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| << | < | > | >> |Pagina 5Capitolo primoE tutti questi dove vanno, che manca piú di mezza giornata all'ora dello struscio? Ma non ce l'hanno un mestiere? Imma Tataranni si spenzolava dal davanzale al secondo piano della Procura della Repubblica, sforzandosi di allungarsi sulle punte dei piedi, perché quelle cazzo di finestre erano troppo alte e ci arrivava a malapena. Fra i passanti che transitavano in quel momento sotto gli alberelli del corso, cercando di ripararsi dal sole che riverberava sull'impiantito di piazza dei Caduti, enorme e tutta bianca da quando l'avevano rifatta, Imma avvistò una capigliatura castana striata da colpi di sole fatti con maestria e sicuramente di fresco, perché anche da quella prospettiva non si vedeva traccia di ricrescita. Strinse gli occhi per migliorare la messa a fuoco. Non poteva esserne sicura, ma le probabilità che fosse lei erano alte. Maria Moliterni, impiegata di terzo livello nel settore amministrativo, e moglie del prefetto. Già da diversi mesi Imma aveva il sentore, quasi la certezza, che la signora approfittasse delle ore di servizio per andare a fare la spesa, ma non era ancora riuscita a sorprenderla in flagrante. Aguzzò la vista cercando di cogliere qualche altro dettaglio, quando il telefono nella stanza si mise a squillare. Fece in tempo a notare un paio di scarpe modello Chanel prima che con un'elegante falcata la signora svoltasse verso la piazza del mercato. Imma poggiò a terra la pianta dei piedi, annotando mentalmente l'orario, l'una e dieci, poi fissò il telefono. Erano rogne, ne era sicura. Era sempre cosí quando squillava a quell'ora. Pensò immediatamente a Valentina, che doveva essere appena uscita da scuola e in quei giorni stava piantando una grana. Invece le dissero che avevano ucciso un ragazzo, a Nova Siri. Imma si senti sollevata. La Procura della Repubblica di Matera il sabato mattina assumeva un aspetto sinistro. Senza il solito viavai di belle signore togate, di uscieri, di gente venuta a sbrigare pratiche, di avvocati in abito blu riuniti in circolo come pinguini sulla banchisa, di imputati, testimoni, parenti, carabinieri e poliziotti, saltavano all'occhio tutte le magagne. I muri sbrecciati e stinti. Lo scotch che imperversava. Marroncino, da pacchi, a sigillare porte, oppure a fissare grossi fogli di carta per oscurare qualche vetrata. Scotch telato penzolante su quadrati di plastica che fungevano da bacheche, con ordini di convocazione e comunicati di servizio attaccati alle estremità. Scotch colorato, giallo o blu, con scritte bianche o nere, che incaprettava macchinari in disuso arenati nei corridoi. Scotch trasparente che teneva insieme vetri rotti di finestre. Scotch appiccicato dove capita e basta. E poi pile di scatoloni polverosi in precario equilibrio, con su scritto Elezioni amministrative, fili elettrici che spuntavano dai muri e si arrotolavano come serpenti, lampade al neon agonizzanti. Imma attraversò i corridoi deserti col rumore dei tacchi che rimbombava, oltrepassò la porta con su scritto Bagno chiuso per vandalismo e raggiunse appena in tempo la macchinetta per timbrare i cartellini. Lí davanti, Diana si stava infilando il soprabito. Si ostinava a usarlo, malgrado le mezze stagioni fossero sparite da un pezzo. Ogni giorno all'una e ventidue la sua assistente smetteva di rispondere al telefono, passava in bagno, si lavava le mani col sapone personale che si portava da casa, poi tornava, prendeva il soprabito, che si infilava strada facendo, timbrava e usciva a e mezza spaccate. Si fermò un attimo, quando Imma le diede la notizia, poi mormorò un che peccato a fior di labbra. A Imma non sfuggi la leggera apprensione nel suo sguardo. Si conoscevano dai tempi del liceo, quando per un periodo avevano anche diviso il banco, prima che Diana scegliesse di sedersi con Cucciniello, a fare chiacchiere e pettegolezzi che ebbero un pessimo influsso sul suo rendimento scolastico. Per questo Imma seppe immediatamente dare un nome alla preoccupazione che le leggeva negli occhi in quel momento: Cleo. L'aveva avuta dopo quasi quindici anni di tentativi andati male e chiamarla Cleopatra le era sembrato il minimo. D'altronde lei stessa si chiamava Diana anziché Giuseppina, come avrebbe dovuto, in onore della luccicante cavallerizza che suo padre aveva visto una volta, al circo Orfei, e mai piú dimenticato. Anche se poi, a causa del viso leggermente allungato, Diana piú che alla cavallerizza somigliava al cavallo. Nominava la figlia in qualsiasi discorso, a proposito e a sproposito, come per capacitarsi che esistesse davvero, con grande ammorbamento di Imma, che aveva sempre trovato i discorsi sui figli noiosi almeno quanto quelli sui fidanzati e sui preparativi di matrimonio, superati soltanto dai resoconti delle vacanze e dalle foto dei viaggi. Forse fu per mettere in atto una piccola vendetta che aspettò qualche istante prima di dire alla segretaria di far salire Calogiuri, andando via, segno che aveva intenzione di sbrigarsela senza di lei. Mentre se ne andava, sollevata, a scaldare lo sformato di patate, Diana le disse che aveva telefonato Perrone per quella cena delle ex compagne del liceo. Alla fine avevano deciso di farla a casa di Carmela Guarini. Volevano la risposta. Imma disse di sí pensando ad altro, e se ne penti prima ancora di finire la sillaba, ma ormai era troppo tardi. | << | < | > | >> |Pagina 55Capitolo settimoValentina era romantica, anche se essere romantica, per lei, significava ascoltare a tutto volume la musica dei Linkin Park, che a un profano avrebbe potuto sembrare agghiacciante. Tenere la foto di Del Piero appiccicata sul diario ma sognare di andare a vivere con Bea. E i loro rispettivi, chiaramente. Amare segretamente Cosimo, il primo in matematica, che era cotto di Bea. Lasciarsi scappare qualche lacrimuccia mentre si depilava le sopracciglia e convincersi che fosse per la fame nel mondo. Mandare piú di settecento sms al mese. Desiderare segretamente, almeno una volta alla settimana, di uccidere sua madre. E adesso c'era una novità. Non voleva piú andare a pallavolo, né a pallacanestro, e nemmeno a equitazione, proprio ora che l'anticipo al maneggio era stato già versato e le avevano comprato gli stivali e tutto il resto. "Voglio fare kickboxing", aveva detto. Era un'iniziativa tutta sua. Non ci andava neanche Bea. Imma l'aveva guardata come se le avesse annunciato la decisione di darsi alle droghe pesanti. Aveva tentato di capire i motivi della sua scelta. Aveva cercato di dissuaderla. "Ti vuoi scaricare?" aveva chiesto alla fine. Valentina l'aveva guardata sorpresa, poi aveva detto di sí. Imma aveva deciso di correre ai ripari, quel martedí mattina. Da quando era iniziata la vicenda di Nova Siri, certe cose le vedeva sotto un'altra luce. Che combinavano quei ragazzi zitti zitti nelle loro camerette? Che messaggi si scambiavano con quei loro cellulari che avrebbero potuto metterli in contatto non si sa con chi? Qualche mese prima la madre di Pietro aveva voluto a tutti i costi regalare a sua nipote il telefonino, e Valentina si era messa a chiamare degli sconosciuti, attaccando poi discorso con la scusa di aver sbagliato numero. Che voleva dire? Perché lo aveva fatto? Si sentiva sola? Quando ne aveva parlato a Pietro, preoccupata, Imma aveva ottenuto uno di quei commenti di cui suo marito era maestro, del genere è l'età, bisogna aspettare che le passi, oppure non c'è niente di male. Anche se avesse trovato un assassino col coltello in mano, intento ad affondarlo nella gabbia toracica di qualche malcapitato, Pietro sarebbe stato capace di ripeterlo, e il bello è che sembrava pensarlo davvero. Per questo Imma temporeggiò fra il bagno e la cucina, aspettando che Valentina uscisse col padre per andare a scuola, e appena senti chiudersi la porta si inoltrò nella sua cameretta, guardinga come se fosse penetrata per la prima volta nel bunker di un latitante di massima pericolosità. Se sua figlia l'avesse sorpresa sarebbe stata subito pronta ad accusarla di alto spionaggio, violazione delle convenzioni, rispetto della privacy e patto del venerdí, quello stipulato qualche tempo prima, col quale Valentina si impegnava a non trascurare i compiti, di matematica in particolare, e lei a non immischiarsi in faccende che non la riguardavano. Imma aveva guardato con diffidenza gli orsetti e i bei ficoni che spuntavano qua e là da mensole e poster, senza riuscire a trattenere un pensiero di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Un dubbio inconfessabile, pronto ad assalirla ogni volta che vedeva Diana impegnata a tessere le lodi di sua figlia e a decantarne le innumerevoli qualità: poiché a differenza di cani, gatti, tartarughe d'acqua e persino mariti, dei figli è praticamente impossibile disfarsi, tutti, appena si rendevano conto dell'irreparabilità del passo compiuto, non avevano altra strada se non convincersi che non ci fosse nella vita esperienza piú grande, piú bella e piú encomiabile del diventare genitori. E siccome non bastava a consolarli, si accanivano a convincerne anche gli altri, perché non restassero in giro testimoni scomodi. Ricacciò via quel pensiero e si diresse verso l'oggetto che le interessava. Il diario di Valentina, quello con Del Piero appiccicato sopra. Era chiuso con una chiavetta, ma lei sapeva come aprirlo. Lo sfogliò, stando ben attenta a non far cadere tutta la roba che c'era dentro, carte di caramelle, biglietti dell'autobus, fiori secchi e altri cimeli. Ma com'è che a quell'età, appena scese in pista nella vita, quelle ragazzine vivevano già di ricordi? Nelle prime pagine si parlava soprattutto di un tale Simone che era bono, fico, e strafico, cosa che a quanto pare era stata comunicata anche al diretto interessato senza mezzi termini. Perché adesso erano loro, le femmine, a farsi avanti, e i maschi a fuggire, non per civetteria, ma per spavento. Paura vera e propria. Poi, sotto l'undici febbraio, qualcosa la colpi. Non so ke farei senza la mia mamma, c'era scritto. Ogni volta ke mi guardo allo specchio e mi vedo brutta, inutile, senza speranze, lei sa capirmi e farmi tornare il sorriso. Non sono mai riuscita a dirglielo, certe volte la faccio arrabbiare, e lei mi fa arrabbiare ancora di piú, ma la verità è ke le voglio tanto bene. Imma chiuse il diario per un attimo, colpita da quelle parole inaspettate. Commossa, quasi. Pensò che era sempre stata troppo dura, con Valentina. E ingiusta. Ecco cosa pensava di lei, invece, e aveva dovuto confidarlo in segreto a quel quaderno. Poi, ormai gasata, lesse ancora. Un'altra pagina a caso. Giorgio mi ha fatto arrabbiare, trovò scritto. Vuole sempre le mie cose, è insopportabile. E chi era questo Giorgio adesso? Girò pagina. Uffa, Giorgio ascolta sempre le mie telefonate, non ne posso piú. Telefonate? Ma non c'erano Giorgi in casa. Perché non sono come Valentina, proseguiva il diario, che è figlia unica? Imma chiuse il quaderno. Ecco che c'era di strano, anche nella scrittura, se ne accorgeva solo in quel momento. Era il diario di Bea. Imma lo rimise esattamente al suo posto. Inutile provarci. Con sua figlia, difficilmente l'avrebbe avuta vinta. | << | < | > | >> |Pagina 101Capitolo quattordicesimoL'avvocato non si capacitava. Guardava Imma seduta di fronte a lui, alla scrivania, il computer acceso davanti, le gambe che dondolavano dalla sedia, sotto il tavolo, la chioma leonina, in quel momento di un infido color melanzana, frutto di una tintura venuta male, il golfino verde pistacchio - quello psichedelico di una volta, non quello color cacarella che in seguito tutti trovavano tanto chic - il brufolo sul mento, e mentre le spostava gli occhi addosso senza ritegno non faceva niente per nascondere quello che stava pensando: rispetto ai suoi parametri, la signora Tataranni Immacolata in De Ruggeri, sostituto procuratore della Repubblica Italiana nel distretto di Matera, era un cesso. Ladogna era un noto bon vivant, abituato a sfoggiare donne di lusso e automobili decappottabili, frutto della sua disponibilità verso una clientela di piccoli e medi malfattori, che lo teneva parecchio impegnato e gli dava belle soddisfazioni monetarie. Per questo adesso non si rassegnava a perdere tempo a causa di questi pochi centimetri di femmina, manco ben distribuiti, che l'aveva fatto convocare in Procura per una cosa dell'altro mondo, cocci greci, che ce li avevano tutti, chi non ne aveva mai trovato uno in un podere, o ricevuto in regalo da un contadino, o acquistato da qualcuno per farsi bello con gli amici o coi clienti. Insomma, non era nemmeno un peccato veniale e a nessuno sarebbe venuto in testa di scomodare uno stimato e indaffaratissimo professionista come lui per una faccenda del genere. Quindi, con la faccia tosta e il sorriso beffardo che tanto piaceva alle sue amiche, certo supportato da gite in barca e cene nei migliori ristoranti, ripeté, senza nemmeno darsi la pena di farlo sembrare vero, che quella roba l'aveva avuta da suo nonno, e guardò l'orologio per la quarta volta al fine di rendere chiaro il messaggio. E il messaggio arrivò a destinazione. "Scusatemi un momento", disse Imma, e se ne andò nell'altra stanza. Avverti Diana che doveva assentarsi un attimo, di entrare dentro lei per tener d'occhio il tipo, magari con la scusa di mettere a posto i faldoni con le notizie di reato e visto che c'era di portarsi avanti davvero. Lei scese in PG, facendo sobbalzare gli uomini che in genere, a quell'ora, interrompevano le loro occupazioni solite per sprofondare in un dolce torpore, con le palpebre abbassate a mezz'asta e la testa discretamente poggiata sul dorso della sedia o sul palmo della mano. Sobbalzò anche Calogiuri, che stava al computer, non per una cosa di servizio, però. Dovevano essere i corsi che faceva per corrispondenza. Fingendo di non notare né quello né tutto il resto, nemmeno gli sguardi che presto iniziarono a correre dietro le sue spalle, gli disse di informarsi alla Fiat di Melfi su Carmine Amoroso. Poi si trattenne ancora un po' domandando all'appuntato notizie sul programma degli esami da privatista per il diploma. Quando tornò su, all'avvocato era venuto un leggero tic sotto l'occhio sinistro. Lei gli sorrise, si accomodò davanti al computer e si trattenne a battere, usando due dita, tutta la risposta che le aveva dato prima che uscisse, chiedendo, continuamente conferma e mettendoci un tempo pleistocenico. Quando ebbe finito rilesse minuziosamente, ad alta voce, e dopo aver terminato si girò di nuovo verso di lui, guardandolo serafica con gli occhi giallo gatto. "Giusto?" L'avvocato la osservò schifiltoso, poi fece un indecifrabile movimento con la testa. Imma gli chiese se avesse mai conosciuto un certo Emanuele Pentasuglia, detto Manolo. Ladogna fece segno di no, ma un minimo di interesse comparve dietro la sua aria blasé. Forse sapeva dell'aggressione subita dal Pentasuglia, per qualche motivo che a lei era necessariamente oscuro, magari l'aveva conosciuto all'epoca del '77, quando, ci scommetteva, era passato anche lui dal fontanino, se non altro perché a sinistra si scopava con piú disinvoltura e la piazza di Bari per lui doveva essere già satura. Si fece l'idea che non la stesse contando giusta. Gli disse che Emanuele Pentasuglia era stato aggredito da ignoti, probabilmente per qualcosa che aveva a che fare con la morte di quel ragazzo, a Nova Siri. "Quello che è stato accoltellato all'uscita dalla discoteca?" Le cose non stanno come dicono i giornali, rispose Imma, e comunque il ragazzo è morto ed era in possesso di un pezzo di pínax, insomma un frammento di tavoletta votiva della stessa partita di quelli che aveva lui in casa. "Forse anche a lui li ha dati il nonno", disse l'avvocato. Ma se il suo intento era far perdere la pazienza a Imma, non ci riuscí. Imma la pazienza la perdeva, e anche spesso, ma quando pareva a lei. "Avvocato Ladogna, - gli rispose con la sua voce leggermente stridula, - forse non mi sono spiegata. Qui il problema non sono quei pezzi di mattonelle, greche, romane o ostrogote che siano, non è questo il punto, ma un ragazzo di vent'anni che è stato ammazzato e un altro tipo che per poco non ci rimetteva anche lui le penne. Sto cercando di farvi capire che vi conviene dirmi tutto quello che sapete". L'avvocato la guardò e annui, come se si fosse convinto. "Quelle piastrelle me le ha date mio nonno, - disse. - E ora se non le dispiace..." E guardò l'orologio. | << | < | > | >> |Pagina 140Capitolo ventunesimoUno dei pezzi forti che la madre di Imma aveva cucito per sua figlia era un tailleurino giallo vagamente ispirato a Kim Novak in La donna che visse due volte. Con la gonna attillata che poi negli anni era diventata proprio stretta, a causa di qualche chilo che Imma aveva messo su con l'età. Fu la prima cosa che trovò nell'armadio frugandoci dentro al buio, mentre suo marito dormiva, e si mise addosso la mattina in cui andarono a prelevare Niki Cannone.
Quando c'era qualche pista che si stava stringendo, Imma iniziava a dormire
sempre meno, si rivoltava fra le lenzuola per buona parte della notte,
rispondeva a mugugni, oltrepassava cose e persone con la messa a fuoco del suo
sguardo, finché un mattino non scattava a sedere sul letto matrimoniale prima
che si alzasse il sole, impaziente di
passare all'azione. Pietro aveva preso l'abitudine di far finta di nulla, perché
sapeva che in quei casi non bisognava contrariarla. Si metteva i tappi nelle
orecchie, e aspettava che passasse. Come l'inverno. O l'estate, a seconda dei
gusti.
Quella mattina, col tailleurino giallo addosso, Imma fece per salire sulla
camionetta dei carabinieri, ma lo scalino era alto, e lo spacco della gonna si
apri fino in cima, lasciandola col sedere di fuori. Un'altra, forse, a quel
punto, avrebbe potuto rassegnarsi a tornarsene indietro, ma
lei no. Si avventurò lo stesso, con Calogiuri che con discrezione le proteggeva
la ritirata.
Niki Cannone era uno di quegli anelli di congiunzione fra l'uomo e la scimmia che hanno costituito oggetto di ricerca per intere generazioni di evoluzionisti. Alto e massiccio, la faccia bianca e rossa, aveva la pelle color del cuoio a causa della vita all'aria aperta e i lineamenti tagliati con l'accetta. Conosceva la Murgia e i suoi dintorni come qualunque predatore, piccolo o grande, conosce il proprio territorio. La batteva in ogni stagione alla ricerca di qualcosa da saccheggiare. D'autunno erano funghi, che raccoglieva in abbondanza grazie a una vista e a un fiuto animaleschi. Ne riempiva grosse buste di plastica, fottendosene se le spore non cadevano per terra, e il ciclo di riproduzione veniva interrotto. Se qualche ecologista saputello gli rompeva le scatole in proposito, lo osservava con lo sguardo ottuso dei suoi occhi bovini e diceva che erano tutte puttanate, se qualcuno gli voleva fare la contravvenzione venisse avanti, erano trent'anni che raccoglieva funghi e aveva sempre fatto cosí e anche suo nonno i funghi li raccoglieva col secchio, che era tale e quale. Poi sputava e si allontanava, col suo passo pesante fra i cespugli radi. D'inverno saccheggiava le masserie. La zona ne era piena. Antichi edifici fortificati, di struggente bellezza, frequentati fino alla metà del secolo precedente dai proprietari e poi un po' alla volta abbandonati a se stessi e lasciati cadere in rovina, perché erano troppo grandi per mantenerli, e la gente che li possedeva non aveva soldi, né capacità imprenditoriali, né il buon senso di associarsi a qualcun altro, cosí preferivano chiuderli e aspettare. Cosa, non lo sapevano neanche loro. Con un'agilità insospettata per quel suo corpo dallo stomaco enorme, Niki Cannone entrava da una finestra o da una cantina alla caccia di qualunque oggetto potesse trovarci dentro. Mobili, quadri, documenti, lettere, statue, ex voto, che poi rivendeva la domenica nei mercatini dei dintorni, o a qualche antiquario senza scrupoli.
A primavera, quando le notti diventano piú miti, andava per tombe. Batteva
la zona da solo o in compagnia
di qualche complice improvvisato, con tecniche infallibili
ereditate non si sa da chi, precedendo immancabilmente
la Sovrintendenza, spaccando, saccheggiando e rovinando, distruggendo tesori
archeologici per un guadagno a volte irrisorio, trattando vasi greci e antichi
reperti con la stessa rapace disinvoltura con cui maneggiava una lepre morta.
Quando i carabinieri di Gravina erano andati a cercarlo in paese, a casa della madre ottantenne da cui viveva, non l'avevano trovato. La donna era piccola e rinsecchita, ma ci stava ancora molto bene con la testa. Doveva essere abituata alle malefatte del figlio. Aveva giurato che non sapeva dove fosse, da diversi giorni non lo vedeva, e quando se ne andava non è che rendeva conto a lei, oppure lasciava l'indirizzo, che poteva tornare fra un giorno, o una settimana, o mai piú, che siamo tutti nelle mani di Dio. Insomma non c'era stato niente da fare. Forse Niki Cannone aveva saputo quello che era successo, la morte del ragazzo, e il proseguire delle indagini, ed era corso ai ripari per non farsi trovare, magari era stato l'avvocato stesso ad avvertirlo. Adesso, se per esempio se n'era andato in Germania, dove aveva dei parenti, oppure in Albania, approfittando di qualche connection del contrabbando, chi lo trovava piú? Avevano diramato la segnalazione, inizialmente senza risultati, fin quando, indagando in loco, era venuto fuori che stava nascosto in una piccola masseria abbandonata, sulla Murgia, dove aveva fatto il suo quartier generale. Cosí quella mattina andarono a cercarlo, Imma, Calogiuri, un maresciallo e due carabinieri del nucleo tutela dei beni artistici. In un silenzio pensoso, ancora impastato di sonno, presero la strada provinciale che da Gravina porta verso Altamura, poi di li si inoltrarono, attraverso sentieri sempre piú piccoli e disastrati, verso la Murgia. I campi di grano si srotolavano in un trionfo di verde, interrotto qua e là dal grigio dei sassi coperti di licheni. Piú andavano avanti, piú guardava, piú Imma si rendeva conto che quei campi non erano quello che sembravano. Da quando l'Unione Europea aveva stanziato dei fondi per trasformare i pascoli in coltivo, malgrado la Murgia fosse territorio tutelato, e si commettesse reato cambiandone la destinazione, molti proprietari di appezzamenti che si trovavano in quella zona avevano affittato una tritasassi per frantumare il terreno pietroso, tradizionalmente destinato al pascolo, addizionarlo di fertilizzanti e ricavare un sedimento coltivabile. Il grano che cresceva li sopra era cosí stentato che manco lo raccoglievano, ma a loro non importava: andava bene per le fotografie aeree, che servivano a intascare le sovvenzioni. Qui appena c'è un po' di tempo ci facciamo un bel giretto e voglio vedere, pensava Imma fra una cosa e l'altra, anche se il territorio poi alla fine non era di sua pertinenza. I falsi campi di grano somigliavano in tutto e per tutto ai veri, e solo un occhio allenato avrebbe potuto distinguere la differenza a causa della diversa altezza delle spighe in relazione al periodo dell'anno, e anche alla tipologia, che non era quella in uso nella zona. Un vento limpido, di maestrale, le faceva chinare conferendo al paesaggio un movimento quasi cinematografico, drammatico ed energetico come un quadro futurista. Imma pensò che li in giro, nella regione, niente era mai come sembrava.
Nemmeno il caso di quel ragazzo, che un po' alla volta
si stava allargando come la smagliatura di una calza.
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