Copertina
Autore Gianni Vattimo
Titolo Ecce comu
SottotitoloCome si ri-diventa ciò che si era
EdizioneFazi, Roma, 2007, Le terre Pensiero 150 , pag. 136, cop.fle., dim. 13,4x20x1 cm , Isbn 978-88-8112-606-4
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe politica , filosofia , religione
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Indice


Premessa.
Futuro della religione, futuro del comunismo  3


Parte prima.
UNA LUNGA MARCIA ATTRAVERSO LE OPPOSIZIONI

L'illusione europea                           9
Europa terza via?                            15
L'impero, le moltitudini, le istituzioni     19
Le guerre da combattere                      24
Dall'utopia alla parodia                     27
Il comunismo ritrovato                       30
Sovversivismo democratico                    43

Parte seconda.
ECCE COMU

Una democrazia normale?                      55
Politica e avanguardia                       58
L'esperienza dell'Italia di destra           61
Parlare di alberi                            66
Cattocomunismo                               70
Il sogno della liberazione                   73
Autenticità?                                 75
Le buone ragioni del vecchio Marx            78
Nuovo proletariato?                          80
Storicismo                                   82
Anarco-comunismo?                            84
Diritti umani                                88
Gli er(or)rori del comunismo reale           91
Pensiero debole, nichilismo                  93
La sinistra italiana e la democrazia         96
Democrazia corruttiva?                      101
Il riformismo e la fine della politica      104
Lo "spettro" di Marx                        107
Davvero mancano progetti?                   111
L'esempio latinoamericano                   114
Comunismo ideale, e perciò: anarchico       118
Comunismo e interpretazione                 121
Le chance del comunismo                     125

Fonti                                       129
Nota bibliografica                          131

 

 

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Pagina 3

Premessa
Futuro della religione, futuro del comunismo



Le tesi, opinioni, posizioni che si espongono in questo piccolo libro sono il risultato di una esperienza politica, in certo senso fallita, ma solo in un certo senso, che ha condotto l'autore alla conclusione che si tratta di ri-diventare comunisti. Il titolo – alquanto ermetico, ammettiamo – riprende parodisticamente il titolo della autobiografia di Nietzsche, che era: Ecce homo. Come si diventa ciò che si è. La mia marcia attraverso le opposizioni è stata da un lato breve, se la identifico con il periodo in cui sono stato deputato europeo nelle file dei DS (e dunque nel gruppo del socialismo europeo); ma lunghissima, quasi tutta la mia vita "adulta", se mi riferisco alla costante "cattocomunista" a cui sono fedele da sempre. Non so se in alcuni momenti sia prevalsa una delle due componenti del termine e dell'atteggiamento che vi corrisponde. Confesso che oggi tendo sempre più a sostituire il "catto", la componente cattolica, con un più generale "cristiano" (non abbiamo mai usato, e osato, il termine "cristocomunista"). Insomma, di fronte a quello che la Chiesa cattolica sempre più è diventata dopo gli ultimi pontificati, ciò in cui sento di dovermi riconoscere è la più generica, e ampia, qualifica di cristiano. Lutero parlava così della libertà del cristiano, e proprio in polemica contro la pretesa disciplinare e dogmatica della Chiesa del suo tempo. Se non mi sento di chiamarmi luterano è solo perché continuo a (tentare di) pensare che davvero le due fonti della rivelazione sono la Bibbia e la Tradizione, dunque non la "sola Scriptura" di Lutero. La Bibbia mi è stata trasmessa dalla Chiesa, se no non l'avrei mai conosciuta. Ma la Chiesa che mi trasmette la Bibbia è sempre meno quella della gerarchia cattolica (diventata dogmaticamente "infallibile" solo nel 1870); è invece quella comunità dei cristiani che, come si vede da tanti segni (compreso quello "scisma sommerso" di cui ha parlato, in un libro rivelatore, il filosofo cattolico Pietro Prini), diverge sempre più, nel proprio modo di vivere e concepire la pratica cristiana, dai palazzi vaticani.

Qui si incontra forse uno dei segni più evidenti della "italianità" del libro che oggi presento, perché è ovvio che la "questione cattolica" è soprattutto un affare italiano, giacché è in questo paese che pesa di più il secolarismo e la pretesa di potere politico del clero. In quanto ha da fare con la "punta" di un iceberg molto più grande e pervasivo – visto che in tutto il mondo, ormai, la Chiesa tende a presentarsi come potere capace di contrastare, quando non può influenzarle, le istituzioni politiche, democratiche o no che siano – questo atteggiamento "luterano" sui generis (contro il papa per amore della Chiesa) ritiene di non essere affatto provinciale e solo legato a una prospettiva italiana.

Ma è evidente che il tema del libro è principalmente la ritrovata (o ritrovanda) speranza comunista. Che non solo in Italia potrebbe e dovrebbe accompagnarsi con una rinnovata adesione al messaggio evangelico o, più in generale, alla predicazione di fratellanza che si incontra in tutte le grandi religioni. Non è inverosimile che un giorno i capi di queste religioni, quando si incontrano per esempio ad Assisi a pregare per la pace del mondo, invece di deplorare semplicemente l'aumento della violenza o, peggio, la "corruzione dei costumi", diano voce alle speranze di comunismo – sì, proprio – che già appartennero alla fede e alla pratica delle prime comunità cristiane e che, come abbiamo con stupore e dolore letto nella enciclica Deus caritas est di papa Benedetto XVI, andarono poi "naturalmente" perdute. E non furono mai recuperate dopo la cosiddetta "donazione di Costantino", facendo della Chiesa-gerarchia sempre più quello che è oggi, la alleata fedele della conservazione.

Se in Italia la trasformazione delle strutture sociali, ed economiche, del dominio richiede anche e prima di tutto una "conversione" della Chiesa, è abbastanza probabile che in modi meno diretti (penso alla persistente ingerenza delle gerarchie ecclesiastiche nelle elezioni italiane, e dunque, poi, nelle scelte dei parlamentari che, per quanto spesso non credenti, temono il loro ostracismo) ciò valga anche almeno per tutto il mondo occidentale, nel quale l'ordine capitalistico continua a valersi dello spauracchio dell'ateismo comunista per difendere il proprio potere e tutte le disuguaglianze che esso perpetua. Le maggioranze morali che fanno la forza del conservatorismo americano comprendono certo anche molti fedeli cattolici, e comunque masse di credenti cristiani che sono legate, anche per colpa delle loro gerarchie ecclesiastiche, a una visione del tutto non cristiana della storia e della società. Per non parlare dell'importanza del fattore religione nel "conflitto di civiltà" che sempre più spesso viene evocato, ancora una volta come pura maschera ideologica della lotta per la difesa del dominio capitalistico sulle risorse del pianeta. Io non credo a un possibile futuro della religione che non sia anche il futuro del comunismo. Non l'ho mai pensato e detto con questa chiarezza, ma sono convinto di esservi arrivato sulla base di una esperienza non puramente individuale ma largamente, seppure spesso solo implicitamente, condivisa. Dunque, sebbene queste pagine vogliano essere lette anzitutto come un discorso politico e non come manifesto di una rivoluzione religiosa, spero che non si dimentichi il peso che nella determinazione dei loro contenuti ha avuto il costante e mai rinnegato orientamento "cattocomunista" dell'autore.

gennaio 2007

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Pagina 30

Il comunismo ritrovato



Solo perché anche una introduzione storico-biografica deve finire, inserisco qui, a conclusione della mia marcia attraverso le opposizioni, il testo dell'intervento tenuto al Congresso del Pdci a Rimini ai primi mesi del 2004, accompagnato da una discussione che esso suscitò e dalla risposta che scrissi per il «manifesto». E da qui che comincia, per dire così, Ecce comu.


L'intervento al Congresso Pdci di Rimini

Ciò di cui si tratta in questo congresso, come si legge nel titolo ("Al lavoro per la sinistra"), è in definitiva il futuro della sinistra in Italia, in Europa, e anche oltre, detto senza iattanza. Per quanto appaiano limitate le forze di questo partito, non è affatto irrealistico pensare che proprio sulle sue spalle ricada principalmente il compito di ridisegnare un tale futuro. Lo dice uno che, come me, ha cominciato la carriera politica solo dal 1999, come parlamentare europeo dei Ds, ma che ha avuto modo di vivere la graduale trasformazione di quel partito in una forza politica moderata, ossessionata dal pensiero di aumentare i propri consensi al centro e a destra, senza alcuna attenzione al fatto, elementare ed evidente, che perdeva voti, invece, disamorando dalla politica proprio l'elettorato di sinistra. Non credo semplicisticamente che questa ossessione mascheri un "tradimento" delle proprie origini e delle proprie motivazioni profonde; è innanzitutto il risultato di una analisi sbagliata della situazione italiana ed europea.

Sono prova di ciò le recenti vicende del voto sull'Iraq e dell'abbandono dei DS da parte di un settore – per ora minoritaria, certo – della sinistra interna; che però, mi pare indiscutibile, prepara un ben più consistente abbandono da parte di schiere di elettori. Ma si può vedere un corso simile anche nelle difficoltà di Blair nei confronti del Partito Laburista in Gran Bretagna; e di Schrφder in Germania, dove tutto si può dire tranne che il suo partito tenda ad abbandonarlo perché egli si colloca troppo a sinistra. In generale, se la sinistra europea perde – come anche è successo in Francia – le motivazioni sono altre, analoghe in linea generale a quelle che motivano la crisi dei DS in Italia: il proposito di restare legati a tutti i costi a un finto progressismo che accetta senza discutere l'idea del mercato, e dunque si trova obiettivamente a condividere il programma di un capitalismo compassionevole che, com'è noto, guida l'amministrazione Bush.

Anche per la sinistra di Blair, di Schrφder, dei nostri compagni DS italiani, sembra – ma non mi pare lo smentiscano mai – che il capitalismo e l'economia di mercato siano le sole vie ancora aperte alla politica; le differenze si dovrebbero collocare solo al livello della maggiore o minore "compassionevolezza" dei sostegni statali ai lavoratori e alle loro famiglie rovinate dalla "inevitabile" ristrutturazione capitalistica, ovviamente indefinita come infinito è il flusso del capitale finanziario che circola nel mondo provocando chiusure di aziende, trasferimento di produzioni in altre zone dei pianeta piu redditizie perche meno intaccate, ancora, dalle conquiste sindacali o, semplicemente, refrattarie a ogni idea di diritti umani. Ogni volta che un'azienda chiude, riduce il personale, si sposta in India o in Cina, le sue azioni aumentano di valore facendo la gioia degli azionisti – per lo più grandi, ai piccoli sono spesso riservati bond ridotti a spazzatura che le banche sono pronte a rifilare loro appena si delinei una minaccia di fallimento. Anche il (sacrosanto, a breve scadenza) programma di una Europa della conoscenza, che tende ad accrescere il valore dei nostri prodotti mediante l'intensificazione del loro contenuto di tecnologia avanzata, finisce solo per corrispondere a questa logica mercantile e spietatamente, diciamolo, concorrenziale: dobbiamo sviluppare le nostre tecnologie in modo da produrre merci che battano la concorrenza cinese, indiana, eventualmente africana. Fino a quando?, si potrebbe domandare. Appunto, indefinitamente, giacché è attraverso questa selezione naturale di tipo darwiniano che si realizza lo "sviluppo", quello misurato in termini di PIL, che non guarda naturalmente alle difficoltà e alla vera e propria disperazione degli individui e delle famiglie stritolate da questa logica.

La sinistra ha davvero un orizzonte diverso da offrire, un diverso progetto di futuro, che non consista nell'inseguire questa danza frenetica condotta ormai solo dal capitale finanziario, che però non si lascia nemmeno, come pure potrebbe, descrivere come un felice abbandono del principio di realtà, come era per certi aspetti il programma di Keynes? Giacché qui il principio di realtà continua a vigere in pieno, è la proprietà delle grandi multinazionali, la finanza che comanda i grandi spostamenti speculativi dei capitali in conseguenza dei quali interi paesi vengono ridotti alla fame (Argentina insegna). La fiducia dei nostri liberisti e finti socialisti nella forza progressista del mercato non è scalfita nemmeno dall'osservazione più banale, che ormai tutti possono fare; quella per cui nell'economia americana, che è il modello di questo vertiginoso sviluppo a cui dovremmo avvicinarci tutti, negli ultimi dieci o quindici anni la distanza tra poveri e ricchi, e anche il tasso "assoluto" di povertà (non solo la povertà "percepita", direbbero i nostri meteorologi), cioè il numero di famiglie che vivono al di sotto di un certo reddito, sono tremendamente aumentati. Del resto è ciò che sta succedendo in Italia proprio in questi ultimi anni; e che dovrebbe condurre finalmente allo sfascio il governo Berlusconi, giacché tutti si rendono conto che non è solo "colpa" dell'euro, ma delle politiche miopi, anzi cieche, del governo del cavaliere – che peraltro si arricchisce sempre più, anche utilizzando leggi come il decreto "salva Rete 4" che la sua maggioranza di servizio gli ha compiacentemente votato.

Ma ripetiamolo, non è solo questione di specifici provvedimenti di politica italiana. Qui è questione di domandarsi se esista ancora una prospettiva ideale, teorica, della sinistra. La parabola di un filosofo come Lucio Colletti, partito da un marxismo intransigente anche se già alquanto infetto da prospettive scientistiche, e poi approdato al culto di Popper e della sua avversione per la metafisica e le ideologie, può ben valere come illustrazione della perdita di prospettive della sinistra intera. La quale oggi, in Italia ma anche in Europa, naviga a vista, arrivando a teorizzare esplicitamente che il suo problema è solo quello di "vincere le elezioni", si intende purchessia o quasi – visto che, proprio in nome di un anti-ideologismo di ispirazione popperiana, si rifiuta di stabilire paletti programmatici che la distinguano nettamente dal suo avversario, il quale almeno le elezioni le vince davvero...

Lasciatemi dire, in quanto anch'io sono stato coinvolto nella vicenda italiana della fine postmoderna delle ideologie, che questo modo di intendere l'abbandono delle metafisiche nella politica può solo dar luogo a quella specifica forma di empirismo che fu il craxismo, non a caso oggi rivalutato da appositi convegni "di sinistra", e da autorevoli libri come quello del segretario dei DS. La sinistra, se non vuole perdere la testa e il cuore, oltre ai voti e, ormai, alla faccia, può solo rifarsi alla sua eredità teorica più radicata e ricca, e oggi straordinariamente attuale proprio mentre gran parte dei suoi dirigenti giurano di "non essere mai stati comunisti" e si sforzano di mostrarsi moderati, costruttivi, dialoganti con la banda di mafiosi che ha occupato il potere. Intendo l'eredità di Marx; la cui previsione (profezia?) sulla progressiva proletarizzazione della società, prima degli operai e ora ormai delle classi medie (i colletti bianchi americani che lavorano, quando va bene, come camerieri nei McDonald's) non è mai stata così evidentemente realizzata. Il cosiddetto popolo delle partite IVA, quando non è anch'esso ridotto a un'ansiogena rincorsa con le continue ristrutturazioni produttive imposta dal capitalismo finanziario, è appunto il popolo che paga, duramente, l'IVA, in una paese dove i condoni edilizi e le leggi ad personam favoriscono solo i grandi evasori.

Possiamo ripartire dalla osservazione elementare di queste "buone" ragioni di Marx; e domandarci come mai la sua profezia si realizza, mentre il capitalismo del cosiddetto libero mercato celebra il suo massimo trionfo politico – non c'è più il babau dello Stato sovietico, la minaccia incombente del comunismo, il clima della guerra fredda, che ormai siamo ridotti a rimpiangere, visto che stiamo precipitando sempre più in guerre calde e caldissime? Non solo; anche quello che il capitalismo sembrava – ma poi era vero? – assicurare di contro alla oppressione sovietica, e cioè la libertà di opinione, di coscienza, di ricerca della felicità, di espressione della propria vocazione, e la garanzia della privacy, oggi viene a mancare progressivamente, a cominciare dal paese "madre di tutte le democrazie", come lo ha chiamato di recente, con consapevole ironia, un giornalista niente affatto estremista come Vittorio Zucconi. La minaccia, vera, presunta, o addirittura creata, del terrorismo (non si dimentichi il rapporto dei servizi segreti britannici sulle armi dell'Iraq, che è stato reso più "sexy" su ordine del premier – non lo ha smentito nemmeno il conciliantissimo Lord Hutton), sta motivando un controllo sempre più capillare del governo Bush su ogni aspetto della vita degli americani. Andate a vedere il film La giuria, dove ci si rende conto di come la società, almeno quella politica, americana, sia una società dei ricatti, proprio perché è una società del controllo. Non del controllo di tutti su tutti – questo sarebbe anche un possibile ideale socialista, forse leggermente invasivo – ma di pochi su tutti gli altri.

Alla profezia di Marx sulla progressiva proletarizzazione che si verifica nella società del mercato, si aggiunge oggi, inedita, anche la proletarizzazione informatica, o semplicemente informativa. Non solo la grande maggioranza dell'umanità è esclusa dalla disponibilità delle risorse economiche del pianeta; ma, anche grazie al "progresso" tecnologico è assoggettata a un controllo della sua vita privata che non ha, ovviamente, eguali nelle società del passato. I due aspetti della proletarizzazione, com'è facile vedere, si implicano; l'esclusione della grande maggioranza dell'umanità dall'uso delle risorse (il quindici per cento consuma l'ottantacinque per cento) impone una difesa sempre più militarizzata del mondo ricco. Il che però, anche a parte dall'impoverimento progressivo delle classi medie di questo stesso mondo, rende la vita di tutti – salvo dei pochi che possiedono l'informazione – sempre più intollerabile; anche ai sottocapi, vicecapi, soldati semplici, e forse persino a molti generali riesce prima o poi insopportabile vivere nella fortezza. E comunque, la fortezza non è eterna: anche se Marx sbagliava, probabilmente – ammesso che lo abbia mai pensato in questi termini - nel profetizzare l'inevitabile vittoria finale del proletariato, è molto probabile che in queste condizioni il proletariato (il mondo "esterno" dell'ottantacinque per cento di poveri, malati di AIDS ecc.) alla fine si ribellerà all'oppressione. Difficilmente vincerà, temo, ma provocherà comunque un bel bagno di sangue e, in caso di sconfitta, una stretta disciplinare ancora più marcata. Certo, è meglio della catastrofe atomica o della guerra dei mondi; ma è una prospettiva terribilmente più realistica.

Ci si dice: nei paesi che hanno avuto la sfortuna di vivere il "socialismo reale", non c'era libertà anche perché in caso contrario il popolo si sarebbe ribellato alle condizioni di povertà estrema in cui lo riduce ogni regime di proprietà collettiva. Può anche darsi; è per questo che io, anche solo per descrivere la mia esperienza di avvicinamento al PdCI, uso lo slogan: il comunismo reale è morto, viva il comunismo ideale. E guardando ai fallimenti sempre più evidenti dello "sviluppo" che dovrebbe essere garantito dal mercato, che uno come me, che non è mai stato comunista (lo confesso!) oggi lo diventa. Una prova in corpore vili della verità della profezia di Marx – anche se, come professore universitario, come parlamentare, sono forse proletarizzato piuttosto sotto l'aspetto della libertà che non sotto quello della povertà materiale (ma fino a quando? Già se facessi il giornalista con queste idee, o se fossi un professore universitario nel nuovo regime di precariato che si instaura con la "riforma" Moratti, dovrei temere proprio la perdita del posto di lavoro...).

Tornare dunque al marxismo? Almeno per questi aspetti che ho ricordato, certamente sì. Anche alla dittatura del, sul ecc., proletariato? Certo no; dovremo forse inventare il termine di liberalcomunismo, che recepisce le critiche al dogmatismo di Marx da cui dipendono le deviazioni autoritarie del socialismo reale (almeno quelle, e sono molte, che non si spiegano solo con la necessità di difendere la rivoluzione dall'attacco del capitalismo mondiale... Dirò di passata che oggi condivido l'atteggiamento di quegli scienziati che, a suo tempo, passarono i segreti atomici alla Russia di Stalin; guardate che uso fa adesso Bush con i suoi alleati dell'imperativo della non proliferazione delle armi di distruzione di massa...). L'autoritarismo comunista "reale" deriva dalla persistente fede di Marx, e di molti marxisti, nella esistenza di una verità obiettiva della storia, dello Stato, infine della stessa "essenza umana" (il Gattungswesen, di cui sono portatori i proletari espropriati). Se c'è una verità assoluta sulla storia, lo Stato, la natura, è fatale che si costituisca una nuova classe privilegiata di esperti, avanguardie, esponenti del proletariato "autentico" anche contro il "proletariato empirico" (espressioni, credo, di Lukàcs). Tornare al marxismo dopo l'esperienza della sua imperfetta (eufemismo) realizzazione nell'Unione Sovietica si può e si deve, facendo tesoro di quella esperienza.

Non per abbandonarsi alla tesi di Fukuyama, secondo cui ormai la storia è finita perché siamo tutti un solo ovile sotto un solo pastore – la pretesa democrazia del capitalismo à la Bush. Ma per riconoscere nei fatti che un progetto di emancipazione umana può fondarsi solo sulla ricerca dell'uguaglianza, e di una cultura politica che corregga le disuguaglianze "naturali". Diceva Baudelaire: dovunque ho trovato virtù, ho trovato contro-natura. La destra è il massimo del naturalismo; nasciamo diseguali ed è bene che sfruttiamo le disuguaglianze naturali per promuovere la competizione, lo sviluppo, insomma il mercato. Noi vogliamo una società non "di natura", ma di cultura; l'uguaglianza la dobbiamo conquistare. Certo senza violenza, fin dove è possibile. Ma senza nessun feticismo per la "sopravvivenza" purchessia e il valore della vita come semplice fatto biologico (il tabù con cui ci si impedisce la ricerca sugli embrioni, la fecondazione eterologa, l'eutanasia, un giorno forse anche l'aborto terapeutico...). Tutti sappiamo che se fossimo vissuti sotto il nazifascismo avremmo dovuto prendere le armi. Se non lo facciamo ora, è solo perché, oltre a preferire la discussione libera (quando è tale) delle posizioni politiche e culturali, sappiamo che l'uso della forza ci vedrebbe perdenti, e non siamo stupidi fanatici. Ma non dimentichiamo che i nostri avversari la forza la usano senza ritegno, ci costringono persino a usarla anche noi, con la scusa della ricostruzione dell'Iraq — che essi stessi, con un perfetto circolo, hanno prima distrutto e adesso pensano di ricostruire con enormi profitti.

A questo uso oppressivo e repressivo della forza dobbiamo opporre un'azione che impedisca loro di nuocere ancora. Convincendo l'elettorato, certo. Ma anche e soprattutto elaborando una visione del mondo che liquidi ogni dogmatismo scientistico, e riconosca che non la verità oggettiva sta alla base di una autentica convivenza umana, ma la capacità di ascolto, il rispetto per la pari libertà di ciascuno (individui, gruppi, anche comunità) che è la migliore eredità della cultura occidentale, oggi tradita così clamorosamente da chi pretende di esserne il portatore.

febbraio 2004

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Pagina 118

Comunismo ideale, e perciò: anarchico



Comunismo dunque anzitutto come fuoriuscita dal sistema capitalistico che non produce, ormai è evidente, ricchezza ed emancipazione, e anzi verifica le previsioni marxiane sulla proletarizzazione crescente delle classi medie; e che minaccia di diventare eterno anche con l'utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione e controllo, che permettono ormai una sorveglianza elettronica universale (applicata sempre più anche all'interno dei singoli paesi, con la ragione, o scusa, delle minacce terroristiche). Può persino darsi che la nuova povertà che spingerà il proletariato mondiale alla rivoluzione finisca per essere quella di chi è oggetto e non soggetto della visione panoramica garantita dall'informatica. Ma per ora è probabile che siamo ancora nella condizione di una prima rivoluzione informativa-informatica, la società del controllo globale si sta appena costituendo e l'insofferenza delle masse, quali che siano, se non è più sempre motivata dalla fame fisica, non è ancora diretta alla oppressione della disciplina sociale diventata onnipervasiva. Le authority per la privacy – ne dobbiamo fatalmente parlare in inglese, ormai – sono ancora relativamente poco ascoltate a livello di massa, molta della resistenza passa ancora attraverso la disponibilità delle comunicazioni anche e soprattutto a scopo di intrattenimento: ci si sente derubati se il calcio domenicale cade sempre più nelle mani di televisioni private, per esempio; ma ci si scandalizza meno se, nel caso di una rapina o di un qualche altro crimine, la polizia ricorre alle immagini di telecamere nascoste che sorvegliano le strade, o dei dati di intercettazioni telefoniche spesso abusive, disposte da privati potenti o a essi cedute da polizie pubbliche corruttibili.

Non sappiamo se questo bisogno "tecnologico" di comunismo sia o sarà mai una realtà. Ciò che sappiamo bene è quello che non vogliamo più del capitalismo, e quali sono gli elementi del comunismo originario – elettrificazione più soviet – che vorremmo ricuperare. Si potrà mai arrivare – secondo che pensano tanti studiosi benintenzionati come Unger e gli altri teorici riformisti che conosciamo – a costruire questo comunismo con metodi democratici? L'idea di una classe proletaria mondiale capace, venuto il momento (?), di dare una spallata al sistema è stata tanto popolare tra gli intellettuali di sinistra – penso specialmente a Marcuse, che riteneva che il nuovo proletariato rivoluzionario dovesse identificarsi con i poveri dei paesi del Terzo Mondo – anche perché era una forma di delega, spesso in perfetta buona fede. Anche nelle riflessioni che ho avuto modo di fare sull'America Latina di oggi temo che si insinui una forma di "delega" di questo tipo. (Ma non era questa anche la speranza dei comunisti italiani degli anni Cinquanta, con il loro «ha da venì Baffone» – cioè 'verrà un giorno Stalin'?). Nietzsche, che certo condivideva poche convinzioni con Marx, pensava anche lui a una qualche invasione "barbarica" che scuotesse l'Europa dalla sua condizione di decadenza e di nichilismo reattivo. Il nome di Nietzsche non è qui ricordato a caso; e a esso andrebbe accostato quello di Heidegger. Il comunismo a cui pensiamo è infatti una forma di società libera anche (o anzitutto) da quello che Heidegger chiama la metafisica, e cioè la pretesa di fondare le azioni umane e le relazioni sociali su una conoscenza "oggettiva" del "reale". Ma il reale – come si vede dagli esiti etici e sociali di tutti i realismi filosofici – è solo l'ordine esistente che i vincitori (li chiama così Benjamin, nelle Tesi sul concetto di storia) considerano razionale e che vogliono conservare. Nessuno che non stia completamente a proprio agio nel mondo crede che si dia, oggettivamente, il reale e che meriti di essere "osservato" (dal sapere e nella pratica). Per l'elettrificazione, certo, serve sapere come funziona la pila; ma solo il soviet decide che cosa fare dell'elettricità. Il soviet, però, è sovrano, rispetta la "natura" solo nella misura in cui gli serve per costruire una società libera dal dominio.

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Pagina 121

Comunismo e interpretazione



Ma allora dovremo pensare che anche i "diritti umani", o "naturali", non sono così assolutamente naturali come in certi momenti di rivoluzione abbiamo pensato che fossero? Perché mai la conoscenza della natura umana e di simili entità metafisiche dovrebbe essere più certa e attendibile dell'economia politica che si insegna nelle società di mercato? Anche la "scienza operaia" di cui parla Toni Negri ci interessa solo perché è operaia, non perché sia scienza più scientificamente "vera" di quella borghese. Θ evidente che, sulle basi poste da Marx stesso e riprese per esempio da Lukàcs, il movimento comunista non è mai andato fino in fondo in questa critica della scienza, e delle sue pretese di oggettività. Errore fatale, certo non il solo determinante nel fallimento delle speranze di libertà del comunismo. Se la classe operaia è legittimata a fare la rivoluzione perché, non avendo interessi da difendere, possiede un accesso più autentico al Gattungswesen e dunque alla verità della storia, le sue avanguardie (il proletariato trascendentale distinto dal proletariato "empirico": cioè, le burocrazie del partito) avranno il diritto, anzi il dovere, di imporre a tutti la verità che possiedono in modo privilegiato o esclusivo.

Ecco allora una tesi qui riassumibile brutalmente cosi: non si dà comunismo libertario, "sovietico", senza nichilismo e rifiuto della metafisica. Se, come penso si debba fare, riassumiamo queste conclusioni sommarie tratte da Nietzsche e Heidegger con il motto «non ci sono fatti, solo interpretazioni; e anche questa è un'interpretazione», fonderemo il comunismo libertario su una concezione ermeneutica della società. Per la quale il conflitto delle interpretazioni è un modo di funzionamento normale — che appunto deve essere lotta tra interpretazioni diverse, che si presentino come tali.

Ma allora anche il comunismo, sia pure come somma di elettrificazione e soviet, sarà "solo" una interpretazione? Come si presenta la sua "verità" rispetto ad altri progetti di società e di rapporti interpersonali? Θ una verità che si può argomentare storicamente, richiamando esperienze (intellettuali di ciascuno: hai letto X e Y?; storiche di tutti: dopo la caduta del Muro...) condivise o condivisibili. Mai con un'argomentazione apodittica. (Del resto, quando mai, sul terreno dei valori ultimi e degli ideali di vita, una argomentazione apodittica ha persuaso qualcuno?). Il rivoluzionario comunista è anche lui, come il suo avversario borghese, sempre solo parte in causa, mai rappresentante dell'umano autentico. Ma come: e le tre parole della Rivoluzione francese, e i diritti umani universali? Li possiamo enfatizzare come tali quando si tratta di opporli alla pretesa altrettanto metafisica (quella del diritto divino dei re, per esempio) di avversari che vogliono continuare a dominare a dispetto di essi. Ma appena i diritti umani vogliono valere come universali "oggettivi" che tutti devono rispettare anche se non li "riconoscono", allora si trasformano in strumenti di oppressione: la Chiesa impone le discipline anche le più assurde (vieta il preservativo in tempi di AIDS!) in nome della legge "naturale"; Bush bombarda l'Iraq in nome del diritto naturale alla democrazia...

"Anche questa", anche l'ideale del comunismo, è solo una interpretazione. Che ha buone ragioni dalla sua parte, con le quali può convincere anche molti avversari; ma che sono ragioni di qualcuno contro, o a differenza di qualcuno. E che non mirano a instaurare una società senza più conflitti; semmai, anzi, come anche accade in certe pagine di Nietzsche, svelando che le ragioni in conflitto non sono verità contro errore, ma interpretazioni contro altre interpretazioni (interessi contro altri interessi).

Non è che con queste precisazioni, sulla metafisica e sulla violenza che essa sempre prepara (ma su ciò si devono vedere i tanti scritti che illustrano il nesso: da Nietzsche a Heidegger a Lévinas a Adorno, anche i miei) si aumentino le chance del comunismo di diventare maggioranza "democratica" capace di imporsi in elezioni "libere" come quelle a cui siamo abituati nel mondo occidentale. Il problema della violenza e della sua, finora eterna, funzione di levatrice della storia non è mai completamente risolto. Anche se, partendo dall'ideale del comunismo (elettricità più soviet) delineiamo (e certo con più dettagli e precisione di quanto sia possibile qui) una forma di società augurabile e "giusta", resta sempre il problema di come arrivarci. I piccoli passi di cui spesso ci parlano i riformisti, gli "elementi di socialismo" che indubbiamente si sono riusciti ad affermare negli ultimi cento anni per merito delle lotte sindacali e dentro i quadri della democrazia formale, sono meglio che niente, ma sono anche tali da non varcare mai la soglia della "compatibilità" con il sistema. Persino la matrice sindacale di molte forze della sinistra ha funzionato e funziona come preferenza per i piccoli, o anche medio-grandi passi (pensiamo, in Italia, allo Statuto dei lavoratori): il sindacalista non può mai dimenticare che, a un certo punto, deve "portare a casa il nuovo contratto", le cui clausole varranno solo se il quadro complessivo non sarà stato sconvolto dalla rivoluzione. Il sindacato deve rispondere alle aspettative dei suoi associati: anche loro, sebbene con maggiore o minore coscienza e intensità, aspirano solo a un miglioramento delle proprie condizioni; cercano sicurezza, aumento di salari, insomma valori che anche Unger chiama "piccoloborghesi". Non per niente Marx pensava che la rivoluzione si sarebbe realizzata solo una volta raggiunta una condizione di intollerabilità dello sfruttamento capitalistico. Questa condizione non è – per fortuna e, forse, ancora – reale nelle società industriali avanzate. Né sembra imminente, quando anzi molte analisi sociologiche mostrano che, nelle nuove condizioni del lavoro (non più la fabbrica fordista, dunque non più "classe" e coscienza di classe), è quasi fatale che le masse tendano ad accettare anche significative riduzioni di libertà individuale (lo Stato del controllo) pur di godere dei molti vantaggi materiali che il capitalismo, almeno in una parte del mondo, garantisce loro. Ritorna, con queste riflessioni, il sogno dei "barbari" che a un certo punto, arrivando da fuori, ci obbligheranno a una dura ristrutturazione dei nostri modi di vita e di consumo. Ma è sempre più difficile (e anche qui, non sappiamo se temerlo o rallegrarcene) che i barbari arrivino fino a noi. L'universo securitario nel quale stiamo (stanno) chiudendoci non cadrà probabilmente per un colpo dall'esterno, ma dall'interno stesso, perché i cittadini a un certo punto percepiranno l'intollerabilità del vivere in una fortezza.

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Le chance del comunismo



Niente rivoluzione violenta, perché tanto è destinata a perdere – sia che la scatenino le masse proletarizzate interne al sistema, sia che provenga invece dagli "altri": islamisti fanatici, cinesi riarmati e decisi a sottrarci le risorse energetiche. Niente trasformazione democratica del sistema: anche su questo piano le sue difese ormai sono altrettanto potenti di quelle militari e poliziesche che devono proteggerlo dalla violenza interna o esterna. Il comunismo non ha grandi chance di instaurarsi in un futuro prevedibile. Evocarne lo "spettro", anche solo nei suoi elementi originari e costitutivi, ha qualche senso, che non sia solo un gioco intellettuale per tranquillizzarsi la coscienza?

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