la nostra vera personalità».«Chi siamo e dove vogliamo andare. Da dove veniamo lo sappiamo già, o per essere piú precisi: ci illudiamo di saperlo». «Ero felice, - aveva risposto Nadia, - e continuo a esserlo. Anche se non ho mai dimenticato quello che ci insegnavi quando eravamo al liceo. Dicevi che soltanto i cretini, in questo mondo, possono essere davvero felici...» Alessandro sorrideva e scuoteva la testa. «Quella frase che mi attribuisci, - aveva tenuto a precisare, - in realtà appartiene a un'altra persona. A un filosofo molto piú importante di me: un certo Voltaire...» «Io ne ho fatto la mia regola di vita e la ripeto ogni tanto». «Lo so, lo so, - lo aveva interrotto Nadia. - E per essere sincera devo confessarti che ti ho detto una mezza bugia, perché poi la felicità è quasi scomparsa ed è cresciuta la preoccupazione. Ero, e sono, un po' spaventata». Gli aveva spiegato: «Da un giorno all'altro ho dovuto cambiare il mio modo di vivere. Ho dovuto rinunciare alle mie abitudini e a tutte le mie cose: ai miei vestiti e perfino al mio computer. Sono dovuta scappare dalla mia città e dal mio passato e ne sono contenta, ma non ho ancora le idee chiare su ciò che mi aspetta. In certi momenti, mi sembra di galleggiare nel vuoto...» «Poi, però, mi riprendo subito». Adesso il tono di voce era cambiato, e anche lo sguardo della nostra protagonista esprimeva una determinazione che fino a un momento prima non c'era. «Ho fiducia in me stessa e ho fiducia nei soldi. Forse non danno la felicità, come dicono quelli che ne hanno pochi, ma possono dare quasi tutto il resto. Con i soldi si può fare tutto». Aveva esclamato: «Ventun milioni e seicentomila euro! Se cerchi di immaginarli, - aveva chiesto al suo ex professore, - cosa ti viene in mente?» «Una nave carica di schiavi», le aveva risposto Alessandro. Lei aveva spalancato gli occhi e lo aveva guardato per vedere se parlava sul serio, e lui allora si era messo a ridere. Aveva ripetuto: «Ma si! Una di quelle navi che portavano in America gli uomini destinati a lavorare nelle piantagioni di cotone». Quando Alessandro si comportava in quel modo e incominciava a fare i suoi stupidi discorsi "da intellettuale", anzi: da "intellettuale di sinistra", Nadia l'avrebbe preso a schiaffi. Aveva sbuffato, ma lui non se ne era nemmeno accorto. «Bisogna tornare a Marx, - aveva insistito. - Ti ricordi? Marx sosteneva che il denaro è l'equivalente del lavoro umano. Quella sua teoria in pratica non è mai stata smentita, anche se nella nostra società i soldi nascono dal nulla e poi corrono nel nulla, almeno per un po': come quei personaggi dei cartoni animati che alla fine precipitano». Aveva alzato la voce senza accorgersene, e qualcuno tra i clienti del ristorante "Pappa e Ciccia" si era voltato verso di loro per ascoltare quella strana lezione. Aveva fatto una domanda alla sua ex allieva: «Secondo te, - le aveva chiesto, - quanto lavoro di quante persone c'è in ventuno milioni di euro?» Si era risposto da solo: «In quella cifra ci sono diecine di vite umane sacrificate al lavoro, dalla nascita fino alla morte... L'intero carico di una nave piena di schiavi». Nadia, allora, aveva portato le mani alle orecchie. Aveva detto, con forza: «Basta, basta!» E poi: «Che palle!» Il professore si era stretto nelle spalle, aveva fatto un gesto che significava: ma sí, lasciamo perdere. «Dicevo cosí per dire. Volevo spiegarti che i soldi non danno la felicità perché nascono dal lavoro degli uomini, cioè dalla loro miseria e dalla loro fatica». Aveva ripreso in mano la forchetta e il coltello. Aveva chiesto: «Come posso aiutarti, in questa storia? Lo sai che di soldi ne ho sempre maneggiati pochi, proprio come te, e che non ho piú esperienza di te in questo genere di faccende». Lei lo aveva guardato scuotendo la testa: era ancora irritata. «Innanzitutto, - gli aveva risposto, - devi farmi conoscere quel tuo amico avvocato di cui mi avevi parlato qualche tempo fa. Quello che porta all'estero i soldi dei ricchi per non fargli pagare le tasse, ricordi? Devi fissare un appuntamento e dobbiamo andare a parlargli. E poi mi devi accompagnare alla sede centrale delle lotterie, per consegnare il biglietto della vincita». Gli aveva sorriso in segno di pace. «Ho bisogno di te come amico, - aveva aggiunto. - Di quell'altro Alessandro: di quello che insegna filosofia, non so cosa farmene». «Tienilo per i tuoi studenti». Avevano dormito, come sempre, a casa di lui. Ma quando poi Nadia si era svegliata, un po' prima dell'alba, si era accorta di essere sola nel letto. Era andata in bagno, e Alessandro non era nemmeno lí. Allora si era diretta verso l'ingresso, dove aveva lasciato la borsa da viaggio su una cassapanca. C'era la luce accesa in quella stanza, e attraverso la porta socchiusa la nostra protagonista aveva visto il suo amico professore, nudo come al momento della nascita, intento a rovistare nella sua borsa. Tirava fuori le camicette e le calze, apriva le cerniere delle tasche laterali. Cercava il biglietto da ventuno milioni di euro. Lei, allora, si era sorpresa a sorridere. Aveva pensato: «È piú furbo di quanto vuol far credere quando fa i discorsi da intellettuale, ma nemmeno io sono stupida». Si era sentita piú tranquilla ed era ritornata a dormire. Quando poi si era svegliata per la seconda volta con la luce del nuovo giorno, e si era alzata, Alessandro era già vestito da capo a piedi e si stava preparando a uscire. Le aveva versato il caffè. Prima di andarsene, aveva tirato fuori una bustina da un cassetto e si era messo un po' di polvere bianca sulla mano sinistra, nell'incavo tra l'indice e il pollice. L'aveva aspirata con la narice sinistra. «La prendi tutte le mattine?», aveva chiesto Nadia. Lui l'aveva guardata e aveva fatto segno di no con la testa senza dire niente. Aveva messo un altro pizzico di polvere tra l'indice e il pollice della mano destra, e l'aveva tirata su con l'altra narice. Aveva buttato via la bustina. Le aveva risposto: «Con quello che guadagno non potrei permettermela. Costa cara». E poi: «La prendo quando ho bisogno di darmi un po' di carica, come oggi». «Non so perché, ma la notte scorsa ho dormito poco». Era andato nel suo studio e ne era uscito con in mano la borsa da professore, dove teneva i libri e gli appunti per le lezioni. Aveva detto: «Stasera non ci vedremo: ho un altro impegno. Oggi pomeriggio, però, proverò a telefonare al mio amico Gabriele cioè all'avvocato Zoppi: quello che si occupa di soldi e di tasse. Spero di trovarlo in ufficio. Gli dirò che devo fargli conoscere una nuova cliente e gli accennerò il tuo problema. Gli chiederò un appuntamento: sei contenta?» «Se mi chiami all'ora di cena ti dirò come è andata». «E del tuo impegno di stasera, non mi dici niente?» Nadia, adesso, lo guardava in un certo modo che avrebbe dovuto esprimergli la sua complicità ed era invece una manifestazione residua di gelosia. Gli aveva chiesto: «La donna che devi incontrare è una delle solite, o è una nuova? Che nome le hai messo?» «Ne parleremo nei prossimi giorni, - aveva risposto Alessandro: col tono di chi deve proprio chiudere un discorso. - Scusami ma sono in ritardo». L'aveva baciata sui capelli. Aveva detto:
«Quando esci, tirati dietro la porta. Ci sentiamo piú tardi».
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