Copertina
Autore Alberto Vázquez-Figueroa
Titolo Coltan
EdizioneNuovi Mondi, Modena, 2012 , pag. 240, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,7x2,4 cm , Isbn 978-88-8909-199-9
OriginaleColtan [2008]
TraduttoreFabio Bernabei
LettoreLuca Vita, 2013
Classe narrativa spagnola , thriller , guerra-pace , storia criminale
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Pagina 5

Houston, 2007


Quattordici dei quindici membri del consiglio di amministrazione avevano preso posto attorno al gigantesco tavolo delle riunioni per ascoltare le comunicazioni del presidente, che li aveva convocati con insolita ma perentoria urgenza.

Peter Corkenham, un omone calvo e robusto che spiccava per gli enormi occhiali color tartaruga e un'eterna smorfia di amarezza sulla bocca, dovuta con ogni probabilità a una fastidiosa ulcera gastrica, biascicò qualche parola incomprensibile e passò a leggere il comunicato ricevuto il giorno prima:


Considerato che il governo degli Stati Uniti pensa di ritirarsi dall'Iraq, lasciando dietro di sé una scia di morte e distruzione che ha devastato il paese, abbiamo deciso che la Dall & Houston, l'azienda responsabile di una sciagura tanto crudele e nefasta, della quale siete dirigenti e azionisti di riferimento, restituisca alla popolazione i profitti ottenuti da tale aggressione barbara e arbitraria.

A quanto ci è dato sapere, non è possibile resuscitare i morti, tuttavia si può sempre porre rimedio, almeno in parte, ai danni causati, motivo per cui esigiamo che vengano restituiti tali profitti, stimati attorno ai 100 miliardi di dollari.

Qualora non accettaste la nostra equa richiesta, ogni due settimane uno di voi sarà giustiziato, a prescindere dalle ragioni che possiate addurre a vostra difesa, da dove vi nasconderete o come cercherete di sfuggire alla condanna.

A riprova che non si tratta di uno scherzo, vi informiamo che il cadavere di Richard Marzan, l'unico membro del consiglio di amministrazione assente alla riunione e la cui poltrona risulta a tutti gli effetti vuota, si trova attualmente all'interno di una delle giare che adornano il giardino della sua sontuosa dimora, sulla sponda del fiume.

Se deciderete di collaborare, vi invieremo una lista di ospedali, scuole, edifici, ponti e strade che dovrete iniziare a ricostruire senza indugio.

In caso contrario, alla fine dell'estate solo due di voi saranno ancora vivi, e tuttavia per un periodo piuttosto breve.

I soldi sporchi di sangue si lavano con il sangue.

Harun al-Rashid


Peter Corkenham appoggiò il documento sul tavolo con estrema delicatezza, quasi scottasse, poi osservò uno dopo l'altro i presenti, si mise a pulire gli occhiali e si rivolse ai colleghi con calma studiata:

"Questa mattina hanno estratto il cadavere di Richard da una giara del suo giardino. È stato sgozzato ieri pomeriggio... ".

"Sì, ma chi sarebbe questo Harun al-Rashid?" chiese una voce anonima, carica di inquietudine. "Un nuovo Osama Bin Laden?".

"Non ne ho idea, ma sembra proprio che abbia preso il nome del sultano protagonista delle Mille e una notte" ipotizzò il presidente. "Forse si considera l'eroe della vicenda, lasciando a noi il ruolo dei quaranta ladroni".

"Che sciocchezza!".

"Immagino che a Richard non sarà sembrata una sciocchezza" rispose brusco. "Tanto meno alla moglie e ai figli".

"Vuoi dire che abbiamo a che fare con un autentico assassino?" domandò la stessa voce.

"Mi attengo ai fatti".

"Un terrorista, dunque?" azzardò il californiano Bem Sandorf, seduto quasi dirimpetto al presidente, all'altro estremo del tavolo.

Sempre più nervoso, Corkenham protese le mani in avanti, quasi a bloccare sul nascere la valanga di domande dei colleghi. Si schiarì la voce un paio di volte e bevve adagio dal bicchiere che teneva accanto. Quindi puntualizzò:

"Di norma i terroristi sono individui che mirano a distruggere, non a costruire, quindi in primo luogo dovremmo capire chi può avere interesse a spaventarci con una minaccia tanto anomala. Qui non si tratta di estorsione né ci chiedono di intercedere per far liberare i loro compagni di atrocità. Qui si pretende la restituzione di quanto abbiamo ricavato in Iraq, e in particolare si chiede che tali proventi siano destinati alla ricostruzione di scuole e ospedali. Ne converrete che la situazione è piuttosto insolita...".

"Ciò non toglie che si tratti pur sempre di un ricatto" insisté Sandorf. "Il fine non giustifica i mezzi".

"Non credo che questo sia il luogo adatto per pronunciare una frase simile" intervenne astioso il newyorchese Jeff Hamilton, seduto alla destra del presidente. "Sappiamo tutti che a suo tempo, attorno a questo stesso tavolo, sono state prese decisioni che hanno determinato una guerra di cui a oggi non si vede ancora via d'uscita". Fece una breve pausa per chiudere il discorso, come a rilevare che il tema era fuori discussione: "Cerchiamo quindi di evitare, almeno tra noi, qualsiasi traccia di ipocrisia poiché qui siamo di fronte a una triste verità: qualcuno ci chiede conto di quanto abbiamo commesso fino a oggi".

"E con che diritto?" chiese Gus Callow.

"Grosso modo con lo stesso che ha ispirato questo consiglio di amministrazione nel momento di prendere quelle decisioni" replicò acido Hamilton. "Ovvero, nessuno".

"Tuttavia, credo che nel nostro caso...".

"Basta, per favore!" tagliò corto Corkenham in tono autoritario. "Non ho intenzione di trascorrere la giornata a parlare degli errori o dei successi del passato. Jeff ha ragione, quel che è fatto è fatto, e adesso siamo chiamati ad affrontare un presente fin troppo sgradevole". Si guardò attorno scrutando i volti dei presenti, quindi domandò: "Suggerimenti?".

"Accettare" accennò con timidezza Judy Slander, impacciato come sempre.

"Inammissibile, mio caro. Non possiamo chiedere a migliaia di azionisti di restituire i loro favolosi dividendi per salvare la pelle di qualche dirigente della compagnia. Ci manderebbero al diavolo, e avrebbero ragione. Al posto loro, io non li restituirei di certo".

"Tentiamo di negoziare un accordo meno oneroso" intervenne di nuovo Jeff Hamilton, questa volta in tono assai più conciliante.

"Che cifra hai in mente?".

"Venti milioni...".

"È comunque inaccettabile" rispose Corkenham con fermezza.

"Almeno per quanto ci riguarda, dal momento che presto avremo bisogno di tutto il capitale disponibile per una nuova operazione di cui parleremo a tempo debito. Ma immagino che lo stesso valga anche per i terroristi, perché chi avvia una trattativa a suon di gole tagliate non credo sia molto disposto a trattare al ribasso. Sono stato chiaro?".

"Chiarissimo".

"Altre idee?".

"Cercare di scoprire di chi si tratta ed eliminarlo prima che lui ammazzi noi".

"Proposta davvero brillante quanto a stoltezza, caro il mio Judy" borbottò con spregio il presidente. "Il cento per cento degli iracheni, il settanta per cento degli americani e credo la metà della restante popolazione mondiale ritengono la Dall & Houston responsabile dell'inizio di questo conflitto, e il brutto è che hanno ragione. La strategia da seguire è stata esposta in questa sede con estrema chiarezza, ma non mi sembra che qualcuno di voi si sia alzato in piedi indignato e l'abbia respinta con decisione, o abbia perso le staffe abbandonando la sala".

"È vero".

"Pertanto, conviene prendere atto che gran parte della gente lì fuori chiede la nostra testa, insomma, questo al-Rashid potrebbe essere chiunque. Il nomignolo è ridicolo, certo, però mi sembra che quanto a uccidere il nostro amico non sia incline allo scherzo. Provare a individuarlo sarebbe come cercare un ago tra un miliardo di pagliai".

"In altre parole... tra sei mesi tutti morti?" chiese demoralizzato Jeff Hamilton.

"Temo di sì".

"Allora a che pro avere accumulato tanti soldi?".

"Bella domanda, vivaddio!" osservò sconfortato Eladio Medrano, un altro membro del consiglio di amministrazione dell'onnipotente Dall & Houston. "A che serve tutto quel denaro, se non può nemmeno assicurarci la protezione da un semplice assassino?".

"Magari per ingaggiare quelli della Blackwater. Se il governo se ne è servito in Iraq, a maggior ragione sapranno proteggerci qui, no?".

"Be', se lavorano come in Iraq, siamo a posto!" commentò sprezzante Hamilton. "Si vantano di essere il migliore esercito privato al mondo e si fanno pagare una fortuna, eppure a Baghdad non sono riusciti a impedire che facessero fuori cinque o sei dei nostri ingegneri più validi".

"Houston non è Baghdad".

"Sì, ma se da Houston siamo riusciti a fare della capitale irachena quel cumulo di macerie che è adesso, non dovremmo sorprenderci se da Baghdad cercano di trasformare Houston in un inferno, no? Almeno chi si trova in questa sala non dovrebbe".

Da ultimo, Peter Corkenham si rivolse a Hamilton con tono conciliante:

"So che non ti piacciono, ma so anche che desideri il bene dell'azienda e hai esperienza in materia, perciò ti pregherei di preparare al più presto una relazione sui Blackwater".

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Colorado, 2007


La solitudine era diventata una compagna pressoché inseparabile per Salka Embarek dal momento in cui un missile le aveva distrutto la casa, sterminando la sua famiglia la notte in cui era cominciata l'invasione dell'Iraq. Poi, però, quella stessa solitudine si era trasformata in desolazione quando si era resa conto che tutte le assurde decisioni prese subito dopo l'avevano condotta in quella folle situazione. E adesso era lì, seduta su un muretto della banchina di un'autostrada americana.

Mentre vedeva sfilare davanti agli occhi auto, moto e camion, non poteva fare a meno di passare in rassegna l'ingente quantità di errori commessi da quando le era venuta l'idea insensata di vendicarsi di chi le aveva distrutto la vita con immotivata crudeltà.

Non se n'era nemmeno accorta, ma in breve aveva smesso di essere una delle tante vittime di quel conflitto iniquo per trasformarsi in una marionetta nelle mani di chi aveva saputo sfruttare il suo odio per fini che poco o nulla avevano a che vedere con il massacro della sua famiglia.

Così adesso doveva riconoscere di essere stata una stupida a lasciarsi plagiare da una banda di cospiratori senza scrupoli, in grado di abbagliarla con il miraggio di fare di lei un'audace terrorista suicida che avrebbe annientato i responsabili di tutte le sue disgrazie.

L'avevano reclutata in una Baghdad semidistrutta, trasformata in una qualunque ragazza inglese della classe media, e portata in giro per mezzo mondo fino ad arrivare al cuore dell'America. E quando pensava di essere prossima a immolarsi e fare una strage di nemici, l'avevano abbandonata nel mezzo di un paese sconosciuto.

Sapeva che erano molti quelli che, come lei, si erano lasciati condurre al macello. Alcuni spinti dal risentimento, altri da una fede cieca nel comandamento divino che imponeva di eliminare a ogni costo gli infedeli; solo che non capiva perché alla fine l'avessero scaricata in quel modo, nonostante fosse assolutamente determinata a perseguire la sua impresa.

Pensò che in fondo bastava avanzare di pochi passi perché uno di quegli immensi camion ruggenti che sfrecciavano a un paio di metri da lì mettesse di colpo fine agli innumerevoli dubbi e problemi che l'affliggevano. Alla fine, però, respinse l'idea, convinta che morire schiacciata da un autotreno su una strada all'altro capo del mondo non era una fine degna per chi aveva lasciato l'Iraq con la ferma intenzione di far saltare in aria decine e decine di yankee.

Ma per il momento non ne aveva eliminato nemmeno uno.

Non le sarebbe bastato ferirli.

O terrorizzarli.

Durante l'apprendistato da terrorista si era rivelata un disastro. E in un paese dove qualsiasi studente poteva procurarsi senza difficoltà un mitra, andare a scuola e fare una strage, lei, che a suo tempo aveva sognato di abbattere chissà quante persone, non poteva contare nemmeno su un banale coltello a serramanico per proteggersi anche solo da un vagabondo ubriaco.

Rimase immobile sul muretto per quasi un'ora, finché non le si fermò accanto un furgoncino malconcio e sporco di fango. L'autista, un nativo americano calvo e dall'aspetto poco rassicurante, che puzzava di stalla, birra e sudore, le domandò bruscamente:

"Quanto vuoi per un pompino?".

"Come dice, scusi?" rispose Salka, convinta d'aver capito male.

"Ti ho chiesto quanto vuoi per un pompino" ribadì quel ripugnante individuo. "Una cosetta rapida, lì tra gli alberi".

"Vaffanculo" rispose indignata la ragazza. "Ma cosa cavolo pensavi, eh?".

"E che devo pensare, cretina, se mi trovo davanti una maiala seduta sul bordo di una strada? Ma vaffanculo tu!".

Di nuovo sola, concluse che in fondo il ributtante pellerossa aveva ragione. Del resto, le era capitato spesso di vedere ragazze seminude ai bordi delle autostrade americane in evidente attesa di clienti vogliosi.

Non poteva dare la colpa a nessuno se adesso la scambiavano per una di quelle prostitute, pertanto decise di allontanarsi da lì, prendere per i campi e inoltrarsi in un fitto campo di mais, con le piante che le arrivavano fin quasi al torace.

Verso mezzogiorno, per ripararsi dal caldo soffocante, si sdraiò tra la vegetazione: era stanca e sudata, aveva fame e sete.

E ancora una volta si domandò che diavolo potesse fare una ragazza irachena con un passaporto falso nel cuore dell'America, tenendo conto che non sapeva nemmeno se fosse ricercata dalla polizia o dove cavolo si trovasse.

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L'Avana, 1936


"MRE"... Mauro Rivero Elgosa. "MRE"... Mauro Rivero Elgosa. Mauro Rivero Elgosa... "MRE". Mauro Rivero Elgosa... "MRE".


Ancora prima di compiere tre anni, sapeva già scrivere il proprio nome con grafia diligente, pulita e perfetta, quasi gotica. A cinque poteva farlo con qualsiasi grafia, e sapeva imitare la firma della madre, degli insegnanti e dei compagni di classe con una tale precisione che quando compì dieci anni, Emiliano Céspedes, il suo migliore amico, gli pronosticò un brillante futuro come falsario.

Al pari di quegli esseri umani dotati di un talento speciale per la musica, la pittura, la letteratura o la manualità, Mauro Rivero Elgosa era nato con la mirabile capacità di imitare qualsiasi grafia, espressione ma soprattutto qualunque voce, comprese quelle femminili, frutto senza dubbio di una prodigiosa capacità di osservazione.

Schivo, scontroso e taciturno, era sempre stato un'ombra tra le ombre, ma senza mai lasciarsi sfuggire quanto gli succedeva attorno. La madre, l'unica persona che arrivò a conoscerlo a fondo, confermava che il figlio era una sorta di gigantesca spugna, che restituiva all'esterno i tanti dettagli che aveva assorbito solo quando lo riteneva opportuno.

Lo incuriosiva qualsiasi cosa ed era attratto da tutto ciò che stimolava la sua sorprendente capacità di apprendimento, eppure niente sembrava catturare a lungo la sua attenzione: se un giorno si dedicava alla fisica, magari l'indomani passava alla geografia, all'astronomia o alla matematica.

Uno dei pochi insegnanti che arrivarono a provare affetto per Mauro, don Teófilo Arana, scialbo e inaccessibile quasi quanto lui, gli rinfacciò più di una volta la manifesta incapacità di dimostrare le sue preferenze al momento di scegliere un percorso concreto da portare a buon fine. Ecco perché non faceva che ripetergli il vecchio detto "chi troppo vuole, nulla stringe!".

"Il talento è come l'acqua" gli spiegò una volta. "Se si disperde, non serve a niente. Ma quando si raccoglie e cade goccia a goccia in un solo punto, è in grado di erodere perfino la roccia".

Ma la risposta di quel ragazzo tanto singolare non mancò di sorprenderlo: "Sì, però l'acqua si annoia a cadere goccia a goccia nello stesso punto, a differenza di quando si disperde per cercare nuovi alvei in cui infiltrarsi".

Se è vero che infanzia e pubertà segnano il destino degli esseri umani, gli anni trascorsi in un'Avana colorata, soffocante, rumorosa, turbolenta e sgangherata determinarono il futuro di questo ragazzo che era come la triste e riflessiva pecora nera di un gregge allegro e spensierato. A poco a poco cominciò a emergere in lui la singolare capacità di trasformare ciò che all'apparenza era docile accettazione in una più distruttiva tendenza alla ribellione.

Un controsenso che si fondava su un semplice dato di fatto: per Mauro Rivero Elgosa non esisteva ideale, fede, convinzione sociale o politica né forma di amore che non avesse a che fare con le proprie iniziali, "MRE".

Più in là della punta dei suoi capelli, delle sue unghie ben curate, non esisteva niente.

Nemmeno la madre.

Abbandonata dal marito quando Mauro non era che un neonato, Marie Elgosa de Rivero aveva passato la vita a lavorare dodici ore al giorno pur di tirare su il figlio, ma in cambio delle alzatacce e dei tanti sacrifici aveva ricevuto solo rispetto e talora un briciolo di gratitudine. Non una sola dimostrazione di autentico affetto.

E per la donna fu una magra consolazione convincersi di aver messo al mondo un essere umano che non sarebbe stato fuori luogo definire "scolpito nell'alabastro".

Gradevole al tatto, di forme superbe e a prima vista malleabile, eppure distaccato, inaccessibile e freddo. Vero e proprio pugno di ferro in un guanto di velluto, sempre pronto a colpire di sorpresa con inaudita ferocia.

Da dove era uscito?

Domanda complessa cui l'infelice Marie non seppe mai dare risposta, in parte perché non sapeva granché della famiglia di quel marito sfuggente, un oscuro agente di commercio che sembrava vivere solo per il gioco d'azzardo.

Dadi, combattimenti di galli, carte, corse di levrieri, cavalli, calcolo delle probabilità e imbrogli vari rendevano a Santiago Rivero molto più degli squallidi prodotti di infima categoria che vendeva. A causa di tale passione, però, di tanto in tanto si vedeva obbligato a sparire, lasciando dietro di sé una famiglia affamata e una sfilza di 'pagherò' che non valevano nemmeno la carta sulla quale erano stampati.

In tre anni la moglie riuscì a saldare tutti i debiti dell'uomo e a impedire che le pignorassero la casa, ma le malelingue raccontavano che a questo scopo non si limitava a vendere i prodotti di bellezza che preparava lei stessa, ma che si vide più volte obbligata ad affittare a ore l'indubbia avvenenza per cui spiccava.

Che certe voci fossero vere o meno, nessuno poteva negare che da quando aveva chiuso la porta all'ultimo creditore, non l'aveva più aperta a nessun altro uomo, malgrado avesse ricevuto anche proposte senz'altro oneste.

Di solito Mauro la seguiva in campagna per aiutarla a raccogliere fiori e piante che più tardi la donna metteva a macerare in olio di palma. Le sue formule segrete, quasi magiche, le consentivano di produrre un'infinità di creme che vendeva a buon prezzo alle mulatte dell'Avana. E così riusciva a mantenere con un certo decoro anche la vecchia villa di famiglia.

Sotto un mattone della cucina la donna nascondeva un logoro taccuino con la copertina di plastica, dove annotava nei minimi particolari gli ingredienti di ogni intruglio. Quanto al figlio, ben sapeva che il vecchio libretto e quelle pareti scrostate sarebbero stati tutta la sua eredità.

"Ci saranno sempre delle donne, ma soprattutto donne che vogliono sembrare più belle di quel che sono" gli ripeteva continuamente. "Se impari a preparare le mie creme, un giorno potrai guadagnarti la vita onestamente e senza fare del male a nessuno".

Mauro Rivero non ci si vedeva ad andare per campi tutta la vita in cerca di una materia prima che in certi periodi era fin troppo difficile trovare, ma la sua incredibile capacità di acquisire conoscenze gli consentì di riprodurre, e talora di migliorare, le complesse tecniche di cui era depositaria la madre.

Diventare produttore di cosmetici non rientrava nei suoi progetti, sebbene, a dire il vero, non ne avesse nemmeno uno, di progetto.

A quindici anni aveva già imparato molte cose, tra cui il fatto che l'uomo non è mai padrone del proprio destino, ma al contrario è quest'ultimo, nel suo divenire quotidiano, che lo spinge a seguire una direzione o l'altra.

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Pagina 63

Le trote erano "grosse come foche", avevano fame ed erano disposte a lasciarsi prendere dalle due donne, un'anziana americana e una ragazza molto giovane, che trascorrevano giorni indimenticabili in un angolo di paradiso.

L'amicizia nata due settimane addietro si consolidò proprio in quei giorni nonostante gli oltre cinquant'anni di età che le separavano, magari perché entrambe avevano bisogno di una persona fidata cui appoggiarsi.

Di norma gli esseri umani più schivi, maltrattati, amareggiati e solitari custodiscono cospicue riserve d'amore inutilizzato e sentono la forte esigenza di donarlo.

Parlavano senza sosta, pescavano dall'alba al tramonto e dopo cena facevano partite a carte che potevano durare all'infinito.

Di tanto in tanto si recavano nel paese più vicino per fare provviste, ma per il resto non avevano rapporti sociali, né sentivano il bisogno di averne.

Il loro mondo era circoscritto al bosco, alle trote del fiume, al profumo di mille fiori differenti e al canto degli uccelli.

Un pomeriggio, quando un cinghiale oltremodo audace commise l'imprudenza di avvicinarsi troppo al camper, l'anziana estrasse l'enorme pistola che portava sempre con sé e lo abbatté con un solo colpo alla testa.

Così la cena, di fronte a un bel fuoco sul quale il cinghiale arrostiva adagio, divenne un'autentica festa.

A fine serata, confortata da un paio di bicchieri di eccellente vino californiano, Mary Lacombe disse con aria indifferente:

"Ho pensato a una soluzione per evitare che prima o poi la polizia possa rintracciarti".

"Ovvero?".

"Adottarti".

La ragazza la osservò incredula.

"Come hai detto?" domandò esitante.

"Ho detto che potrei adottarti con effetto retroattivo".

"In che senso? Non capisco...".

"Nel senso che conosco persone in grado di falsificare i documenti in modo da far risultare che sei nata in qualche remoto paese sudamericano, cresciuta in Inghilterra e che ti ho adottato da bambina. In questo modo, nessuno potrà metterti in relazione con una presunta terrorista irachena".

"E si può fare?".

"In questo paese, mia cara, si può fare quasi tutto con i soldi".

"Ma immagino che ne servano parecchi...".

"Non è un problema, piccola. Ho da parte qualche risparmio lasciatomi dal mio povero marito".

"Non posso permettere che utilizzi i tuoi soldi per adottarmi: un domani potrebbero sempre servirti, no?" le rispose determinata. "Ti sono grata per avermi dato la possibilità di godermi questi preziosi giorni di serenità per riflettere senza l'assillo di cosa fare d'ora in avanti, ma per me è già sufficiente che non mi denunci".

"Io non la vedo così, e ritengo che la mia opinione abbia un certo peso in questo caso".

"Non la vedi così perché sei troppo generosa, ma non è nemmeno giusto che io venga a complicarti la vita, finora tranquilla e serena, con problemi che non ti appartengono".

"Sei proprio sicura che non mi appartengano i problemi dell'unica persona con la quale ho stabilito un vero rapporto di amicizia negli ultimi anni?" le domandò Mary, visibilmente contrariata. "Per chi altri dovrei preoccuparmi? Per il mio fruttivendolo, un ubriacone volgare, oppure per la parrucchiera, che mentre mi mette i bigodini dice così tante stupidaggini da farmi venire il mal di testa?".

"Per i tuoi familiari, per quanto possano essere lontani".

"Non ne ho più, né vicini né lontani". Il tono della voce rimase acre: "E poi ritengo che l'amicizia sia molto più forte di qualsiasi parentela, considerato che non si basa su vincoli di sangue ma sul puro sentimento. Non a caso, spesso un amico si rivela più importante di un fratello, e dovresti saperlo".

"I miei genitori e i miei fratelli erano tutto per me".

"Perché li hai persi da giovane. Magari è solo per questo, piccola. Se non fosse stato così, la vita vi avrebbe separati a poco a poco. Non avresti smesso di volergli bene, ovvio, ma avresti avuto nuove priorità, come un marito o dei figli". Allungò la mano e accarezzò con affetto sincero quella della ragazza: "Adesso la mia priorità sei tu e, a dire il vero, mi piacerebbe che anch'io lo fossi per te. Perché a ciascuna di noi non rimane che l'altra".

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Pagina 76

    Ho chiesto al mio dio e non mi ha risposto.
    Ho chiesto di nuovo ma è rimasto in silenzio.
    Ho insistito a lungo, fino all'amara conclusione:
    il dio dei miei genitori non era il vero dio.
    Il dio dei cristiani sembrava essere molto più potente.
    Però adesso sono qui, nel paese dei cristiani, nel paese del
    massimo potere, e mi accorgo che anche loro chiedono al loro
    dio, che però non risponde. Come il nostro.
    Dove cercare, allora?
    Comincio a temere che qualsiasi ricerca si rivelerà inutile.
"Quando l'hai scritto?".

"Ieri notte".

"Non sapevo che scrivessi".

"Non lo avevo mai fatto prima".

"Hai paura che dio non esista?".

Salka Embarek indugiò un poco prima di rispondere, osservò con attenzione il volto sereno dell'anziana e poi disse con la massima calma:

"Mi spaventa che possa esistere e permettere che succedano queste cose. Tu credi in dio?".

"Mi avvicino ai settantacinque anni, mia cara".

"E allora?".

"Be', è l'età in cui di solito ci si aggrappa con le unghie e con i denti alla remota speranza che ci attenda un'altra vita. Ma è altresì l'età in cui ormai hai visto talmente tanto da aver perso ogni speranza".

"E tu l'hai persa?".

"A essere sincera, non mi sono mai fatta illusioni in merito" ammise Mary Lacombe. "Non solo: credo di non essermi nemmeno posta il problema dell'esistenza di un essere superiore o di un fato che segni il nostro percorso. Ognuno traccia il proprio cammino da sé e lo segue. Non c'è altro".

"E tu lo hai tracciato, il tuo cammino?".

"Certo!".

"E lo hai seguito sempre?".

"Nel limite delle mie possibilità".

"E quale sarebbe questo limite?" domandò la ragazza. "Sono giorni che parliamo solo di me, ma della tua vita non mi racconti mai niente".

"Quello che posso dirti della mia vita servirà ben poco a cambiare il mio futuro, puoi esserne certa" rispose placida Mary, con una punta d'ironia. "Per contro la tua storia, quello che sei stata e quello che vorrai essere un domani lo farà eccome".

"In che modo?".

"Be', ti trovi qui, a pesca sulla riva di un torrente meraviglioso e puoi meditare senza pressione se accettare che una vecchia svampita ti adotti, invece di vagabondare di motel in motel con il rischio che qualsiasi degenerato possa abusare di te o che ti prenda la polizia".

"Su questo hai ragione, te ne do atto".

"Su questo e molte altre cose che accetterai poco a poco. Quando si arriva al tratto finale del proprio percorso, come nel mio caso, è duro scoprire che non abbiamo condotto per mano nessuno che possa proseguire quanto abbiamo iniziato tanti anni fa. L'istinto di riproduzione non si fonda sulla sola necessità di perpetuare la specie 'fisica', ma piuttosto di farlo da un punto di vista intellettuale, trasmettendo le nozioni accumulate durante la vita".

"Ti seguo, ma non sono certa di capire...".

"Allora te lo riassumo in una frase: mi interessano più i neuroni che i geni".

"Ti dispiace spiegarmelo di nuovo? Del resto, come ti ho accennato, la mia scuola è saltata in aria quando non avevo nemmeno quattordici anni e non so molto di queste cose".

"Eppure è chiarissimo!" borbottò l'anziana, sul punto di perdere la pazienza. "In altre parole, preferisco avere accanto una persona intelligente, seppure non del mio sangue, che una stupida, fosse anche mia figlia".

"E mi consideri abbastanza intelligente da tenermi con te?".

"Sto cercando di capirlo, ma se devo essere sincera non sono ancora convinta del tutto" rispose Mary con fare ironico.

Sul momento la ragazza non disse niente. Entrò nel camper, tornò con due bibite, ne porse una all'anziana e le sedette davanti.

"Be', se cerchi prove di intelligenza, cercherò di dartene qualcuna che spero ti torni utile. Per il momento, sono giunta alla conclusione che non ti chiami Mary Lacombe né che tu sia quel che dici".

"Teoria curiosa! E da cosa lo avresti capito?".

"In primo luogo, perché non ho visto né un indumento, né un anello, una borsa o un portafogli con le tue iniziali: una cosa senz'altro insolita per una donna. In secondo luogo, perché non sai friggere un uovo, né pulire come si deve il bagno o la cucina: singolare per una presunta massaia. Terzo, perché è palese che non sei abituata a preparare nemmeno la colazione, il che non collima con il fatto di essere stata sposata. Infine, perché dormi di traverso sul letto, chiaro segno che hai sempre dormito da sola".

"Non mi sembrano prove certe, mia cara".

"Non lo sarebbero davanti a un tribunale, solo che ci troviamo in un'altra situazione. E poi non si tratta di prove ma di un insieme di piccoli dettagli, a mio modo di vedere la dimostrazione che nascondi qualcosa. Anche se non ho idea di cosa".

L'anziana sorrise appena e sussurrò:

"È proprio vero: l'età ci rende distratti".

"Non è l'età, è che sai fin troppo bene che con me non hai niente da temere".

"Sbaglio o mi avevi rivelato di essere una pericolosa terrorista che cercava di sottrarsi alla giustizia?".

"Comincio a credere di essere solo una povera infelice che sulla sua strada ha incontrato una persona altrettanto infelice".

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