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| << | < | > | >> |Indice9 Presentazione Mario Cedrini, Alberto Martinengo, Santiago Zabala 17 Nota redazionale 18 Fonti Il concetto di fare in Aristotele 21 Capitolo primo Il concetto di τεχνη nell'Etica Nicomachea 21 1. L'arte fra le attività umane 23 2. Il fare come iniziativa dell'uomo 24 3. La definizione di τεχνη 29 Capitolo secondo Arte e natura come principi di divenire 29 1. La τεχνη come principio di [...] 31 2. La τεχνη come principio di divenire [...] 36 3. Indefinitezza del divenire [...] 39 Capitolo terzo Il concetto di imitazione e la più vasta somiglianza fra arte e natura 39 1. Interpretazione del concetto di imitazione in funzione estetica 40 2. L'imitazione è un "fare come" la natura 43 3. Imitazione come operare ordinato e finalistico 48 4. L'imitazione come riproduzione di processi naturali in vista dell'utilità 50 5. Imitazione come organizzazione del molteplice secondo la forma 52 6. Altri testi sull'imitazione. Conclusione 57 Capitolo quarto Il concetto di imitazione nella Poetica 57 1. L'imitazione poetica nel quadro generale della dottrina dell'imitazione 58 2. Il concetto di riconoscimento come fondamento del piacere estetico 62 3. Poesia e mondo morale: la catarsi 64 4. Piacere e catarsi come fondamento delle regole poetiche 67 5. Verisimile e necessario 71 6. Regole morali come leggi di formazione della tragedia 75 Capitolo quinto La forma del prodotto artificiale 75 1. Il problema della generazione della forma 76 2. Che cosa significa l'ingenerabilità della forma 78 3. Il "sorgere" della forma nella mente dell'artefice: senso e ragionamento. L'[...] della felicità 84 4. La forma come atto nel fare 91 Capitolo sesto Il concetto di τεχνη 91 1. La τεχνη come [...] 95 2. La τεχνη come sistema di principi generali 99 3. Τεχνη e scienza poietica 101 4. La τεχνη come precettistica 102 5. Il sillogismo produttivo 105 6. Il problema della "verità" dell'arte 109 Capitolo settimo Necessità, contingenza e finalità nell'arte e nella natura 109 1. Necessità assoluta e necessità ipotetica 115 2. Finalità, riuscita e bellezza 118 3. Irriducibilità di necessità a finalità 121 4. Necessità meccanica e individualità del prodotto 123 Capitolo ottavo Il processo produttivo 123 1. La somiglianza iniziale 128 2. Il processo come movimento: la riduzione alla causa formale 131 3. Il processo come movimento: finalità e contingenza 134 4. Il processo produttivo come movimento organico 138 5. Il processo come totalità definita 142 6. Gli strumenti nel processo produttivo 147 Capitolo nono Il prodotto come organismo 147 1. Due aspetti del concetto di organismo 148 2. Caratteri organici e prodotto artificiale 153 3. Caratteri formali e vita dell'organismo 164 4. Il prodotto come organismo 175 Bibliografia Saggi 183 L'estetica in Italia nel 1962 203 Verità, comunicazione, espressione 211 Il V Congresso internazionale di Estetica di Amsterdam Recensioni 223 Recensione a Umberto Eco, Il problema estetico in S. Tommaso 227 Recensione a Jean-Claude Piguet, De l'Esthétique à la Métaphysique 233 Recensione a Pierre-Maxime Schuhl, Ιtudes platoniciennes 239 Recensione a Francis J. Kovach, Die Aesthetik des Thomas von Aquin 245 Recensione a Paul Frankl, The Gothic. Literary Sources and Interpretations through Eight Centuries 249 Recensione a Theodor W. Adorno, Noten zur Literatur |
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Mario Cedrini, Alberto Martinengo, Santiago Zabala
Il pensiero di Gianni Vattimo è indissolubilmente legato a quel fenomeno fondamentale per la filosofia del Novecento che è comunemente noto come "koiné ermeneutica". La filosofia dell'interpretazione non è soltanto il quadro di riferimento nel quale la sua riflessione si muove, ma è anche l'indirizzo al quale Vattimo ha concorso in prima persona, consentendogli di ottenere in Italia e all'estero tutta la risonanza culturale che lo ha contraddistinto. Del resto, non è solo una coincidenza temporale quella che associa gli esordi del suo percorso filosofico all'uscita di alcuni dei testi fondativi dell'ermeneutica contemporanea, dall' Estetica di Luigi Pareyson (1954), a Verità e metodo di Hans Georg Gadamer (1960), a Finitudine e colpa di Paul Ricur (1960). A tutti gli effetti, il problema dell'interpretazione è al centro del suo pensiero: lo è in ogni fase, dagli inizi nei primi anni Sessanta fino alle soluzioni più recenti; ma a maggior ragione lo è per un ambito di ricerca ben definito in cui il "significato dell'ermeneutica per la filosofia", come recita il sottotitolo di Oltre l'interpretazione (1994), diventa il problema fondamentale. Dire che la filosofia di Vattimo ricade, almeno in prima istanza, entro i confini dell'ermeneutica significa dunque fare un'affermazione valida in due sensi, alquanto diversi tra loro: il primo dei quali è senz'altro il più generale e si avvicina molto all'idea di koiné come Vattimo stesso la descrive, mentre il secondo ha a che fare con un significato più ristretto, quasi tecnico, che qui è impossibile trascurare. Da una parte, infatti, per Vattimo è senz'altro vero che "tutto è interpretazione": il modo in cui l'esistenza si dà un mondo passa anzitutto per utilizzare le categorie heideggeriane attraverso la mediazione di precomprensioni, che sono storicamente determinate e condizionano la costruzione di ciò che definiamo "oggettività". Dall'altra però ed è il significato ristretto della sua adesione all'ermeneutica questa premessa contiene un insieme di difficoltà che non possono essere sottovalutate e che riguardano le pretese di verità a cui essa può legittimamente aspirare. Rileggere ora i testi in cui Gianni Vattimo affronta il problema ermeneutico significa prendere atto di questa duplicità di accezioni e provare a dirimerla. Senza entrare nel merito di una discussione che sarebbe impossibile ripercorrere in pochi passaggi, i due livelli ai quali la sua riflessione incrocia le discussioni sull'ermeneutica contemporanea contengono infatti una serie di problemi. In primo luogo per Vattimo, come per molti filosofi del Novecento, l'interpretazione in generale è il modo in cui il "soggetto" incontra il "mondo" e inizia a orientarsi in esso. Da questo punto di vista, volendo giocare con il paradosso ma è un paradosso soltanto apparente si potrebbe dire che l'ermeneutica non è affatto una filosofia tra le altre; semmai si dovrebbero rovesciare i termini della questione e sostenere, al contrario, che la filosofia è un'ermeneutica tra le molte possibili. Il significato di questo rovesciamento è evidente. Se infatti tutto è interpretazione (e dunque tutto è ermeneutica), la filosofia è soltanto uno dei modi in cui quest'universalità si concretizza: qualsiasi comprensione del mondo (dall'arte alla storia, dalle scienze umane alla politica) è in tutto e per tutto un fatto ermeneutico. Ma questo ribaltamento della prospettiva non è senza conseguenze per il secondo livello del discorso, che potremmo definire strutturale. Se infatti si dà per acquisito e in Vattimo vi sono buone ragioni per farlo che non sia la filosofia a contenere in sé l'ermeneutica, ma viceversa sia il carattere interpretativo della verità in generale a ripercuotersi sulla filosofia, ciò trasferisce all'ermeneutica una necessità del tutto particolare, che per il pensiero debole resta centrale. Si tratta di quell'esigenza fondativa che Vattimo, consapevole di sostenere una tesi a prima vista contraddittoria, considera prioritaria per la filosofia dell'interpretazione. Ed è una priorità per nulla scontata: un pensiero che prende le mosse dalla rinuncia a dichiararsi portatore di una validità oggettiva può ancora presentarsi come vero e rigorosamente fondato? Pur prendendo sul serio le obiezioni che si possono muovere in tal senso, Vattimo pensa che la risposta a questa domanda debba essere sostanzialmente positiva. Nel bene e nel male, insomma, il pensiero debole ritiene di poter articolare la propria legittimità rispetto agli altri modi di concepire la filosofia; e anzi, nonostante la varietà delle obiezioni che normalmente gli vengono rivolte, fa della ricerca di una logica ermeneutica il proprio punto di forza inequivocabile. Di tale legittimità Vattimo discute a lungo, non negando il buon diritto degli altri modi di praticare l'ermeneutica (per esempio quelli basati su una concezione della filosofia di stampo irrazionalistico); ma arriva infine a formalizzare un modello ermeneutico di argomentazione che consente alla filosofia dell'interpretazione di non abbandonare il lessico della razionalità. Sono queste conseguenze "logiche" dell'interpretazione a rappresentare il punto di passaggio dal significato ampio del termine "ermeneutica" a quello ristretto. E si tratta di un passaggio fondamentale, proprio in virtù di quell'universalità dell'interpretazione, che la filosofia del Novecento ha in larga parte assimilato: senza questo spostamento di accento dall'ermeneutica come koiné all'ermeneutica come canone dell'argomentazione, infatti, la tesi secondo cui "tutto è interpretazione" non esce realmente dal paradigma della descrizione, di cui invece vorrebbe rappresentare il superamento. Θ dunque per sciogliere la contraddizione performativa alla base dell'ermeneutica (il paradosso del mentitore, che è contestato a ogni forma di scetticismo) che Vattimo pensa l'interpretazione non soltanto come una pratica generale della comprensione, ma come una "logica del discorso" in senso stretto. Proprio per questo motivo un motivo del tutto interno alle ragioni del pensiero debole si è scelto di identificare, all'interno dei testi di Vattimo, un ambito di sviluppo specifico della teoria dell'interpretazione. In altri termini, è indiscutibile che tutta la produzione di Vattimo sia in senso lato ermeneutica, dagli studi più tipicamente filosofici a quelli dedicati all'arte, alla religione e a maggior ragione a quelli che fanno riferimento alla politica. Ma ciò non toglie che questa "pratica ermeneutica diffusa" presupponga una serie di questioni di fondo, concernenti la legittimità e i limiti dell'interpretazione come tale. Da qui l'esigenza di isolare un insieme di testi quelli raccolti nel volume I delle Opere complete che ricadono nell'ambito dell'ermeneutica intesa come modello "logico". A questo doppio registro della filosofia dell'interpretazione si dovrà fare caso in ogni passaggio del discorso, a maggior ragione rileggendo i primi testi del percorso filosofico di Gianni Vattimo. | << | < | > | >> |Pagina 203Verità, comunicazione, espressione1. Nella discussione filosofica sul problema della comunicazione ci si imbatte spesso in un equivoco, che non dipende tanto, o principalmente, da un errore di impostazione di chi si accinge alla ricerca, quanto dal concetto stesso di verità che domina la filosofia occidentale per l'intero corso della sua storia. Un problema della comunicazione esiste per la filosofia, in tale prospettiva, solo come possibilità della trasmissione di contenuti di coscienza: sia che ci si domandi come è possibile che un contenuto di coscienza si trasmetta da un "soggetto" a un altro, sia che, incontrando improvvisamente i limiti di questa possibilità di trasmissione (lo "scacco" della comunicazione), ci si ponga alla ricerca di un "fondamento" che assicuri la possibilità di una trasmissione completa, senza residui e limitazioni. Tuttavia è significativo che, nelle filosofie del nostro secolo che si sono poste esplicitamente questo problema, e più ancora nella coscienza comune come essa si esprime per esempio nella letteratura, nel teatro, nel cinema, il problema della comunicazione nasca generalmente da una insoddisfazione, dalla constatazione dello scacco, piuttosto che dalla considerazione del "miracolo" del comunicare: in questa chiave per esempio si può leggere, e si è letta, l'intera opera di Kafka. L'agrimensore de Il castello che cerca invano di mettersi in rapporto con i suoi fantomatici "datori di lavoro", l'impiegato de Il processo che è processato e condannato senza mai riuscire a sapere quale sia l'accusa e chi siano i giudici, il Gregorio Samsa della Metamorfosi che, dopo la trasformazione in millepiedi, perde via via ogni possibilità di contatto anche con le persone della sua famiglia sono tutte figure che, in buona parte giustamente, la critica letteraria ha assunto come emblemi dell'uomo contemporaneo che non riesce a uscire da sé, a trovare qualcuno davvero capace di ascoltarlo e di rispondergli. Ciò che importa rilevare, per mettere in luce l'equivoco implicito nel modo comune di impostare il problema della comunicazione, è che questa letteratura dello "scacco" della comunicazione nasce proprio in un mondo dove le "tecniche comunicative" hanno raggiunto uno sviluppo mai conosciuto prima d'ora. Proprio questo apparente paradosso dovrebbe indurci a rivedere l'idea che generalmente ci facciamo della comunicazione. Se infatti la comunicazione è davvero trasmissione di contenuti di coscienza, di Erlebnisse, nessuna epoca storica ha conosciuto strumenti di trasmissione paragonabili, per quantità e qualità, a quelli che ora abbiamo a disposizione. Non solo sono aumentati a dismisura gli strumenti, ma è cresciuto enormemente il tempo che, di fatto, ciascuno passa con gli altri, condividendone sentimenti ed esperienze: milioni di persone passano la serata davanti al televisore o al cinema, leggono gli stessi giornali, condividono gusti e opinioni, consumano gli stessi prodotti e coltivano le stesse aspirazioni; è aumentata cioè la quantità di contenuti di coscienza che ciascuno ha in comune con gli altri, nell'ambito di gruppi i cui confini si vanno sempre più dilatando. Se la comunicazione è davvero la trasmissione di contenuti di coscienza da un soggetto a un altro, tale situazione dovrebbe essere ideale. Θ difficile riuscire a vedere quali "barriere invalicabili" si frappongano ancora tra persone che fanno quotidianamente le medesime esperienze e reagiscono in maniere sostanzialmente identiche, come dimostra per esempio il successo delle campagne pubblicitarie, commerciali o politiche.
Tuttavia, è un fatto che il tema dell'incomunicabilità sia uno
dei luoghi comuni più radicati e diffusi dell'arte contemporanea;
anche la psicologia e la sociologia rilevano l'esistenza di un problema della
comunicazione nella moderna società di massa. Lo
stesso vertiginoso sviluppo degli strumenti di trasmissione, del resto, può
essere agevolmente considerato una prova dell'insoddisfazione per i risultati
finora raggiunti, di una ricerca tesa verso
qualcosa che, nonostante tutto, ancora non possediamo. Non è
quindi una vuota affermazione moralistica il dire che, quanto più
si sviluppano e si perfezionano i mezzi di trasmissione dei contenuti di
coscienza, tanto meno in realtà si riesce a raggiungere l'ideale, almeno
implicito, della comunicazione, e anzi quello che si
potrebbe genericamente chiamare il senso di solitudine aumenta.
2. Una delle spiegazioni più comuni di questo paradosso è quella che contrappone la "vita" alle "tecniche", l'intimità dei contenuti di coscienza all'esteriorità dei mezzi di comunicazione: col crescere delle tecniche comunicative si avrebbe così una sorta di degradazione e impoverimento di ciò che viene comunicato; la perfezione tecnica sarebbe caratterizzata da una schematicità e da una rigidezza incapaci di adeguarsi alla mobile molteplicità della vita. La superficialità di una tale contrapposizione fra tecnica e vita diventa manifesta anche riflettendo su fatti semplicissimi: per esempio, al fatto che, quando ci si ammala di polmonite, si ricorre al medico, cioè a un "tecnico" proprio per mettere al sicuro la "vita". La vita inventa le tecniche proprio per conservarsi, arricchirsi, svilupparsi creandosi condizioni più favorevoli, e le tecniche non la tradiscono; la loro storia è anzi la storia di una sempre più perfetta adeguazione ai bisogni dell'uomo. E non è neanche vero che questa continua adeguazione, lo sviluppo incessante della tecnica, dimostri la sua invincibile inadeguatezza: la vita, si dice, oltrepassa sempre la tecnica, rendendo anacronistici i mezzi di cui ci siamo serviti fino a oggi ed esigendone dei nuovi. La storia della tecnica mostra che questa prospettiva è falsa e semplicistica. Il mondo degli strumenti tecnici non è solo a rimorchio della vita: suscita esso stesso condizioni di vita diverse, crea aperture nuove che la "vita" non avrebbe mai sospettato. Anche rispetto alla comunicazione, non è vero che la tecnica tradisca la vita: la grammatica con le sue regole precise, lo stesso test degli psicologi, con le sue risposte tipizzate, il vocabolario che codifica e fissa i significati delle parole, sono tutti strumenti per rendere più sicura e fidata la comunicazione, spogliandola di quelle ambiguità che appunto rendono difficile la trasmissione dei contenuti di coscienza da una persona all'altra.
Il paradosso della situazione in cui viviamo non è tanto che,
pur essendo cresciuti a dismisura i mezzi di comunicazione, la comunicazione
stessa sembri diventata difficile o impossibile; il vero
paradosso è rappresentato dalla posizione di coloro che, continuando a concepire
la comunicazione come trasmissione il più possibile perfetta di
Erlebnisse
da un "soggetto" a un altro, trovano tuttavia che gli strumenti di comunicazione
inventati e perfezionati dalla tecnica moderna tradiscano questo ideale e anzi
ne rendano più difficile la realizzazione. Rispetto alla comunicazione
così intesa, invece, i mezzi moderni di trasmissione vanno valutati
positivamente. Se si tratta di comunicare nel senso di attuare una
confessione completa di sé agli altri, le tecniche diagnostiche e terapeutiche
della psicanalisi, per esempio, hanno enormemente
sviluppato la nostra capacità di "confessarci", dandoci il modo di
svelare tutti i (o molti dei) sottofondi inconsci che "spiegano" i
nostri stati di coscienza. La psicanalisi mi dà modo di dire la verità su di me,
se per verità intendo le "cause", il "perché", il "fondamento" di un certo
fenomeno interiore. Si può discutere sulla
maggiore o minore validità ed efficienza di questo o quel metodo
psicanalitico, ma non si può negare che essa rappresenti indiscutibilmente un
enorme passo avanti sulla via della comunicazione intesa come trasmissione di
Erlebnisse,
giacché li sottrae alla loro ambiguità, li demistifica e li mette a disposizione
nella loro radice psicologica più profonda.
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