Autore Concetto Vecchio
Titolo Cacciateli!
SottotitoloQuando i migranti eravamo noi
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2019, Storie , pag. 192, cop.fle., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-07-11152-5
LettoreFlo Bertelli, 2021
Classe narrativa italiana , lavoro , storia sociale , paesi: Svizzera , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1970












 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Prologo



Lo scorso novembre sono tornato a Zurigo. Nei paraggi della Dufourstrasse mi sono fermato davanti a un chiosco e ho ordinato una Rivella. Non ne bevevo una da oltre trent'anni. La ragazza dietro al banco mi ha dato il resto e mi ha augurato buona giornata in schwizerdütsch, il dialetto locale. Era ancora la lingua che parlavo io, ferma alle parole del Novecento? Ne dubitavo. Le ho chiesto se sapeva dirmi come arrivare al Teatro dell'Opera. "Ma è lì," ha risposto, puntando il dito oltre l'orizzonte del lago. Ho costeggiato a passo lento il Bellevue, mi sono accomodato sugli scalini del teatro e ho cominciato a osservare un gruppo di ragazzi dell'età dei miei figli seduti a semicerchio nella piazza squadrata.

A una donna con i capelli bianchi, che accanto a me leggeva la "Neue Zürcher Zeitung", ho chiesto se l'usanza del Böögg era ancora sentita. "Ma certo," ha esclamato allegra, sollevando per un momento lo sguardo dal giornale. Quindi ha iniziato a illustrarmi la storia del luogo, il Sechseläutenplatz, dove ogni anno, ad aprile, la tradizione vuole che si bruci un finto pupazzo di neve, il Böögg appunto, per dare festoso congedo all'inverno. "Prima gli esplode la testa e più bella sarà l'estate," ha precisato la signora, e si è avventurata a elencarmi i tempi dei falò nelle ultime edizioni. L'ho interrotta con cortesia, non volevo più saperne del Böögg. "Lei è argoviese?" mi ha domandato. "Sono nato ad Aarau." "Bel cantone, 1'Argovia," ha commentato.

Perché mi trovavo lì? Cosa stavo cercando?

Davanti ai ragazzi accovacciati, una giovane mamma ora dondolava una carrozzina. Potevo sentire quel che diceva. "Tesoro," sussurrava melodiosa al figlio, in italiano. "Fai le ninne," e col piede lo spingeva avanti e indietro.

Sentendosi osservata mi ha sorriso. Ho pensato a mia madre. La vedo con il foulard stretto attorno al volto, che mi tiene per mano mentre avanziamo sulla Hauptstrasse di Lenzburg. Stiamo rientrando a casa dall'asilo della Missione cattolica italiana, e davanti ad ogni cartellone pubblicitario si ferma per decifrare le lettere insieme a me. Io ripeto le parole ad alta voce e lei mi dice "bravo!". A volte, di fronte a una frase letta tutta d'un fiato, esulto in maniera scomposta, al punto che qualche vecchia di passaggio si gira. "Psst!" fa ridendo mia madre. "Non facciamoci riconoscere dagli svizzerazzi, sennò arriva Schwarzenbach!"

"Siamo e-mi-gra-ti," sillabava mio padre. A lungo m'interrogai sul significato di quella parola. "Stranieri," mi rispose una volta, accendendosi una Muratti. Ho davanti agli occhi l'immagine di lui col lupetto granata che fuma seduto in cucina, una sera dei primi anni settanta. "Non voglio essere straniero," ribatto. "Voglio chiamarmi anch'io Roland, Thomas o Markus, e invece mi avete messo un nome brutto, che ho solo io." "Konzetto!" alza la voce la maestra Schneider, quando mi richiama all'ordine. "È un bel nome, invece," sostiene mia madre e prova ad assorbire il mio scoramento. "Il tuo onomastico cade nel giorno dell'Immacolata, in Italia è festa, si festeggia la Madonna, e poi anche i tuoi nonni si chiamavano entrambi così."

A casa mamma e papà parlano in siciliano, una lingua segreta che nemmeno gli svizzeri che sanno l'italiano sono in grado di decifrare. I miei si cullano in quei suoni. Il dialetto mitiga l'estraneità, è il guscio in cui rifugiarsi. E quando, la domenica sera, papà telefona alla nonna Nina in Sicilia, la chiama "vossia".

"James Schwarzenbach!" penso, mentre rifaccio il giro della piazza. Un'epifania. Avevo mai chiesto ai miei chi fosse veramente, l'uomo che loro ogni tanto evocavano in quella stagione lontana, come un fantasma di cui avere paura? Non ricordo. Tiro fuori lo smartphone e digito il suo nome su Google. I risultati mi reindirizzano a un documentario della tv svizzera. Schwarzenbach è morto nell'ottobre del 1994. Nella prima scena, girata un giorno d'estate nel camposanto di St. Moritz, si scorge la tomba: "Comendador de la order de Isabel la Católica" ha voluto che ci scrivessero sopra. Col dito sposto avanti il cursore e al minuto 12 mi soffermo rapito davanti a uno spezzone in bianco e nero. Mostra la sala di un teatro piena di fumo e di umori. È il 1970, l'anno in cui sono nato io. Schwarzenbach troneggia al tavolo dei relatori. Ha l'aspetto di un Lord, rifletto d'istinto, mentre lo inquadrano da vicino. Un professore che si distende sulla sedia con consapevolezza. Sento la sua voce felpata. Rivolto alle persone che gli sono sedute accanto dice: "Ma perché parlate sempre e solo degli stranieri, e invece non vi occupate con la stessa energia dei nostri lavoratori?". Scandisce le parole con studiata teatralità, facendo mulinare la mano destra. La telecamera riprende la platea. In tanti applaudono freneticamente. "Prima gli svizzeri," mormoro tra me e me, lì, nel sole autunnale di Zurigo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

2.



Abbiamo reciso la memoria.

Dal 1860 ad oggi sono emigrati all'estero più di trenta milioni di italiani, ma nessuno se lo ricorda più, o fa finta di non ricordare, o ricorda in maniera selettiva. Non c'è quasi famiglia che non abbia, o abbia avuto, un parente lontano, eppure abbiamo rimosso l'indigenza degli anni più duri, e quel che il bisogno sommuoveva.

L'Italia nel secondo dopoguerra non è tanto dissimile da quella rivelata in Fontamara, o in Cristo si è fermato a Eboli. Un Paese a pezzi. Il conflitto ha provocato danni per 7000 miliardi di lire. Siamo così poveri che il Parlamento nel 1951 avvia un'inchiesta triennale sulla miseria e sui mezzi per combatterla. L'11,8 per cento della popolazione vive in condizioni di assoluta arretratezza, al Sud questa percentuale schizza al 50 per cento. Nei primi anni della ricostruzione circa due terzi della popolazione ignora o quasi il consumo di carne, oltre quattro milioni di famiglie non la consumano mai. Quasi due milioni di famiglie non sanno cos'è lo zucchero, metà della popolazione non assaggia vino. I commissari scoprono che in Sicilia 22mila famiglie vivono in grotte o baracche.

Raccontò il metalmeccanico Giuseppe Granelli a Giorgio Manzini in Una vita operaia: "Allora il modo di vivere era molto semplice; si andava in fabbrica a piedi o in bicicletta e dopo il lavoro al circolo o in casa. Sabato sera o domenica, cinema. Ma era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c'erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti".

Il Mezzogiorno, nonostante gli sforzi compiuti con la riforma agraria che ha messo fine al latifondo e distribuito le terre incolte ai contadini, era allo stremo. Come ha fatto notare lo storico Piero Bevilacqua , "la riforma ebbe un importante ruolo sociale e un limitato effetto economico". Non c'era lavoro per tutti. Quel poco che c'era era temporaneo, sottopagato, in nero. A Reggio Calabria le raccoglitrici di olive che, per contratto, avrebbero dovuto ricevere 500 lire al giorno per otto ore di lavoro, ne prendevano la metà per faticare dodici ore. Il lavoro minorile era diffusissimo. Gli adolescenti venivano regolarmente impiegati come manovali nelle zolfatare, o nel trasporto di sacchi; uno su tre eludeva l'obbligo scolastico. Imperava lo sfruttamento, il caporalato, forme larvate di schiavismo. I contadini la domenica mattina aspettavano la paga sotto i balconi del padrone, il padrone faceva colazione con comodo, ogni tanto si affacciava in pigiama, guardava giù, sul nereggiare di coppole, poi tornava pigro al suo caffellatte. E se i cafoni rumoreggiavano, li ricopriva di sputi.

Nel 1957 la Cassa per il Mezzogiorno inaugurò la politica di intervento diretto alla creazione di economie industriali, che diede vita al polo siderurgico di Taranto, alla raffineria Anic di Gela, agli stabilimenti chimici di Cagliari, Sassari, Porto Torres e all'Italsider di Bagnoli, ma erano interventi tardivi per pensare di poter riequilibrare i rapporti di forza tra Nord e Sud. Un'ampia fetta di italiani non si concedeva vacanze, né pranzi fuori, né altri "capricci". L'automobile era un lusso di pochi, la televisione si guardava al bar. Ancora nel 1960, al Sud appena il 15 per cento della popolazione possedeva un frigorifero.

Milioni di uomini e donne, insomma, non sapevano come mettere insieme il pranzo con la cena. E perciò emigravano. Su treni che si chiamavano Freccia del Sud, Treno del Sole, Treno dell'Etna, Freccia delle Puglie, Espresso del Levante. "Nelle stazioni," diceva alla radio il segretario del Pci Palmiro Togliatti, con voce nasale, "mi colpisce la folla di gente disagiata, povera, con le grandi valigie sdrucite tenute insieme da un giro di spago: gente che va in cerca del lavoro, spesso alla ventura in terra straniera."

La foto di copertina del libro Gli italiani in Svizzerra, a cura di Ernst Halter, ritrae un gruppo di emigrati alla stazione di Zurigo nel 1953. Si ammassano sul binario per salire sul treno che li porterà in Italia per votare. Le famose elezioni della legge truffa. Hanno i capelli impomatati di gel. Indossano giacca e cravatta, perché il viaggio impone un decoro, un codice di eleganza. Sgomitano. Qualcuno ha le valigie sulle spalle. È una gara a chi sale per primo sul vagone, per assicurarsi un posto a sedere. La lotta per conquistarsi uno strapuntino nella società del benessere comincia su quei treni sovraffollati.

Alla metà degli anni sessanta vivono in Svizzera più di 500mila italiani. Quando scendono alle stazioni dai nomi ostici, Winterthur, Schaffhausen, Dietikon, posano per terra un solo bagaglio: tutta la loro vita è stipata in quella valigia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 66

6.



Anche la Svizzera è stata povera.

Dalla metà dell'Ottocento alla Prima guerra mondiale emigrarono in 400mila. Montanari e contadini indigenti a cui i Comuni pagavano il viaggio, pur di liberarsene. Stipati sulle navi in rotta verso l'Argentina, il Canada, gli Stati Uniti, dove fondavano paesi che si chiamavano Berne, Lucerne, New Glarus. Sapere che la Svizzera ha avuto i suoi ultimi che cercavano un futuro migliore all'estero ci fa impressione. Anche la Svizzera si è dimenticata della sua storia.

Nella biblioteca della Farnesina trovo il brano di Max Frisch da cui è tratta la frase "cercavamo braccia, sono arrivati uomini". È la prefazione al libro Siamo italiani, che raccoglie le storie degli emigrati intervistati dal regista Seiler per il suo docufilm. È stato girato nell'estate del 1964, il libro è uscito l'anno dopo. Per la prima volta gli italiani, che, dice Seiler, "come uomini restano sconosciuti", vengono raccontati con il loro carico di dignità, non solo come numeri buoni per le statistiche dell'Ufficio lavoro.

È un saggio ruvido, il monito di uno scrittore civile. La frase che lo ha reso celebre, divenuta in seguito uno slogan potente come un brand, è contenuta nell'attacco: "Un piccolo popolo sovrano si sente in pericolo: cercavamo braccia, sono arrivati uomini".

Scrive Frisch degli italiani: "Non divorano il benessere. Anzi, al contrario, sono indispensabili al benessere stesso. Però sono qui. Lavoratori ospiti o lavoratori stranieri? Io preferisco la seconda definizione: non sono ospiti che vengono serviti per ricavarne del guadagno. Sono persone che lavorano, e che lavorano all'estero perché nella loro patria al momento non avevano la possibilità di campare. Non si può volergliene male. Parlano un'altra lingua, ma anche in questo caso non si può volergliene, soprattutto perché la lingua che parlano è una delle quattro lingue nazionali. Ma questo rende molte cose più complicate. Si lamentano di essere alloggiati in condizioni disumane, a prezzi folli, e non sono assolutamente entusiasti. Il che per noi svizzeri è inconsueto. Però si ha bisogno di loro. Se il piccolo popolo sovrano non si facesse un vanto della propria umanità e tolleranza e così via, il rapporto con la manodopera straniera, con i lavoratori stranieri, sarebbe più semplice: li si potrebbe sistemare in veri e propri campi di raccolta, dove potrebbero perfino cantare, e in questo modo non riempirebbero le nostre strade. Ma non si può farlo: non sono prigionieri, e nemmeno fuggiaschi. E allora ecco che vanno nei negozi e fanno acquisti, e quando hanno un infortunio sul lavoro o si ammalano vengono ricoverati anche loro negli ospedali. Ci si sente invasi dagli stranieri e allora si comincia lentamente a prendersela con loro".

Non fu probabilmente estraneo all'impulso morale di Frisch di parlare a favore dei nostri connazionali il fatto che avesse appena lasciato Roma, dove aveva vissuto con la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann per quasi cinque anni, inebriato dallo spirito caotico e fertile della città eterna. Da dieci anni, dopo gli inizi come architetto, Frisch è un autore di livello europeo che può dedicarsi interamente alla letteratura, grazie ai successi dei suoi romanzi Stiller e Homo Faber. Venire a Roma è stato un modo per sfuggire alla celebrità e poter lavorare senza le distrazioni legate alla fama.

Trovo su internet una vecchia intervista, andata in onda alla radio della Svizzera italiana nel gennaio 1964. Racconta il suo rapporto con la Capitale: "Inizialmente volevo andare a vivere a Berlino, poi sono capitato a Roma, colpito dalla bellezza della città, e ho deciso di rimanervi per sei mesi. Ora sono diventati più di tre anni, e vi rimarrò ancora. La amo moltissimo, e amo moltissimo gli italiani".

Quel pezzo quindi è un tributo al suo essere stato ospite in una nazione che non fa sentire straniero nessuno.

Scrive: "Si dice che risparmino un miliardo all'anno e lo spediscano a casa. Non era questo che s'intendeva. Risparmiano. E anche in questo caso non si può volergliene. Però sono qui, un'invasione di persone straniere quando invece si voleva soltanto della forza lavoro, E non sono soltanto uomini, ma sono anche diversi. Italiani. Esiste la piena occupazione, ma nel Paese nessuno esulta. Gli stranieri cantano, in quattro in una stanza da letto. Lavorano bene, a quanto pare sono perfino molto capaci, e debbono comportarsi in maniera irreprensibile e devono comportarsi senza macchia, meglio di turisti, perché altrimenti il Paese che li ospita rinuncia alla congiuntura favorevole. Questa minaccia, va da sé, non viene espressa, ad eccezione di alcune teste calde che non capiscono nulla di economia. In generale ci si mantiene sul piano di un tollerante nervosismo. Sono troppi, ecco il motivo. Ma non nei cantieri, nelle fabbriche, non nelle stalle e nemmeno nelle cucine. No, sono troppi nelle ore libere, la sera sulle strade, dopo il lavoro: soprattutto di domenica all'improvviso sono troppi. Balzano agli occhi, sono diversi. E non ci piace che buttano uno sguardo sulle ragazze e sulle donne, osservano le nostre donne fintanto che non possono portare le proprie all'estero".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 80

8.



Il 10 agosto 1964 il governo svizzero e quello italiano stipulano un accordo finalizzato "a migliorare le condizioni di soggiorno dei lavoratori italiani in Svizzera". È l'esito di una trattativa durata dieci anni.

Contiene tre novità: l'effettiva parità nei diritti tra lavoratori italiani e svizzeri, tra cui l'indennità di disoccupazione; il diritto a cambiare impiego e la residenza dopo cinque anni di lavoro continuativo; la riduzione da tre anni a diciotto mesi del tempo di attesa per i ricongiungimenti familiari degli emigrati con un contratto annuale.

Inoltre, dopo dieci anni, il lavoratore con un contratto annuale potrà richiedere il permesso di dimora definitivo. Lo stagionale potrà ottenere l'agognato permesso annuale se ha lavorato per almeno quarantacinque mesi ininterrotti, a condizione che trovi in seguito un'occupazione stabile.

Recita l'articolo 13 dell'accordo: "Le autorità svizzere autorizzeranno la moglie e i figli minori di un lavoratore italiano a raggiungere il capofamiglia per risiedere insieme a lui dal momento in cui il soggiorno e l'impiego di tale lavoratore potranno essere considerati sufficientemente stabili e durevoli. Affinché l'autorizzazione possa essere rilasciata il lavoratore dovrà tuttavia disporre per la sua famiglia di un alloggio adeguato".

È il patto che sancisce la fine del principio di rotazione, nella convinzione che sia troppo costoso imbarcare ogni anno nuovi operai da formare da capo. È più conveniente stabilizzarli.

Si afferma infine un'altra verità: gli italiani hanno superato largamente la prova. Sono indispensabili.

Ma non appena viene notificato, l'accordo italo-svizzero fa esplodere tensioni latenti nell'opinione pubblica e dà fuoco alle polveri del malumore anti-stranieri. L'apertura al ricongiungimento familiare è considerata dai più in contrasto con l'obiettivo, condiviso dal governo, di ridurre il numero di immigrati. Nei locali, sui muri, nelle fabbriche ricompaiono scritte ostili. Vengono distribuiti i volantini del Movimento contro l'inforestiamento: "Dopo cinque anni l'italiano potrà cambiare lavoro. A questo punto succederà questo, che l'italiano avrà il lavoro e lo svizzero no. I genitori svizzeri spendono migliaia di franchi per fare studiare i loro figli, fargli frequentare le scuole professionali, poi arrivano gli stranieri e zac, guadagnano uguale. Dopo cinque anni uno stagionale cambia lavoro e lo ruba a uno svizzero, e a quel punto per sostituire lo stagionale che è diventato annuale lo si rimpiazza con un altro in arrivo dall'Italia. Ora potranno pure portare qui le famiglie dopo soli diciotto mesi. È stato calcolato che così arriveranno dai 10 ai 15mila familiari all'anno; di recente il direttore dell'Ufficio federale dell'industria e delle arti Holzer ha calcolato che potrebbero entrare nel Paese alcune decine di migliaia di stranieri. Noi pensiamo che saranno altri 200-300mila. Al popolo non hanno mai chiesto se è d'accordo. Decide tutto Berna! Con 3 franchi al mese, 2 franchi i pensionati, aderisci al nostro movimento. La Svizzera agli svizzeri!".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 146

15.



In un celebre discorso Friedrich Dürrenmatt paragonerà la Svizzera a una prigione "nella quale gli svizzeri si sono rifugiati" perché "solo all'interno di questa prigione si sentono al riparo da aggressioni, mentre al di fuori di essa tutti si scagliano l'uno contro l'altro. Essi si sentono liberi, più liberi di tutti gli uomini, liberi - da prigionieri - nella prigione della loro neutralità".

Il 20 maggio 1969 James Schwarzenbach annuncia di aver raggiunto le firme necessarie per fare indire il referendum contro gli stranieri: 70.292. Ventimila più del necessario. Propone di aggiungere nella Costituzione un articolo che stabilisce di ridurre dal 17 al 10 per cento la percentuale di immigrati presenti nel territorio nazionale, fatta eccezione per il cantone di Ginevra, sede di numerose organizzazioni internazionali, che potrà mantenere un contingente del 25 per cento. Dalla limitazione sono esclusi gli stagionali (a cui è sempre fatto divieto di portare con sé i familiari), i frontalieri, i turisti, gli studenti universitari, i diplomatici. Il governo federale dovrà garantire in via prioritaria l'impiego dei cittadini elvetici - "prima gli svizzeri" - e la naturalizzazione degli stranieri dovrà essere ammessa soltanto in casi limitati.

Il governo fissa la data del voto per il 7 giugno 1970.

Quanti stranieri verrebbero espulsi nel giro di quattro anni, se vincesse il Sì? Trecentomila. In larga maggioranza italiani. È un referendum che non ha precedenti in nessuna democrazia: sbarazzarsi di 300mila persone, uomini, donne, bambini, al solo fine di alleggerire il peso della statistica. Persone trattate come numeri. Una deportazione.

Come sarà decisa la loro esclusione? Saranno tirati a sorte? Non viene precisato.

Più della metà dei lavoratori impiegati nell'edilizia e nella ristorazione sono italiani, una grande azienda metalmeccanica come la Sulzer AG di Winterthur è composta al 66 per cento da emigrati. I lavoratori stranieri rappresentano nel complesso il 35 per cento della forza lavoro. Mandarli via è un modo autolesionistico per mettere in ginocchio le imprese, precipitando nella crisi il sistema produttivo, si sgolano le associazioni degli imprenditori. "Se vince Schwarzenbach, non solo sarebbe un danno alla nostra economia, ma anche un danno d'immagine, un colpo al prestigio del Paese," avverte nell'agosto del 1969, parlando ai nostri connazionali riuniti a Montreux, il ministro dell'Economia Hans Schaffner. "Di più: sarebbe un suicidio."

Il referendum contro gli stranieri "è la mia grande occasione per diventare famoso," dirà Schwarzenbach alla sua segretaria, che poi lo riferirà a Helmut Hubacher, il capo dei socialdemocratici. Ha ordinato alla collaboratrice di rimuovere dal suo studio, tappezzato di quadri, sculture e libri sul Belpaese, tutto ciò che rimandi all'Italia. Vuole cancellare ogni traccia di una cultura che ha sempre ammirato profondamente.

Redige un lungo articolo, in cui illustra le sue ragioni. Nessun giornale glielo pubblica. Scrive:

"Da quando il Partito democratico ha ritirato la sua iniziativa, invece che ridursi come promesso dal governo, il numero degli stranieri è cresciuto di altre 100mila unità. Alla fine del 1969 più di un milione di stranieri vive in Svizzera, un Paese di 5,2 milioni di abitanti. Un lavoratore su tre è straniero. Nessuna nazione vanta simili proporzioni. Nessuna lo tollererebbe.

"In Italia la percentuale di lavoratori stranieri è dello 0,05.

"In Olanda dello 0,64.

"In Australia dello 0,8.

"In Svezia del 2 per cento.

"In Germania del 2,5.

"In Belgio del 2,6.

"In Francia del 3,6.

"In Svizzera la percentuale raggiunge il 15,4 per cento.

"Stavolta noi non ritireremo la nostra proposta. "Il governo spera di risolvere il problema facilitando le naturalizzazioni. Ma questo privilegio lo devono decidere i Comuni, analizzando le singole richieste, una per una. L'affermazione secondo cui chiuderebbero molte fabbriche non ci fa paura. Se vincesse il Sì, il numero degli stranieri sarebbe ancora superiore al mezzo milione di lavoratori indicato come soglia massima dagli stessi sindacati. Anche perché noi non toccheremo gli stagionali, i frontalieri, gli scienziati, gli economisti, il personale che opera negli ospizi. Nessun lavoratore svizzero potrà essere licenziato fintanto che nella stessa fabbrica vi saranno operai stranieri. I posti di lavoro per gli svizzeri devono essere garantiti. Negli ultimi dieci anni sono stati costruiti mezzo milione di appartamenti. Se andranno via gli stranieri ci saranno più case per tutti, anche per quelli cacciati dalle loro abitazioni per fare posto agli stranieri".

[...]

Sei mesi dopo, il 16 dicembre 1969, prende la parola in Parlamento. È il suo manifesto politico.

Dice: "Ci accusano di andare contro l'Europa, di proporre misure che sono in contraddizione con l'idea di rafforzare l'Unione Europea. Ma siamo uno Stato sovrano, che dispone ancora dell'autodeterminazione. Noi salutiamo gli sforzi di un'Europa unita, a patto che questa non si limiti a trasformare gli Stati europei in meri centri di amministrazione di un organismo centralizzato. Ogni nazione ha invece il diritto di decidere il proprio destino e il proprio futuro. Questo non è razzismo, ma ragionevolezza. La nostra iniziativa è una questione interna, pone una domanda sulla misura del numero degli stranieri che è decisiva sia per gli svizzeri, sia per gli stranieri che resteranno qui. Questa storia dell'invasione non è un problema di oggi ma dura da dieci anni e, seppur risultando cerchiata di rosso nell'agenda pubblica, la si è lasciata irrisolta. Cito la 'Glarner Nachrichten': 'Non possiamo, oltre ai 400mila lavoratori che già abbiamo, accogliere anche centinaia di migliaia di donne e bambini, non abbiamo le case per ospitarli, la miseria abitativa crescerebbe in maniera gigantesca'. E questi non vengono qui perché amano le nostre istituzioni, o la nostra democrazia, vengono qui per il guadagno, e anche i datori di lavoro non li assumono per ragioni umanitarie, o per amore cristiano, ma per aumentare la nostra produzione. E quindi è ridicolo che l'economia combatta la nostra iniziativa con argomenti di tipo umanitario".

Quindi la critica di Schwarzenbach è anche una critica al capitalismo, a un Nord che si fa ricco pagando due soldi i diseredati del Sud.

"Non lamentatevi se questo Paese sarà presto trasformato. Meno stranieri vuol dire più appartamenti liberi, meno concorrenza sul lavoro. Siamo un piccolo Paese, con uno spazio limitato. Nessun altro popolo si lascerebbe invadere in questo modo.

[...]

Ma se la Svizzera non ha letteralmente disoccupati, come fa Schwarzenbach a fare breccia? Qual è la nevrosi sociale che coglie? L'indomani il Parlamento vota la mozione con cui il governo chiede di respingere il referendum. Su 134 votanti, uno solo è a favore: James Schwarzenbach. Ma è un voto d'indirizzo, un atto politico non vincolante. Nessuno può più frenare il treno del referendum.

[...]

Com'è possibile che un letterato senza aura, dalla voce nasale, assurga a rango di star, venga acclamato per strada, rincorso dai giornalisti di tutto il mondo, diventi una presenza fissa in tv? La gente comune si spella le mani quando definisce l'Onu "un club di negri", o attacca Bruxelles e la Ue come un consesso di tecnocrati che decidono a scapito della sovranità delle nazioni, "bonzi che vogliono sovraordinarsi allo Stato svizzero". E più disprezza i professori, gli intellettuali, i burocrati - una schiera di cui fa parte anche lui - più il suo gradimento s'impenna nelle rilevazioni demoscopiche. Individualista e solitario, elitario e fanatico, Schwarzenbach è la prima popstar populista. Il primo che incita alla lotta "contro quelli di Berna", ma se uno gli chiede se è razzista, come tutti i populisti, risponde di no.

La sua vita è cambiata. Ogni tanto rimpiange i momenti in cui aveva tempo solo per leggere e scrivere, ora la sua agenda trabocca di impegni, riunioni, richieste di interviste. È felice che i telespettatori di tutta Europa possano ammirarlo con alle spalle la grande biblioteca. Vedete, sembra dire, sono una persona civile e colta. Alcuni giornali italiani lo chiamano "il Führer elvetico". Se ne adonta. Sulla poltrona comoda che gli ha regalato il padre, di pelle inglese, si accende la pipa. Declama Rilke. Legge con la matita in mano, per segnarsi le frasi che lo hanno colpito. Si segna questa di Salvador de Madariaga: "Ogni nazione ha il diritto, fintanto che è nei suoi poteri, di stabilire il proprio futuro e il proprio destino".

[...]

Scrive Max Frisch: "L'odio verso lo straniero è un fenomeno naturale. Esso nasce fra l'altro dalla paura che altri possano essere più abili in questo o quel campo. In ogni modo il loro ingegno è diverso, diverso per esempio nell'assaporare la vita, nell'essere felici. Ciò suscita invidia, anche se ci si trova in una posizione privilegiata, e l'invidia sfocia in atti di disprezzo. Gli svizzeri sono bravi, ma ora scoprono che anche altri lo sono: e senza quel senso di malumore che al Nord delle Alpi siamo abituati a considerare la premessa o la prova medesima della capacità. Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, di essere almeno puliti. Ma nemmeno questa speranza trova sempre conferma: un medico condotto mi ha assicurato che gli italiani, al contrario dei pazienti svizzeri, si presentano con i piedi lavati. Non direi che si tratta di odio di razza, come è stato scritto nei giornali italiani. Odio verso lo straniero è abbastanza. Non è un'ideologia, è un riflesso. Lo straniero rappresenta quanto non si può assorbire, anche se ci si rende conto dei suoi pregi, e di conseguenza lo si ha malvolentieri dinanzi agli occhi, perché induce all'autocritica. In questo punto siamo sensibili e, pur di risparmiarci l'autocritica, passiamo al pregiudizio: cosicché lo straniero diventa 'il peggiore'. Si ha un bel definirli manodopera straniera: sono creature umane. Diamo loro baracche e, appena possibile, anche appartamenti: un'inserzione apparsa in un quotidiano svizzero, per mezzo della quale si offriva un pollaio come alloggio per gli italiani, dev'essere considerata una felice eccezione. Per quanto concerne in particolare gli italiani: il risentimento, di cui sono spesso fatto oggetto, è naturale, perché i figli di una grande cultura, meno abbienti, e meno istruiti di noi, ci fanno sentire la loro possibile superiorità nell'arte di vivere, il che irrita".


Il verbo di Schwarzenbach fa rumore in tutta Europa. In Italia scatta l'allarme, la stampa dedica molti servizi alla Svizzera xenofoba. "In tempi di libera circolazione della manodopera nell'area Mec questa situazione è assurda, quasi incredibile," commenta sconcertato un giornalista conservatore come Egidio Sterpa sul "Corriere della Sera". L'Italia esporta da trent'anni manodopera, non ospita lavoratori stranieri sul proprio suolo, non si registrano sbarchi sulle coste, né ancora "vu cumprà" che vendono cianfrusaglie o tappeti sulle spiagge, e nemmeno immigrati in concorrenza con i cittadini italiani per l'assegnazione di una casa popolare. Ci stupiamo per il razzismo altrui. Siamo profondamente scandalizzati da questi signori che nei loro teatri urlano: "Prima gli svizzeri!".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 167

Quindi Schwarzenbach è il primo in Europa a capo di un partito anti-stranieri. Come si spiega? Non è certo un problema di ordine economico. Sappiamo che la Svizzera ha una disoccupazione pari allo 0,0 per cento. Zero virgola zero. Nelle liste di disoccupazione del 1970 risultano iscritte 104 persone. Centoquattro. Il prodotto interno lordo è cresciuto del 5,6 per cento rispetto all'anno prima. Ma allora Schwarzenbach di cosa si fa paladino? A cosa dà corpo? A una nevrosi di prosperità?

[...]

Negli ultimi mesi la campagna s'incattivisce. Vengono distribuiti volantini di un'associazione vicina a Schwarzenbach che dicono: "Meglio finire in convento che sposare un italiano". Li chiamano Fremdi Fötzel, canaglie straniere. In un ristorante di Lucerna ne fa le spese il presidente dell'Enit, l'Ente del turismo italiano, Michele Pandolfo: mentre sta conversando in italiano con un conoscente è aggredito al grido di: "Chaibe Tschingg!". Nelle cabine telefoniche gli uomini di Schwarzenbach lasciano dei fogli ciclostilati dove c'è scritto: "Ma certo che abbiamo bisogno di lavoratori stranieri! Riempiono i nostri ospedali e i nostri sanatori. Riempiono gli appartamenti a buon mercato e le nostre strade. Riempiono i nostri asili infantili e le nostre scuole. Riempiono le coltivazioni di calcestruzzo e la nostra terra fino a farla scoppiare. Riempiono i portafogli di industriali, speculatori e di bonzi". Gli stranieri lavorano troppo, spesso a cottimo, e si accontentano di paghe basse, il che spinge in giù i salari anche per i lavoratori svizzeri. Già nel dicembre 1963 un emigrato di Lecce lo aveva spiegato bene a Giovannino Russo del "Corriere": "Noi fatichiamo come pazzi per guadagnare. Loro invece procedono con calma, si accontentano anche del 40 per cento sul cottimo. Ecco perché non ci possono vedere".

Scrive il giornalista ticinese Dario Robbiani: "Schwarzenbach sogna una Svizzera come giardino del mondo, dove i treni rispettano gli orari, nessuno sciopera, i giovani studiano, le donne si preparano al matrimonio con i corsi di economia domestica e di pediatria, il prete e il pastore badano alle anime, i colonnelli all'integrità territoriale, i banchieri fanno gli affari, i padroni regalano la cena del personale ai bravi dipendenti, i turisti e gli osservatori stranieri prorompono in 'oh' di meraviglia".

| << |  <  |