Copertina
Autore Grazia Verasani
Titolo Tracce del tuo passaggio
EdizioneFernandel, Ravenna, 2002 , pag. 126, dim. 140x200x8 mm , Isbn 978-88-87433-28-9
LettoreElisabetta Cavalli, 2003
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Fanny del bar



Fanny del bar non so perché la chiamassero così. Fatto sta che nessuno la chiamava soltanto Fanny, aggiungevano sempre "del bar" e senza mai specificare quale. In quartiere di bar ce n'erano parecchi e lei passava dall'uno all'altro a seconda di chi le faceva credito.

La prima volta che le ho parlato era seduta a un tavolino in onice del bar Capitol, con gli occhi cerulei contro la vetrata e un bicchiere di vino bianco in mano. Aveva capelli grigi dalle punte bionde, capillari rotti agli angoli del naso e sotto gli occhi borse pesanti più simili a valige; un foulard firmato, sfilacciato ai bordi, le nascondeva parte del mento.

Guardava fuori, ripetendo a bassa voce: «Il tempo vola». Mi sedetti accanto a lei e le offrii una Diana.

«Gli avrei dato il doppio di qualunque altra donna», mi disse.

Ripeté questa frase due o tre volte.

Poi cominciò a farneticare di un pescatore di Comacchio, di un giocatore di biliardo e del batterista di un'orchestra di liscio. Si confondeva, passando dall'uno all'altro, e facendo nomi come Oreste, Leone, il Capitano, tutti sposati e con figli già grandi o forse finiti da un pezzo al camposanto.

Difficile, per me, cavare fuori qualcosa di coerente dal bisbiglio rauco della sua voce impastata. Avrei voluto sapere chi dei tre le aveva fatto maggiormente nascere la voglia di scolarsi il mondo, ma dentro di lei il conto non tornava. Avrebbe dato il doppio di qualunque altra donna, se ne avesse avuta 1'occasione. Avrebbe dato il doppio, se ce ne fosse stato il tempo. E allora lui o loro avrebbero capito.

Finii di bere il mio cappuccino e schiacciai la Diana dentro un posacenere. Fanny del bar bevve l'ultimo sorso del suo vino scadente farfugliando qualcosa di incomprensibile. Dietro il bancone, il barista annuiva stancamente nella sua direzione, come se avesse ascoltato quel racconto confuso una serie infinita di volte; in sottofondo, una voce alla radio annunciava piogge e temporali in tutto il nord Italia.

La lasciai lì, col suo bicchiere vuoto e lo sguardo fisso sulla strada fredda. Fanny del bar guardava i passanti ad uno ad uno, in cerca di una valle di zanzare, di un magico torneo o di una vecchia balera. «Perché la memoria è un vento» biascicò stringendosi alla gola il suo foulard, «e il vento fa venire mal di testa». Quindi si alzò dal tavolo e ordinò da bere.

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Pagina 30

Smile



Lo chiamavano Smile, quando era un ragazzo, per via del suo sorriso largo che sfoderava anche nelle occasioni malinconiche, quasi eroicamente. Aveva capelli lunghi, occhi scuri, e 1'aria di un vincitore che lascia il premio lì dov'è, senza portarselo a casa.

Tutto gli riusciva facile: l'università, gli amici, le ragazze. Parlava sempre di Che Guevara che aveva dedicato la propria vita alla religione dell'utopia, che era vissuto in una solitudine infinita che si chiama rivoluzione, fedele fino all'ultimo alla sua causa, così come Fonseca, Castro, Luther King e molti altri ancora. Appena apriva bocca, Smile contagiava di idealismo ogni cosa; diceva che bisogna vivere più col cuore che con la mente e che una vita senza passioni è una vita arida.

Anni prima, aveva vissuto per un po' di tempo in Argentina; a Buenos Aires aveva parenti liguri che vivevano lì da tre generazioni. Me lo disse la prima notte che dormii a casa sua, facendomi sentire i dischi di Carlos Gardel e parlandomi di donne che avevano il tango nel sangue, di strade piene di gatti magri, di vecchi bevitori di mate sotto il sole cocente e di ragazzi che calciavano un pallone sognando di emulare Maradona. Avrebbe voluto vivere lì, un giorno, nel quartiere La Boca o vicino al cimitero della Chacarita, mi disse. Ma il suo destino era segnato da un padre dentista e dai suoi esami di odontoiatria. Disse anche che Alberto Olmedo, il comico più amato in quel paese, un giorno si era stufato di far ridere e si era buttato giù da un balcone. Ricordo che in quel momento pensai al suo sorriso, chiedendomi che fine avrebbe fatto.


Smile faceva veri e propri comizi e diceva che sul materialismo, la tv, la Jacuzzi, Miss Italia e l'America lui ci sputava sopra; diceva che bisognava ribellarsi contro l'establishment, rivendicare i valori della giustizia e della libertà, leggere Marx e Marcuse. Conosceva le massime di Mao, i libri di Sartre, di Freud, il cinema francese e la poesia della beat generation. «I sogni sono legittimi» diceva «e i dubbi rallentano la corsa. Dov'è scritto che non si arriva mai là dove si vuole arrivare?». Come tutte le ragazze del nostro gruppo, me ne innamorai: Smile aveva l'autonomia sorniona di un gatto che contempla il mondo da un muretto quartierale e, sulla faccia, aveva scolpito quel "Why not?" che accompagna i viaggiatori curiosi e pieni di risorse che non si precludono il futuro, qualunque esso sia.


La nostra storia durò un paio d'anni, anche se in realtà fu molto meno il tempo che trascorremmo insieme. Smile aveva sempre altro da fare, cose più importanti: voleva cambiare il mondo, e l'amore poteva aspettare. Era bello, nervoso e irresistibile, così preferii mettermi da parte e lasciarlo al suo destino di leader.

Per qualche anno capitò che ci si incontrasse a una manifestazione di piazza o a un volantinaggio davanti a una fabbrica o a una Coop. Poi io mi chiusi in casa a studiare (ero iscritta alla facoltà di architettura), mi laureai, mi fidanzai, mi sposai, divorziai. Insomma, persi le sue tracce.

L'ho incontrato ieri, dopo quindici anni, alla fermata dell'11 bis. Stempiato. Trascurato. Con un sorriso caricaturale. È stato lui a riconoscermi. Mi era rimasta una sola sigaretta nel pacchetto e allora abbiamo fatto a metà, passandocela tra una chiacchiera e 1'altra. Oggi fa il dentista, è sposato e ha due figli. Il più piccolo gioca con la playstation e il più grande sogna di diventare un pirata informatico. Sua moglie passa il tempo nelle beauty farm e tra loro le cose non vanno molto bene. Alle ultime elezioni non è andato a votare, così come non è mai più tornato a Buenos Aires.

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Pagina 106

Delle notti che piove



Stropiccia la carta sbiadita di una vecchia foto, il volto sorridente di una donna. Ecco gli unici oggetti dove il tempo ci ferma per sempre, pensa: le fotografie. Nel grande magazzino dei saluti, in quella soffitta caotica che è ormai la sua memoria, Valerio Traci, scrittore di sessantaquattro anni, trattiene senza fare fatica solo il sorriso di Giovanna.

Si guarda le mani venose e le dita macchiate di nicotina. Cosa sono due mani che non possono più accarezzarla? Che valore hanno? Qual è la loro utilità? Le sue mani continuano a toccare: tazze, bicchieri, libri, le maniglie delle porte, la polvere sui soprammobili, i pulsanti degli ascensori, gli scontrini dei bar. Ma da trent'anni tutto ciò su cui quelle mani si posano non ha più importanza.


La sua ultima moglie ha arredato la casa con mobili moderni in metallo cromato e acciaio; pelle dappertutto, cineserie e lampade a stelo. È una casa nuova e fredda, dai muri bianchissimi e dalle grandi finestre. Una casa senza segni, senza ferite, come una pancia senza smagliature. A dire il vero, un segno c'è: una vecchia ciotola di Dante, il labrador che la sua ex moglie si è portata via una mattina di aprile. Si sono guardati a lungo sulla soglia, lui e il cane. Dante aveva l'aria di un bambino che avrebbe preferito stare con il padre, ma vallo a spiegare a una donna che ha deciso che tu non meriti altro che la solitudine...


Valerio Traci ha i polmoni doloranti e persino sputare gli costa uno sforzo; trae il muco dal profondo del petto e scatarra dentro il lavandino. Fumare e scrivere, per lui, sono sempre state due azioni strettamente collegate.

Si guarda allo specchio rotondo del bagno, con una mano sulle piastrelle di ceramica bianca. La finestra a bovindo dà su un cortile pieno di lenzuola stese ad asciugare, il cielo nuvoloso annuncia la pioggia e il vento fa cadere precari vasi di piante dalle balconate. Guarda la notte, tossendo. A sessantaquattro anni il dolore è dolore. Non cambia. Prendi medicine quando aumenta. Per il resto, la vita è un'emozione superata.

Riguarda quella foto. Il lavoro di trent'anni nasce tutto da lì.

Una vita piena - di successi, di donne, di figli mai riconosciuti - è finita in un angolo, in ombra, ritirata come una maglietta dopo un lavaggio sbagliato. Seduto per terra come un ragazzino, mentre la pioggia batte contro i vetri, Valerio Traci si toglie gli occhiali per sfocare il sorriso di quella donna. L'ho amata davverro?, si chiede.

Giovanna. Giovanna in gita a Lugano. In bocca, un sapore amaro di Svizzera fondente. Il portiere di notte se 1'era mangiata con gli occhi; alla tv dell'albergo, quella sera, davano un film con Raf Vallone. Seduto sul divano liberty della sala-ristorante, la guardava, di schiena, suonare al piano La danse d'Anitra di Grieg e aveva il cuore gassato come una bibita.

Camminava per strada sotto un acquazzone, l'ultima volta che l'aveva vista, coi capelli neri di una cambogiana fradici sul gabardine chiaro, l'andatura introversa e le mani bianche come tuberose. Così la ricorda. (O meglio, così nei suoi romanzi l'ha descritta.) De L'incantatore di asteroidi, il suo primo romanzo, Giovanna è stata l'ignara protagonista. Traci ripensa alle parole di un libro: «Un'assenza costante, il vuoto lasciato da qualcuno, ha riempito la mia vita più di qualsiasi altra cosa». È esattamente così che si sente, anche se quelle parole non le ha scritte lui.

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