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| << | < | > | >> |Indice7 Presentazione Gianni Vattimo 13 Introduzione generale Mario Cedrini, Alberto Martinengo, Santiago Zabala 47 Piano dell'opera 49 Volume I. Ermeneutica 53 Volume II. Nietzsche 55 Volume III. Heidegger 57 Volume IV. Postmoderno 59 Volume V. Religione 61 Volume VI. Ontologia 65 Volume VII. Scritti e dialoghi autobiografici 67 Volume VIII. Scritti e note filosofiche 71 Volume IX. Scritti e interviste sulla politica 75 Volume X. Scritti e interviste sui diritti 77 Volume XI. Scritti e interviste sulla cultura e la religione |
| << | < | > | >> |Pagina 7Presentazione
Gianni Vattimo
È superfluo notare che, nel momento in cui si pubblica questo Volume introduttivo, le Opere "complete" sono tali soltanto fino a un certo punto, altrimenti non toccherebbe a me introdurle. Comincio con una battuta ironicamente superstiziosa per vincere un certo imbarazzo: presentare l'edizione completa di tutti i miei scritti è un'esperienza del tutto nuova per me, e davvero non so come affrontarla. Credo però che un modo per venire a capo del mio non-finto problema sia tentare di richiamare l'attenzione sulla continuità che a posteriori si rivela nell'itinerario qui attestato. Per forza di cose, e per comodità di chi avrà la bontà di leggere, esso non è ordinato in modo puramente cronologico, ma distingue zone e settori tematici all'interno dei quali si ritrova anche la cronologia. Che, peraltro, si incrocia in modo non casuale con le tematiche affrontate. Voglio dire che, guardando al lavoro che ho fatto come professionista della filosofia dall'epoca della pubblicazione della mia tesi di laurea fino alle cose più recenti, i temi intorno a cui si concentrano i vari scritti delineano un percorso che è insieme storico e sistematico, e ciò mi sembra significativo, addirittura tale da giustificare questa edizione. La quale non avrebbe senso come pura messa a disposizione di tutto quello che un individuo di nome Gianni Vattimo ha prodotto nel corso di un cinqnantennio di vita filosofica. Non si pubblicano le Opere complete di uno studioso perché è un grande filosofo; si decide di farlo "grande" nel momento in cui si costruisce, con qualche verosimiglianza, l'indice dei suoi scritti. È sempre anzitutto – come nel caso della verità stessa – un affare di "presentabilità": ha senso ciò a cui, in presenza di un pubblico tendenzialmente universale, riusciamo a dare un senso. Perciò, anche se sembra un eccesso di presunzione, non posso non pensare che la decisione di pubblicare le mie Opere complete sia anzitutto un "evento": non coinvolge infatti soltanto me stesso, i miei "editori-curatori", l'editore in senso proprio; è un evento in quanto pretende non solo di rispecchiare un interesse pubblico esistente, ma di domandare un riconoscimento che ci si attende ragionevolmente di incontrare. Quanto la facciamo lunga, si dirà. Ogni editore quando stampa e mette in circolazione un libro affronta questo problema: il pubblico "risponderà" o no? Se rischia denaro e reputazione per pubblicare un testo sperando di non concedersi solo la manifestazione di un gusto personale è perché ritiene di cogliere l'attualità di una presenza, una qualche aspettativa che il testo in questione gli pare capace di colmare. Insomma, se partecipo – e ovviamente con entusiasmo – all'impresa di queste "opere complete", è perché anch'io – spero non solo io – considero che abbia un senso, sul quale non posso non cercare di soffermarmi almeno in occasione del Volume introduttivo. Questo senso è quello che mi pare emergere dall'indice che i miei amici-curatori hanno costruito. Vera o falsa che sia – con tutta la cautela che l'uso di questi termini non può non comportare – la "filosofia" contenuta in questi scritti ha una fisionomia riconoscibile; e tale riconoscibilità non è nulla che dipenda solo dalla sua consistenza interna. Ciò che si stacca da uno sfondo costruisce anche un certo ordinamento dello sfondo stesso, non ne è soltanto un altro pezzo, distinguibile per la propria eterogeneità rispetto a esso. Tanto quanto dire che la filosofia che qui si presenta aspira anzitutto alla tanto vilipesa qualità di "ideologia". Osa presentarsi perché ritiene di non essere solo espressione di un singolo (va bene, alla faccia di Søren Kierkegaard, "quel singolo"!) ma di dar voce a qualcosa di più vasto, sebbene non possa credere che questo qualcosa sia l'essere stesso, secondo il detto di Eraclito che qualche filosofo di oggi riprende impudicamente per sé. O meglio: ciò che parla in una filosofia come questa è bensì l'essere stesso ma pensato in pensato in termini niente affatto eterni, strutturali, parmenidei, che farebbero del filosofo la voce stessa di Dio. Non c'è un essere che sta da qualche parte con le sue caratteristiche metafisiche, eterne, e che parla nelle mie parole: ouk emou akousantes ecc. Le "cose stesse" di cui andava in cerca la prima fenomenologia husserliana sono per l'appunto ciò che è, e cioè, in una prospettiva non più dominata dall'idea metafisica dell'eterno, il modo e i termini (anche e anzitutto linguistici) in cui l'essere si dà, accade a noi, in noi, con noi. La verità della filosofia, come quella che qui si propone, è la sua capacità di dialogare con altri pensieri che costituiscono la nostra attualità. Ma non si potrebbe essere più vaghi e generici di così, osserverà qualcuno. Sì, però non più di qualunque empirista che si richiama all'"esperienza". Con il vantaggio, rispetto a lui, che qui non è questione di "purificare" l'esperienza, il dato ultimo e incontrovertibile, per costruirci sopra la teoria. L'esperienza, mi si permetta qui di ricorrere a un'espressione della tradizione cristiana, è tale per sentito dire, fides (o experientia) ex auditu. Non sarà proprio questo significato dell'esperienza il "precategoriale" su cui si è affannata la fenomenologia e che Heidegger ha cercato di cogliere nell'"innanzitutto e per lo più" di molte pagine di Essere e tempo? Filosofia come pura chiacchiera da bar, allora? Ossia: se non credi a Parmenide, se non echeggi la voce dell'essere (parmenideo) stesso, non farai altro che ripetere il "si dice" quotidiano, e soprattutto, dei quotidiani, cioè la pretesa opinione pubblica che più manipolata non si può? È la domanda a cui, come a conclusione dell'itinerario percorso da questi scritti, cerca di rispondere l'ontologia dell'attualità; che provocatoriamente, in un dibattito all'Escorial di molte estati fa, proposi anche di chiamare "periodismo ontologico", giornalismo ontologico, memore dell'espressione con cui György Lukács aveva battezzato il pensiero di Georg Simmel "impressionismo sociologico", un'etichetta che mi pare possa accomunare anche tanti filosofi dell'attualità, da Theodor W. Adorno a Martin Heidegger e prima allo stesso Friedrich Nietzsche. È ovvio che quando si parla di attualità si apre il discorso a sempre nuove dimensioni e sviluppi. Le opere, dunque, non possono essere "complete" perché aspettano ancora sempre nuove macine e nuove riflessioni Questo vale certo per qualunque lavoro filosofico, anche per un sistema che vorrebbe essere "chiuso", come (si pensa fosse) quello di Hegel. Non avrebbe senso, a parte la sproporzione, soprattutto per la mia ontologia dell'attualità, pensare che l'essenziale è stato detto e che si tratta solo di "documentare", per amore di informazione storiografica, il divenire di questo pensiero. Si vuole documentare un itinerario filosofico perché sembra che esso abbia un possibile sviluppo e una specifica attualità. Dunque si tratterà qui di mostrare che la filosofia italiana, o la filosofia tout court, non sarebbe ciò che è senza la presenza del pensiero debole e della appena abbozzata ontologia dell'attualità? Ma se questo, non per cavarmela troppo a buon mercato, è ciò che fanno gli scritti che qui si presentano, non ha senso comunque tentarne una sorta di riassunto propedeutico per orientarne o stimolarne la lettura. Dunque, solo due punti possono sostanziare brevemente questa Presentazione. In primo luogo, le aperture che restano a partire dalle opere qui presentate. Non è un caso che, sia sistematicamente sia cronologicamente, l'itinerario che esse disegnano si concluda, sbocchi, termini, per ora, in due tematiche molto caratteristiche, quella religiosa e quella politica. In termini autobiografici, se posso permettermi questo ulteriore autoriferimento, a me ora interessano quasi solo la (filosofia) politica e la riflessione religiosa. Non mi sembra di dover argomentare la centralità di queste due tematiche per la quotidianità del mondo – tardo industriale, neoimperialista, talvolta decisamente apocalittico – in cui ci troviamo oggi a vivere. Naturalmente il significato della filosofia che queste opere attestano non è solo quello (del resto niente affatto di poco valore) di parlare delle cose che ci riguardano. Ha anche l'ambizione di parlarne in qualche modo risolutivo. La visione "nichilista" che il pensiero debole trae dalla meditazione su Nietzsche, Heidegger, l'ermeneutica, propone anche una, paradossale quanto si vuole, filosofia della storia e del suo senso, che si può riassumere nell'idea dell'indebolimento dell'essere come sola possibilità di emancipazione. Nichilista è questa proposta perché non ricava la nozione di indebolimento da una qualche scoperta metafisica della "essenza" negativa dell'essere, della verità del nulla, ecc. Ma la rilegge nel corso della storia dell'Occidente – il cui nome stesso è denso di suggestione, terra del tramonto – sulla traccia di Nietzsche e ripensandola alla luce della differenza ontologica heideggeriana. In questa lettura come - del resto si puo documentare attraverso la lettura degli scritti nietzscheani e heideggeriani, ma non solo di questi – ha una parte decisiva la presenza della tradizione giudaico-cristiana. Il pensiero debole non sarebbe possibile senza la fondamentale dottrina della kenosis, dell'Incarnazione di Dio come suo abbassamento e vera e propria autodissoluzione per amore. Con ciò, come si vedrà dagli scritti dedicati a questa tematica, non solo la filosofia (la nostra filosofia occidentale) trova le sue basi nella tradizione religiosa dominante a cui si è costantemente, anche se polemicamente, riferita. Ma lo stesso cristianesimo si presenta come ancora possibile solo nella forma del "debolismo". Con tutto ciò che questo riconoscimento comporta in termini di polemica contro le posizioni attuali delle Chiese e soprattutto della Chiesa cattolica. L'evocazione del cristianesimo e della kenosis fa pensare che qui si tratti soprattutto di salvezza delle anime, di vita eterna e dei modi per assicurarsela. Ma l'idea di emancipazione come indebolimento (della perentorietà) dell'essere metafisico (eterno, necessario, dato come fondamento conoscitivo e come norma etica universale) è essenzialmente un ideale storico, e dunque anche politico. La domanda sul "che fare" non può avere risposte fondate su qualche essenza eterna, può solo dare luogo a una rilettura del "dove siamo" per capire – rischiosamente e con tutta l'incertezza dell'interpretazione – il "verso dove" andare. Il nichilismo e l'indebolimento sono, oltre che il (solo?) modo di essere cristiani oggi, anche il più ragionevole programma politico che si possa proporre. Non l'idea di costruire (finalmente) una società "giusta", ossia conforme al modello vero che era già il sogno di Platone; ma, se si vuole, una società "aperta", che può essere tale solo se, anzitutto, liquida i tanti tabù "metafisici" (i Valori, i Principi, le Verità) che sono serviti ai privilegiati per mantenere e rafforzare i loro privilegi, e si apre al dialogo tra persone e gruppi. La politica che il "debolismo" e l'ermeneutica vogliono ispirare è radicalmente realistica, fino agli estremi del machiavellismo. Non ci sono essenze immutabili, ci sono solo interpretazioni, e cioè, in politica, negoziazioni tra individui e gruppi che hanno senza dubbio interessi contrastanti, e che possono trovare conciliazione solo in nome di valori comuni reperibili nel loro patrimonio culturale, inteso soprattutto come repertorio di argomenti retoricamente persuasivi che si sostituiscono finalmente alle "ragioni" dei più forti: qui le analisi nietzscheane sul rapporto tra verità (imposta) e forza rimangono decisive, almeno quanto quelle marxiane. Ma ci si chiederà: vogliamo sostituire alle ragioni della forza la forza (retorica) delle ragioni, perché questo ci sembra più giusto? Anche l'ideale di una società aperta è dunque un ideale metafisico, un "Valore" da cui non possiamo prescindere? Qui la risposta è no: siamo (queste Opere complete sono) contro le ragioni della forza perché ci troviamo a essere tra i deboli, i perdenti della storia di Walter Benjamin. Neanche il pensiero debole, anzi meno che mai esso, è una filosofia universale. È soltanto come il proletariato marxiano: in quanto espropriato, ha più titoli per presentarsi come portatore dell'essenza umana più generalmente valida. In qualche senso è dunque giusto dire che il pensiero debole è il pensiero dei deboli, degli sconfitti della storia, non però orientati a cercare il proprio riscatto solo nella vita eterna. Il "non detto" che la metafisica (e in definitiva il potere) ha oscurato da sempre, e a cui Heidegger cerca di prestare orecchio, è la parola inudibile dei vinti della storia che la filosofia ha il compito, il solo compito, di renderci capaci di ascoltare. In quella parola soltanto, se mai qualcosa del genere è possibile, può parlarci di nuovo l'essere. | << | < | > | >> |Pagina 202. L'attualità del pensiero deboleLa tendenza del pensiero debole a proliferare in una serie (potenzialmente illimitata) di autoverifiche è senza dubbio il primo criterio interno cui risponde il progetto delle Opere complete. Tuttavia non è l'unico: vi sono altri elementi significativi che compongono lo sfondo del discorso e che è bene mettere in luce fin dall'inizio. Si tratta senz'altro di contingenze, ma quanto mai significative per capire da dove il progettopenda le mosse. Il quadro nel quale esse si muovono ha a che fare ancora con l'esigenza di tracciare un bilancio. Tuttavia se il discorso sull'iperbole della responsabilità impone una verifica dall'interno del pensiero debole, vi sono indizi significativi anche sull'altro versante: quello del bilancio ab extra. La prima di queste contingenze è di nuovo legata a circostanze biografiche, in termini che – per usare un dualismo largamente improprio – si potrebbero definire extrateorici. Senza dubbio, gli indizi che la riguardano sono contraddittori e ambigui; ma pur con le necessarie cautele non si può non tenerli nella dovuta considerazione. Si tratta delle stesse circostanze che sono alla base di un testo così anomalo, nella produzione di un filosofo di professione, quale è l'autobiografia scritta con Paterlini: circostanze anagrafiche, in prima istanza, ma lato sensu anche pubbliche e culturali. Fin dagli anni Settanta, infatti, la fortuna editoriale e accademica di Vattimo come filosofo è legata a doppio filo con le vicende della storia culturale italiana. La successione alla cattedra di Pareyson, l'elezione a Preside della Facoltà di lettere a Torino, la militanza nel Partito radicale e nel FUORI di Angelo Pezzana, la crescente notorietà come editorialista sui quotidiani rappresentano la prima affermazione della sua figura a livello nazionale: Vattimo inizia così a giocare un ruolo importante nelle vicende culturali del paese. Nel corso degli anni Ottanta questo ruolo si consolida e si accresce, di pari passo con la fortuna che il pensiero debole riscuote, tanto attraverso i suoi sostenitori quanto – come si è visto – per mano dei detrattori. Nel decennio successivo questa fase dell'impegno pubblico di Vattimo giunge in qualche misura all'apice, dapprima in coincidenza con la primavera civile e politica che l'Italia vive all'inizio degli anni Novanta e successivamente con l'approdo al Parlamento europeo. La cornice dentro la quale nasce Non Essere Dio è questa; ed è una cornice della quale non si può non tenere conto anche qui. Gli anni dell'esperienza politica diretta segnano infatti un momento di svolta che non è difficile rilevare, se si ripercorre la biografia pubblica di Vattimo. È una svolta che ridisegna radicalmente il suo impegno, ma che al tempo stesso lo apre a nuovi modi di fare politica, modalità sempre più lontane dalle forme tipiche della rappresentanza democratica. Quest'evoluzione porta con sé significativi elementi di continuità con il passato: la militanza storica di Vattimo nell'area riformista e progressista, infatti, è fin dall'inizio tangenziale rispetto alle logiche delle entità politiche istituzionalizzate e non si riduce mai a un'adesione incondizionata. Ma non si può negare che l'elezione a deputato europeo rappresenti la fine di questa tangenzialità, dapprima nel tentativo di contribuire direttamente all'esperienza della sinistra italiana e poi, all'opposto, interrompendo ogni legame istituzionale con essa. E in questo quadro rientra anche uno dei momenti più forti della polemica di Vattimo contro gli schieramenti politici tradizionali, che si concretizza nella "vicenda di San Giovanni in Fiore", ossia la sua candidatura alla guida di una formazione politica nuova, composta da giovani decisi a rompere l'immobilismo politico delle amministrazioni locali. In generale, quindi, la trasformazione del rapporto con la politica non può essere trascurata, se si vuole comprendere il modo in cui la figura di Vattimo si rapporta con la realtà culturale italiana. Né è possibile sottovalutarla se si vuole comporre il quadro in cui il progetto delle Opere complete si inserisce. In questo caso, la brusca evoluzione dell'esperienza parlamentare si somma ad altri elementi importanti della sua biografia: il mutamento della realtà accademica, la trasformazione dei rapporti con i giornali e gli editori, il confronto con le altre realtà culturali del paese. Certamente, non è facile sostenere che si tratti di circostanze univoche e che da esse si possa ricavare una direzione di sviluppo omogenea. Ma proprio a fronte di questa disomogeneità, l'obiettivo delle Opere complete è quello di dare una visione complessiva di ciò che nell'esperienza di Vattimo resta inevitabilmente occasionale. Si tratta di un obiettivo che in larga parte è consonante con la direzione che la letteratura secondaria sta intraprendendo e di cui Weakening Philosophy ha inteso fornire una prima mappatura. Ma è altresì uno scopo non dissimile da quello che sta alla base di Non Essere Dio, uno strumento che oggi non si può sottovalutare se si vuole affrontare criticamente il ruolo intellettuale di Vattimo in Italia. Tutto ciò non ha minimamente il significato di raccogliere attorno al pensiero debole una o più chiavi di lettura, che possano aspirare a una legittimità maggiore di altre – un obiettivo che, come si è visto, sarebbe radicalmente in contrasto con la natura proteiforme che la riflessione di Vattimo assume. Nei fatti, ciò che si tratta di rilevare è che esiste una serie di circostanze (nessuna delle quali è totalmente determinante) in base a cui l'identità filosofica, politica e culturale di Gianni Vattimo richiede un momento di bilancio, in cui è prioritario il ritorno ai testi. Del resto, che la pubblicazione delle Opere complete di Vattimo rappresenti una straordinaria opportunità è evidente sotto molti punti di vista. Al grande pubblico essa consente di leggere (o di rileggere) testi dei quali si è completamente smarrita la traccia, dai saggi degli anni Sessanta e Settanta agli interventi giornalistici pubblicati nelle più svariate occasioni, la cui proliferazione è tuttora difficilmente controllabile. Si tratta per di più di una rilettura che muove dall'impegno specifico dell'autore, che assieme ai curatori discute e contestualizza le diverse tappe del progetto. Ma senza dubbio il lavoro porta con sé una finalità altrettanto importante, che risponde a un'esigenza specifica del pubblico ristretto degli studiosi: il bisogno di un confronto aperto, non soltanto sui testi, ma anche sulle prospettive cui il pensiero debole dà luogo. In larga parte, infatti, alla prolificità di Vattimo come autore corrisponde un'evidente proliferazione degli interessi cui i suoi lettori danno corso. Tra gli obiettivi, dunque, la pubblicazione delle Opere complete assume anche un compito che si potrebbe definire ecumenico: quello di riaprire il confronto tra i lettori di Vattimo, alla luce della comunanza teorica che li tiene assieme, ma al tempo stesso sulla scia delle diverse prospettive che essi hanno reso possibili. Da questo punto di vista, la "koinè vattimiana dell'ermeneutica" è già un fatto nella discussione filosofica odierna: un fatto che si percepisce più chiaramente se lo si osserva dall'esterno dei propri confini (fuori dall'ermeneutica italiana e in una prospettiva internazionale), e di cui in generale la filosofia dell'interpretazione non può non tenere conto. Del resto, il riferimento allo stato del dibattito filosofico attuale costituisce un ulteriore punto di partenza del progetto, a completare il quadro delle circostanze che ne segnano la nascita. Risale infatti al 1994 la severa analisi che in Oltre l'interpretazione Vattimo dedica al significato dell'ermeneutica per la filosofia. Si tratta di un'analisi della cui perdurante attualità non c'è da dubitare, alla luce degli sviluppi successivi della filosofia dell'interpretazione. Ciò non di meno, è una diagnosi che assume un significato completamente nuovo nel contesto in cui la pubblicazione delle Opere complete prende forma. La morte di Gadamer (2002) e di Paul Ricœur (2005), che dell'ermeneutica novecentesca sono i fondatori, assieme alla scomparsa di Jacques Derrida (2004) e di Richard Rorty (2007), che a essa hanno contribuito in modo fondamentale, ha creato una situazione singolare per la filosofia dell'interpretazione: come molte altre grandi filosofie del passato, l'ermeneutica si trova oggi nella condizione di essere una disciplina senza padri. Ovviamente, in questa osservazione vi è il naturale rimpianto per avere perso alcune delle voci più autorevoli del Novecento, che ancora in anni recenti hanno contribuito in modo decisivo a rivedere e arricchire le loro stesse premesse. Ma oltre a ciò vi sono alcune conseguenze che stanno venendo in chiaro soltanto ora. Si tratta di due effetti in particolare, sul cui significato è bene essere espliciti dall'inizio. In primo luogo questa circostanza dimostra inoppugnabilmente che l'ermeneutica è in grado di sopravvivere alla scomparsa dei suoi primi artefici, pur nell'ovvia evoluzione e differenziazione degli esiti: anche se è innegabile che l'interpretazione si dica "in molti modi" — e che dunque l'etichetta di ermeneutico possa essere tanto larga quanto indeterminata — ciò non toglie che una parte rilevante del dibattito filosofico attuale continui a riconoscersi (di diritto o di fatto) negli argomenti formulati negli anni Cinquanta e Sessanta da Gadamer, da Ricœur e — in Italia — da Pareyson. Ma in secondo luogo nel fatto di essere una disciplina senza padri è contenuta una sfida essenziale per la filosofia dell'interpretazione, nella quale è in gioco la differenza tra la sua pura riproposizione storiografica (la canzone da organetto di Zarathustra) e una vera e propria seconda giovinezza. Per l'ermeneutica che sopravvive ai suoi primi padri, infatti, è gioco forza sottoporsi a un serio lavoro di ripensamento e ricostruzione. Si tratta di un programma di riorganizzazione del quale è impossibile formulare in pochi passaggi l'agenda delle priorità. Al tempo stesso è però un processo che contiene alcuni snodi difficilmente contestabili: una significativa riqualificazione delle strutture logiche dell'interpretazione, un confronto serio con gli esiti più avanzati della filosofia postanalitica, un'analisi sempre più critica della sfera politica, la riproposizione costante del dialogo con le discipline delle forme simboliche, con la religione e la teologia, con le discipline della comunicazione.
È questo il motivo
esterno
più cogente per pensare oggi alla pubblicazione delle
Opere complete
di Gianni Vattimo. Vattimo infatti, oltre che essere allievo diretto di Gadamer
e Pareyson, è il pensatore ermeneutico che con più chiarezza riesce a tenere
assieme i punti programmatici cui si è fatto riferimento. Si pensi
per esempio alla forza con la quale
Oltre l'interpretazione
argomenta la necessità di una
ricostruzione
della razionalità ermeneutica, non a caso partendo dal confronto con Gadamer e
Derrida.
Ma si consideri anche l'attenzione con cui Vattimo ha condotto il
confronto con il neopragmatismo di Rorty
(Il futuro della religione,
2005); con la politica, da
Il socialismo ossia l'Europa
(2004) a
Ecce comu
(2007); con la religione, da
Credere di credere
a
Dopo la cristianità
(2002); con le discipline della comunicazione, da
La società trasparente
(1989) in poi. Ciò significa che se l'ermeneutica vuole salvarsi come realtà
vivente della filosofia (e non soltanto come un affare del passato), può trovare
un'opportunità concreta di ripensamento proprio nella pubblicazione delle
Opere complete
di Gianni Vattimo. E per quanto possibile si tratta di
un'occasione di discussione che va al di là dei contrasti che il
pensiero debole ha contribuito a fare sorgere: la filosofia, quando è veramente
tale, non deve venire meno alla possibilità di essere pietra di scandalo, di
introdurre divisione e contrapposizione; ma ciò non toglie che a questa capacità
di fare
skandalon
si debba tornare, per riconsiderarla, quando si cercano nuove motivazioni per
proseguire la discussione.
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