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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE - Questo libro 11 PARTE PRIMA - Le premesse 1.1 L'ebraismo e le esperienze storiche di comunità politica prima della nascita dello Stato d'Israele 25 L'ebraismo biblico e storico: dall'unione alla dispersione 25 Comunità ebraiche, stati nazionali e diaspora 31 La condizione diasporica: una nazione senza stato? Un popolo senza società? 37 1.2 Il sionismo come moderna ideologia politica 42 Gli statuti imperfetti: il superamento delle interdizioni israelitiche e i suoi problemi 42 Le premesse al sionismo politico 47 La nascita del sionismo politico come fenomeno proprio dell'età del «nazionalismo romantico» 54 1.3 L'ebraismo europeo a cavallo tra due secoli 63 L'Europa centrale e occidentale 63 La specificità dell'Est europeo 65 Tra sionismo e socialismo 70 Il sionismo ad Est 73 PARTE SECONDA - Il percorso 2.1 Il sionismo territorialista 79 L'evoluzione del pensiero e dell'azione sionista 79 Le aliyòt nella loro successione storica 85 L'esperienza delle aliyòt: migrare per rinascere 87 Lo sviluppo delle istituzioni ebraiche negli anni della Palestina mandataria 90 I criteri di colonizzazione 99 2.2 L'yishuv come laboratorio politico 105 L'ideologia di base del sionismo politico palestinese 105 Il pionierismo e l'autodifesa 112 Il controllo del territorio e la sua trasformazione: il socialismo collettivista dei kibbutzim e il ruralismo spartano dei nahallim 118 «Un popolo senza terra per una terra senza popolo» 123 L'ideologia dell'«uomo nuovo» 130 2.3 Gli anni del Mandato britannico 137 La Palestina mandataria 137 L'evoluzione del movimento sionista dagli anni Venti agli anni Quaranta 143 I sionisti, la Shoà e la guerra 147 PARTE TERZA - Le conseguenze 3.1 Gli anni del travaglio e dell'indipendenza (1946-1949) 157 La lotta contro i britannici nella Palestina postbellica 157 Il travaglio 162 La nascita 170 Il 1949: un primo bilancio 176 La difficile attuazione del principio di eguaglianza in Israele: il caso degli arabi israeliani 183 3.2 Gli anni della costruzione di una identità nazionale (1950-1961) 189 Gli anni Cinquanta 189 La sfida di Nasser e la guerra del Sinai 193 La «Legge del Ritorno» e il dibattito sulla cittadinanza: chi è ebreo e cosa implica l'esserlo? 196 I fondamenti giuridici del nuovo Stato 202 La "scoperta" della Shoà 207 3.3 Gli anni del consolidamento (1961-1967) 214 1963: l'uscita di scena di Ben Gurion 214 L'evoluzione del sistema istituzionale israeliano 217 Il fenomeno migratorio e le trasformazioni sociali del paese 223 La nascita e lo sviluppo dell'Olp 232 3.4 Gli anni dell'affermazione (1967-1973) 237 La guerra dei Sei giorni, la conquista della Cisgiordania e di Gaza e la nascita del fenomeno degli insediamenti ebraici 237 Da Nasser ad Arafat: i tornanti della politica araba 250 Un monopolarismo imperfetto: il sistema partitico in Israele prima del 1977 254 L'economia e la politica degli investimenti occidentali nel paese 260 La presenza «orientale» e l'antisemitismo arabo 265 Israele, gli ebrei e l'Urss: la questione dei refuznik e le politiche migratorie sovietiche 271 3.5 Gli anni della trasformazione interna (1973-1977) 278 La guerra di Yom Kippur e i suoi effetti militari, politici e umani 278 Il petrolio e l'Opec 283 Il declino laburista e l'affermazione di Begin 286 L'affermarsi degli insediamenti come questione politica: la nascita del Gush Emunim 292 La separazione di Sadat dall'Urss e la visita a Gerusalemme (19 novembre 1977) 296 I fedajin e il terrorismo dell'Olp: la seduzione terzomondista del guevarismo mediorientale 300 3.6 Gli anni della pacificazione armata e della stabilizzazione territoriale (1978-1982) 306 La destra al governo 306 Gli accordi di Camp David: la pace della destra 317 Dopo Camp David: il mondo arabo e la successione di Mubarak a Sadat 319 Gerusalemme «capitale indivisibile» (Legge fondamentale dell'agosto 1980) e l'annessione del Golan (1981) 322 3.7 Gli anni della "palestinesizzazione" del conflitto con gli arabi (1982-1995) 325 Il decennio inquieto 325 L'operazione «Pace in Galilea» e la guerra in Libano 330 Gli effetti sull'Olp e in Israele 334 La prima intifada 339 L'ultima grande immigrazione: gli ebrei russi 344 I rapporti tra Usa e Israele 350 Il Medio Oriente degli anni novanta: la guerra del Golfo 358 La nascita e la crescita dell'islamismo radicale nei territori palestinesi: Hamas, Jihad islamico e Hezbollah 360 La politica di Shamir e l'avvio dell'epoca negoziale 368 1992: il ritorno al governo dei laburisti di Rabin 371 Oslo I e Oslo II 374 L'assassinio di Rabin 378 3.8 Gli anni della globalizzazione del paese (1995-2006) 381 Israele nel mercato mondiale che cambia: gli effetti di lungo periodo sull'economia nazionale 381 1996: il ritorno al governo del Likud con il nuovo sistema elettorale 387 La sinistra e la destra israeliane negli ultimi dieci anni: le trasformazioni del «campo della pace» e del «campo nazionale» 392 Il dilemma tra sicurezza e giustizia: gli insediamenti ebraici da risorsa a problema politico 396 La politica negoziale con i palestinesi del dopo Oslo: Wye Plantation 403 L'"etnicizzazione" del voto e la vittoria di Barak 406 Il fallimento di Camp David 410 L'intifada al-Aqsa e l'extrema ratio di Taba 412 La vittoria di Sharon, il terrorismo dei kamikaze e la logica di morte dei "martiri" 416 La morte di Arafat e le trasformazioni in campo palestinese 422 Sharon e i palestinesi 427 L'Israele del dopo Sharon 430 La minaccia iraniana e la «seconda guerra del Libano» 435 L'amministrazione Bush e il «nuovo Medio Oriente», il terrorismo e Israele 440 3.9 Gli anni a venire e le questioni aperte (oltre il 2006) 445 Ciò che unisce e quel che divide in Israele: esiste un carattere nazionale israeliano? 445 «Nuovi storici» o «revisionisti»? Israele allo specchio della sua storia 453 Miti storici? 457 Israele, la sinistra e la destra in Italia: seduzioni, tradimenti e fraintendimenti 460 In conclusione: l'unicità di Israele 468 Bibliografia ragionata 471 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Non sono mai stato sionista poiché non mi sono mai sentito ebreo [...]. Ma io sento più chiaramente di ieri che l'eventualità stessa della distruzione dello Stato d'Israele mi ferisce al fondo del mio spirito. Da questo punto di vista, riconosco che un ebreo non perverrà mai alla più perfetta obiettività quando è in gioco Israele. [Raymond Aron]Un giorno, poco prima di iniziare un dibattito pubblico sul tema del conflitto israelo-palestinese, il mio correlatore, caro amico nonché affermato docente di storia contemporanea, chiamandomi da parte mi disse: «Ti chiedo poco spazio per la mia comunicazione. Lascio a te la trattazione dei dati e dei numeri. Mi riservo solo pochi minuti per alcuni giudizi». Capii allora, se ne avessi ancora avuto bisogno, qual è l'approccio corrente in Italia al conflitto in questione e, segnatamente, ad Israele: non si studia né l'uno né, soprattutto, l'altra, poiché non occorre conoscere ma, piuttosto, giudicare. Questo libro nasce quindi da una constatazione piuttosto amara: si sa ben poco dello Stato d'Israele. E con esso del suo popolo e della sua storia. L'Italia difetta di opere di studio e divulgazione su una comunità politica e sociale costantemente richiamata nel dibattito pubblico, ma assai poco conosciuta nella sua concreta fisionomia storica e culturale. Molti pensano di essere in diritto di poter dire cosa fare per risolvere il conflitto con i palestinesi, nessuno sa con chi ciò dovrebbe essere fatto. Più banalmente, forse a nessuno interessa. Le pagine che seguono, quindi, pur nella inevitabile sommarietà e sinteticità che le contraddistinguono, intendono costituire una sorta di manuale per quanti vogliano comprendere qualcosa di più al riguardo. Non ambiscono a mettere una parola definitiva rispetto a qualcosa che, per sua stessa natura, è in costante evoluzione, bensì fare qualche riflessione e avanzare alcune considerazioni nel merito di questa stessa evoluzione. A tale riguardo è, forse, più facile dire che cosa tale libro non è o non vuole essere. Non si tratta dell'ennesima opera sul conflitto israelo-palestinese della quale, in tutta onestà, l'autore non sente il bisogno, essendosi già cimentato in tale sforzo. Semmai, alla base di questo lavoro c'è la consapevolezza, maturata nel corso degli anni, che sussiste in quella vicenda così dolorosa una asimmetria – non l'unica – tra il ridondante ripetersi, in sé ritualistico, di storie del conflitto e l'assenza di storie dei protagonisti dello stesso. Si parla molto del primo sapendo poco o nulla dei secondi. Almeno in Italia. Il paradosso è che se in un caso l'eccesso di narrazione si è trasformato in una cristallizzazione mitografica del confronto tra i due soggetti della contesa, israeliani e palestinesi per l'appunto, nell'altro il difetto li rende evanescenti, sostituendo ai protagonisti in carne ed ossa delle semplici raffigurazioni, al limite del macchiettistico. Si provi a indagare su quali siano le idee prevalenti al riguardo e si avrà modo di scoprire un piccolo universo di tragiche banalità, di luoghi comuni e di cliché che si trasformano in solidi pregiudizi. A partire dal convincimento che Israele sia il prodotto di un esproprio politico consumatosi a danno di uno stato palestinese che gli sarebbe preesistito e del quale avrebbe cancellato ogni vestigia. La percezione prevalente nell'opinione pubblica italiana è che, comunque la si voglia mettere, le scelte fatte da questo Stato siano il prodotto di una serie di manomissioni e di furti. Di qui ad affermare l' abusività storica e politica di Israele il passo è, obiettivamente, breve. E viene fatto, senza particolari rimorsi, da molti dei critici, interessati non tanto alla opinabile politica delle sue leadership quanto all'aspetto della legittimità dello Stato tout court. Ancora una volta, quindi, ritorna la questione di fondo che ha ispirato questo libro: poiché ad essere messo in discussione è il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele, una comprensione piena e compiuta della sua necessità storica e del suo fondamento morale ed etico richiede una riflessione sulla natura di questo paese. Nella sua spoglia essenzialità. Così simile e così diverso dall'Italia, con la quale condivide alcune affinità e reciprocità profonde. C'è un'altra questione che accompagna queste pagine. Israele è il prodotto di una esperienza politica, culturale e sociale dipanatasi nel corso del Novecento. Secolo del quale racchiude in sé, nel suo modo di essere e presentarsi all'osservatore, molti aspetti e diverse peculiarità. Una sorta di catalogo del modernariato culturale e politico, in buona sostanza. Conclusosi il secolo, non solo per ovvio riscontro cronologico ma anche per l'esaurimento di quel sistema di relazioni internazionali che fino al 1989 erano state dominanti, ed essendosi aperto il tempo della globalizzazione, dei mercati come delle società, è legittimo chiedersi quale sia il suo destino. Così pervicacemente legato alla sua breve ma intensa storia, ai caratteri che vorrebbe unici, nel mentre l'intero pianeta è sottoposto ad una sorta di ibridazione dove tutti i confini paiono essere divelti. Poiché la storia d'Israele, prima ancora che divenisse stato, quand'anche era solo idea, è lo sforzo per definire e costruire dei confini, materiali e simbolici. Per delimitare, in chiave non esclusivista bensì autoprotettiva, uno spazio nel quale edificare le proprie istituzioni, morali, culturali, politiche e sociali. Tutta la storia dell'ebraismo diasporico ruota intorno ad una nostalgia, in fin dei conti assai poco romantica, per la perdita di qualcosa che è stato per molto tempo inteso come irrecuperabile; nel mentre andava affermandosi, di pari passo, la ricerca di una condizione, prima ancora che di un luogo, dove non si fosse fatti oggetto delle secolari persecuzioni. La perdita dell'indipendenza politica, trasfigurata nelle infinite narrazioni, nei costrutti e nei costumi della tradizione, è un lutto che rimane drammaticamente inelaborato fino alla costituzione, nel 1948, del nuovo Stato. Il quale non risolve, semmai rendendoli ancora più complessi, i rapporti tra la diaspora e quel che si candida ad essere il centro della vita ebraica. Riflettere su Israele, quindi, implica ragionare anche su come si sia evoluta e trasformata la coscienza di sé dell'ebraismo in un secolo, il Novecento, in cui la Shoà ha messo a repentaglio la continuità stessa dell'esistenza delle comunità. La dialettica tra Sion e galut è accesa e non sempre di facile comprensione. Indagare su tale aspetto vuol dire tenere nell'opportuna considerazione la dinamica tra il centro gerosolimitano e le molteplici "periferie" dell'ebraismo, disseminate un po' per tutto il mondo. In realtà non esiste una Israele a sé, chiusa in una autistica autoreferenzialità, così come abitualmente la descrivono, invece, i suoi detrattori. Se c'è al mondo un paese "poroso", ovvero estremamente sensibile alle sollecitazioni provenienti dall'esterno, questo è lo Stato degli ebrei. Poiché è nella sua natura esistere in ragione di questo continuo scambio tra interno ed esterno, tra l'insediamento autoctono e il collateralismo delle comunità ebraiche mondiali e la dialettica con i non ebrei. Un paradosso, che si aggiunge a quelli che già abbiamo segnalato, è quindi nella sua radice intrinseca di "società diasporica", nella quale, malgrado il consolidamento effettivo delle istituzioni, in quasi sessant'anni di esistenza, la percezione della transitorietà dell'esperienza statuale è ancora molto marcata. Non solo l'ebraismo di duemila anni di esilio interviene in ciò, identificando nell'atto del migrare la radice stessa della vita. La vicinanza a paesi ostili o, comunque, estranei e avversi marca molto la condizione dei sentimenti collettivi e il modo in cui essi si riflettono sulla quotidianità. Israele, da questo punto di vista, pare sospeso tra il desiderio di continuare ad esistere, come società tra le nazioni, e la paura di essere disintegrato, in quanto paria delle medesime. Le politiche quotidiane intraprese dal 1948 ad oggi dalle diverse coalizioni e dai governi che si sono succeduti alla guida del paese rispondono all'imperativo di riuscire a raggiungere una qualche "normalità". Un imperativo tanto implicito quanto fortemente radicato. Si tratta di una lotta per esserci. Ed è questo, in fondo, uno dei più importanti aspetti dell'ebraicità di Israele, laddove il passato si raccorda al presente: la memoria del male subìto si confronta con la transitorietà degli ordinamenti umani e con le minacce incombenti contro di essi. In questo viluppo di legami e relazioni, la cui complessità viene spesso erroneamente interpretata come un indice di dipendenza e di mancanza di autonomia d'Israele, al punto da parlare d'essa come di uno «stato rentier», le simbiosi con altri paesi, dalla storia non meno peculiare, sono assai marcate. Certamente sussistette, fino alla fine degli anni Sessanta, uno specifico quanto incompiuto rapporto con la Germania, la nazione dove all'emancipazione più promettente si accompagnò, per gli ebrei, l'assassinio di massa nei campi di sterminio. Un legame intellettuale forte, che informò di sé, influenzandola profondamente, la leadership laburista. Concorrendo a fare in modo che nei primi venticinque anni di esistenza del giovane Stato le sue istituzioni fossero depositarie di un calco culturale derivato anche dall'esperienza tedesca. Altro discorso, a tale riguardo, andrebbe invece fatto per la cultura politica prevalente, depositaria di molte dalle suggestioni maturate nell'Est europeo tra la seconda metà dell'Ottocento e la Rivoluzione d'Ottobre, dal populismo tolstoiano al collettivismo di matrice soviettista. Sul piano del diritto il debito verso il sistema anglosassone di Common Law è non meno palese. Così come l'assunzione di modi di dire, fare e pensare derivati dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Il tornante che si consumò tra il 1967 e il 1973, invece, rappresentò una vera e propria frattura i cui effetti si misurano a tutt'oggi. Non è un caso se è in quegli anni che si pongono le premesse per l'ascesa di un nuovo gruppo dirigente, orientato a destra, estraneo all'humus culturale e all'ethos del sionismo laburista. E non è casuale neanche il manifestarsi, progressivamente, di quel rapporto elettivo con gli Stati Uniti, destinato a segnare le politiche israeliane una volta per sempre. Ci si soffermerà, nel prosieguo delle pagine, su questi passaggi, poiché sono capitali per la comprensione della radice più intima della comunità politica israeliana. Si deve evitare, a questo punto, una tentazione comprensibile ma inaccettabile: la storia d'Israele non è riducibile a quella dell'antisemitismo, anche se quest'ultimo ha sempre condizionato le scelte, le logiche e le condotte delle sue vittime, gli ebrei. Israele non è nata come riparazione, da parte del mondo occidentale, alla tragedia della Shoà. Non è l'altro piatto nella bilancia dello sterminio. Se la coscienza delle persecuzioni è un pilastro nella cognizione di sé dell'israeliano medio, se la vigilanza contro l'antisemitismo è una delle missioni che la nazione si è data, sul piano storico non si dà un nesso immediato – di causalità –, tra gli eventi dolorosi e poi catastrofici della prima metà del Novecento europeo e il processo di national building che accompagnò, fino al 1948, l'insediamento ebraico nella Palestina mandataria. Da questo punto di vista la vocazione originaria del sionismo di offrire una patria ai senzapatria, per carpirli alla morsa dell'antisemitismo, divorzia dalle ragioni proprie ad uno Stato che nasce come completamento di un processo di unificazione politica e culturale già in corso dalla seconda metà dell'Ottocento. Processo che si alimenta anche della reazione alle persecuzioni, ma che trova in sé la sua ragion d'essere. Non di meno di quanto si possa dire di tanti altri processi di costituzione delle nazioni in epoca contemporanea. Israele non è il prodotto delle violenze antisemitiche ma il risultato di un percorso di emancipazione che porta una parte degli ebrei a pensarsi in termini di collettività a sé, quindi sovraordinata rispetto alle società nazionali d'origine. È un passaggio complesso, quest'ultimo, in linea con i fermenti che animavano le nazioni europee a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Anche su di esso si avrà modo di tornare. Il problema, sul versante storiografico, è semmai quello di riuscire a capire la sottile ma tenace trama che lega la necessità di uno stato per gli ebrei, nell'età dei nazionalismi, alle azioni contro gli ebrei. Tenendo però separate le dinamiche proprie al costituirsi, successivamente, di una identità israeliana rispetto alle molteplici identità ebraiche, europee e non, che ad essa preesistevano e che non sono venute meno. Come si avrà avuto modo di osservare già da questi primi passi, la questione in oggetto delle nostre riflessioni è complessa e assai meno lineare di quanto non possa apparire ad uno sguardo di superficie. Esiste un solo modo per venirne a capo, ossia ragionando su questa storia per tornanti, identificando e definendo quali sono le fratture critiche a partire dalle quali quel che fu si trasformò in quel che è riuscito a divenire (e che noi oggi conosciamo). È l'unico modo per offrire una periodizzazione di senso alla storia dello Stato di cui andiamo occupandoci, inserendola dentro una intelaiatura concettuale di fatti i cui riflessi si sono estesi ai decenni successivi. Il filo rosso della narrazione prende avvio dal 1881, quando all'assassinio dello zar Alessandro II segue un lungo periodo di violenze e di espulsioni degli ebrei dalla Russia. Un secondo passaggio è il 1894, con l'esplosione dell' affaire Dreyfus, che segna l'affermarsi dell'antisemitismo moderno. Il terzo tornante è costituito dal 1897, con il primo congresso sionista, a Basilea, e la costituzione del Bund, l'Unione generale degli operai ebrei di Lituania, Polonia e Russia, la prima grande formazione politica, di area socialista, stabilmente radicata nei luoghi dell'ebraismo ashkenazita. Se fosse sopravvissuta a Stalin e a Hitler, con tutta probabilità avrebbe conteso l'egemonia della rappresentanza politica e culturale degli ebrei al sionismo. Il quarto transito è il 1917, anno sia della Rivoluzione russa che della Dichiarazione Balfour. Se la prima costituisce un fattore di identificazione e mobilitazione delle coscienze nel proletariato ebraico dell'Europa orientale, la Dichiarazione è il primo attestato di riconoscimento che il rappresentante di un governo occidentale offre alle istanze del movimento sionista. A seguire, ancora, il periodo nazista, tra il 1933 e il 1945. Oltre che per lo sterminio, esito ultimo di un antisemitismo inedito nella sua radicalità ideologica ed operativa, gli anni di Hitler e dei fascismi europei vanno ricordati per la decadenza dei diritti derivante dalla consunzione delle democrazie liberali, che si riflesse sulle comunità ebraiche nei tragici termini di una estromissione dall'esistenza civile e sociale, non solo in Germania. Fino alla perdita della vita. Il sesto momento rilevante è il 1948 e gli anni che lo precedono e che lo seguono, con la fondazione dello Stato d'Israele e la trasformazione del confronto con le popolazioni arabe in un conflitto a tutt'oggi ancora irrisolto. Due decenni devono trascorrere, tra alterne vicende, affinché si pervenga al 1967 quando, a seguito della conclusione vittoriosa della guerra dei Sei giorni e della conquista dei territori della Cisgiordania e di Gaza, Israele deve iniziare a confrontarsi con quello che, ben presto, diverrà il fuoco del problema: l'amministrazione di terre nella quasi totalità dei casi abitate da popolazioni arabe. Sono anni decisivi anche perché va formandosi una moderna identità palestinese e il confronto assume sempre di più la natura di contenzioso territoriale tra due comunità nazionali, quella israeliana e quella palestinese. Il 1973 si lega idealmente al 1967 nella misura in cui ne rappresenta il rovescio, innescando alcuni processi già presenti in fieri negli anni precedenti: la politica di occupazione dei territori palestinesi e la costruzione di insediamenti ebraici; la crisi della sinistra israeliana; il formarsi di un blocco politico e sociale alternativo a quello che fino ad allora aveva dominato la scena nazionale. Ed è infatti l'ottavo momento, in ordine di successione, culminante nel 1977, quello in cui si registrano gli esiti di questo processo. La vittoria della destra nazionalista del Likud segna il passaggio del testimone a quanti, per le più svariate ragioni, fino ad allora erano stati all'opposizione nel ma anche del sistema politico-istituzionale creato da Ben Gurion. Una prova assai difficile per la democrazia israeliana, i cui esiti non erano per nulla scontati. Un penultimo passaggio, il nono, è quello legato agli anni della prima intifada, tra il 1987 e il 1993, quando le tensioni con i palestinesi avviano un robusto, a tratti sofferto, dibattito in Israele. Sono anche i tempi in cui la protesta violenta da parte di alcuni tra questi si trasforma in un nuovo rifiuto d'Israele, quello espresso dal lievitante fondamentalismo islamico. Ultimo momento storico è, infine, il 1995, quando nel novembre di quell'anno viene assassinato il premier Rabin. A partire da quell'evento si avvia una fase, ancora aperta, i cui esiti sono tutti da misurare. Questo percorso, in dieci tappe, suddivise ancora in singoli passaggi, come già si è detto, costituisce l'intelaiatura dentro la quale collocheremo il nostro ragionamento sulla storia, ma anche nel merito delle ragioni, dello Stato d'Israele. L'obiettivo è quello di offrire uno sguardo in grado di cogliere il pluralismo della comunità nazionale. Di contro alle retoriche dell'«altra Israele» – quello che a detta di certuni sarebbe l'autentico paese, eternamente all'opposizione, anche di se stesso, avverso all'Israele "ufficiale" – il libro vuole ragionare sulla molteplicità identitaria che connota l'esperienza di quella società. L'immagine di un monolite, condivisa assai comunemente da coloro che non lo conoscono, si sfalda velocemente se si studiano le dinamiche che ne hanno contrassegnato la storia. Le guerre hanno pesato molto in questi sessant'anni. È quindi inevitabile che concorressero a definire i tratti peculiari del paese. Tuttavia sarebbe una narrazione parziale quella che volesse soffermarsi solo sul loro susseguirsi, scandendo il percorso di una società attraverso la mera cronologia bellica. Una immagine ricorrente, e fuorviante, è quella che dipinge Israele come "stato guerriero". Nello scenario internazionale il suo posto è quello che si assegna a chi della guerra ha fatto, per triste necessità o per opinabile virtù, la sua ragione d'essere. Con una sorta di ribaltamento rispetto al passato, in ragione del quale gli ebrei – quanto meno quelli israeliani ma, per automatica associazione, anche quelli della diaspora – da comunità di vittime si sarebbero trasformati in popolo di combattenti. Una sorta di nemesi storica che se non garantisce giustizia senz'altro concorrerebbe a far vendetta dei torti subiti nei tempi trascorsi. L'idea militante che promana da questo rappresentazione è tanto seducente ed intrigante (o discutibile se non sgradevole, a seconda dei punti di vista) quanto fallace nella sua materiale inconsistenza. La retorica, profusa da molti critici interessati di un paese in cui le «vittime di ieri» sarebbero i «carnefici di oggi», è uno degli equivoci più diffusi e persistenti. Da ciò, infatti, deriva quello che è inteso come il peccato mortale d'Israele, ovvero il suo fondarsi sul ricorso alla spada, facendo sì che i palestinesi vivano «la tragedia di essere vittime delle vittime». Bel gioco di parole, quest'ultimo, che dimentica volutamente qual è il reale contesto in cui il paese si è trovato ad operare dal momento della sua nascita, attribuendogli come colpa il fatto stesso di difendersi (quindi, ancora una volta, di esistere). Rinnovando poi uno dei cliché dell'antisemitismo tradizionale, quello che attribuisce alla vittima la colpa di essere responsabile della sua condizione di minorità. E, nel medesimo tempo, di essere in realtà anche il vero carnefice, mascherato, che sottilmente istiga alla sua persecuzione. Da ultimo, questo libro avrebbe ancora una aspirazione, quella di aiutare il lettore a capire che il mondo ebraico, non meno di quello israeliano, è stratificato e complesso, ben lungi, quindi, dal costituire una entità unitaria. Ma in questo repertorio di desiderata si va oltre i ragionevoli limiti sia di una introduzione che di un libro. Basti terminare queste prime pagine con l'invito, l'ultimo in ordine di successione, a leggerlo come un viaggio in una delle storie del Novecento, a modo suo anche secolo degli ebrei. | << | < | > | >> |Pagina 202I fondamenti giuridici del nuovo StatoGli anni seguenti alla fondazione dello stato sono anni di "edificazione". Esiste il prodotto storico di un percorso culturale, ideologico ma anche sociale e politico, che ha condotto dall'yishuv ad Israele. Poi c'è il tutto il resto, non sempre facile da definirsi. Questione non dissimile dal problema della sopravvivenza – e ad esso strettamente interconnesso – è, infatti, il tema annoso e spinosissimo dell'identità. Più Israele fortifica se stesso attraverso il compimento del progetto sionista, lo stato degli e per gli ebrei, più rivela l'incertezza sui propri caratteri, recuperando tutta una serie di quesiti di fondo che da sempre accompagnano la storia dell'ebraismo. In una società politica tanto più se originatasi dalla millenaria storia di una collettività dispersa che come fattore di autoidentificazione ha avuto sempre e solo la tradizione religiosa, è ineludibile la domanda sui rapporti, di per sé comunque non facili, tra istituzioni collettive e religione. Se le prime demandano alla sfera del pubblico, l'ambito dove si esprimono i diritti, gli obblighi e gli interessi della comunità, la seconda pertiene per sua natura ad una sfera privata, quella propria alle persone singolarmente intese. E, tuttavia, fin dalla sua nascita il paese vive la tensione tra l'essere Medinat Israel, lo Stato d'Israele inteso come insieme di ordinamenti legali e di istituzioni secolari, e Eretz Israel, la Terra d'Israele, concreta manifestazione di una vocazione all'unità che trova la sua legittimazione nella Torà e nella tradizione dei Padri. La tensione tra questi due estremi di un comune percorso avrà una rilevanza assoluta rispetto allo sviluppo istituzionale e sociale dal 1948 in poi. A seconda di dove cada l'accento, prevarrà una tesi di contro all'altra: stato degli ebrei, nel primo caso; stato ebraico, nel secondo. Obiettivo e fine per una collettività finalmente dotata di una giurisdizione politica, nel primo caso; strumento e mezzo, nel secondo, per la manifestazione di un disegno i cui fondamenti sono da ricercarsi in una dimensione che non è quella della politica in quanto tale. Lo Stato d'Israele è, da questo punto di vista, elemento di sintesi ma anche precipitato storico di una serie di discussioni interne al mondo ebraico che nella loro forza, a tratti dilacerante, non riescono ancora a trovare una risposta condivisa. Inevitabile, quindi, che nel suo concreto divenire Israele abbia incorporato la vivace contraddittorietà che è interna al modo di essere dell'ebraismo. La discussione pubblica sui caratteri dell'identità israeliana – ovvero sulla "israelianità" – sta dentro questo contenitore di significati di cui, peraltro, non è solo una passiva riproduzione. Alla base dell'esperienza israeliana c'è l'esigenza, in parte soddisfatta ed in parte irrealizzata, di procedere alla omogeneizzazione culturale delle diverse componenti socioculturali che si sono insediate, stratificandosi nella società locale, nel corso del tempo. Il problema dell'integrazione ha trovato una sua parziale risposta nel tentativo di dare vita ad uno specifico melting pot che trovasse nell'esercizio dei diritti di cittadinanza l'elemento di unione e di condivisione tra persone dalle radici e dalle storie così diverse. La funzione concreta di creare un collante è stata attribuita a quelle istituzioni nazionali, come la scuola e l'esercito, che ancora oggi sono lo strumento privilegiato per trasmettere l'ethos nazionale. Tuttavia le difficoltà riscontrate sono state molte. Da un punto di vista giuridico la definizione di identità è irrisolta dovendosi confrontare con due leggi coesistenti, quella del Ritorno e quella della cittadinanza, che istituiscono due diversi livelli di appartenza: il primo identitario e il secondo societario. La Legge del Ritorno definisce chi è ebreo in Israele, quella sulla cittadinanza determina chi è israeliano indipendendentemente dalle sue radici religiose, culturali ed "etniche". Si è membri a pieno titolo del paese, in un caso come nell'altro, ma con due percorsi distinti.
Questo duplice criterio esprime il conflitto che da sempre attraversa il
paese tra universalismo e particolarismo. Universalismo
della cittadinanza, ossia dell'appartenenza ad uno Stato, e particolarismo
dell'appartenenza ebraica.
Conflitto peraltro già adombrato dalla stessa Dichiarazione d'indipendenza,
laddove asserisce che lo Stato d'Israele «si baserà sulla libertà, la
giustizia e la pace secondo la visione dei profeti d'Israele; assicurerà la
completa uguaglianza dei diritti politici e sociali a tutti i suoi abitanti
senza pregiudizi per la religione, la razza e il sesso; garantirà la libertà di
religione, di coscienza, di lingua, di educazione e di cultura». Da un lato,
quindi, la libertà e la pace «come intese dai profeti d'Israele»; dall'altro
l'uguaglianza nei diritti, sprovvista di ulteriori qualificazioni e legami con
una specifica tradizione culturale [...].
[Alfredo Mordechai Rabello]
Alla questione della identità si riconnette il problema di un
paese di diritto moderno privo di una Costituzione scritta. Con
tale termine si intende un documento cartaceo che disciplina «tanto
la "garanzia dei diritti" che la "separazione dei poteri"», prodotto di una
elaborazione politica complessa, sottoscritto in tutte le
sue parti dai costituenti, collocato al vertice delle fonti del diritto,
modificabile solo grazie a procedure dettagliatamente prestabilite e
in base ad un'ampia maggioranza.
Già all'inizio dei lavori [della prima Assemblea parlamentare, nel
1948] apparve [...] evidente la difficoltà di trovare un accordo sui contenuti
della Costituzione, principalmente a causa della frattura esistente tra
componenti religiose e laiche della società israeliana. Netta era l'ostilità
alla Costituzione scritta da parte dei partiti religiosi (essenziali, fin da
allora, in uno scenario politico frammentato, anche in ragione di un sistema
elettorale perfettamente proporzionale, per la formazione di qualsiasi
maggioranza): un Carta dei diritti avrebbe comportato per questi il rischio di
una codificazione dei valori sionisti, un accresciuto potere dei giudici,
ritenuti espressione della cultura laica e, in definitiva, la perdita del
proprio potere di contrattazione.
[Giuseppe De Vergottini]
Di fatto, a fianco delle esigenze dei religiosi si esprimevano le concezioni, in parte convergenti, del gruppo politico più consistente, quello laburista, depositario di una idea della democrazia intesa come esercizio della volontà popolare in quanto volontà della maggioranza, non necessitante di un testo costituzionale di riferimento. All'ipotesi di una Costituzione scritta si sostituì, negli anni della stabilizzazione del giovane Stato, un insieme di leggi, Hukké Hayesod o Basic Laws (le «Leggi fondamentali»), destinate a costituire un vero sistema costituzionale (ma non una Costituzione) concernente le materie più rilevanti della vita d'Israele. Di fatto la loro produzione non è ancora terminata, essendo estremamente ampio il ventaglio di elementi disciplinabili.
Va da sé che il quadro giuridico, dentro il quale si definisce
l'identità dei cittadini così come la natura delle istituzioni pubbliche, non
abbia un valore puramente formalistico. Dal 1948 ad oggi
è stata l'arena dentro la quale si sono confrontati i principali protagonisti
della lotta per la definizione della cittadinanza e dell'appartenenza. La
Dichiarazione d'Indipendenza, così come le Leggi fondamentali, concorrono a
definire Israele come uno stato «ebraico e democratico». Di fatto il diritto
israeliano, ovvero la produzione giuridica degli organi democratici del paese, è
indipendente dalla tradizione giuridica ebraica, il
Mishpat ivrì
(il «diritto ebraico»), ossia il corpo di norme sviluppatosi dall'epoca biblica
ai giorni nostri. Se una parte di quest'ultimo, il
din Torah
(la «regola della Torà»), è stato pur acquisito dal diritto dello Stato
d'Israele, tuttavia la laicità delle sue istituzione è preservata per via della
rigida separazione che intercorre tra i due ordinamenti, quello israeliano e
quello ebraico. Fin dal 1948 i sostenitori dell'adozione del diritto
ebraico come diritto dello Stato si trovarono in netta minoranza. La
loro posizione, in ragione della quale vige una inseparabilità tra Popolo, Terra
e Norme, fu attivamente contrastata da quanti — ed
erano la maggioranza — ritenevano che i processi di secolarizzazione che avevano
avuto corso anche tra gli ebrei a partire dal
XVIII secolo dovessero essere recepiti nel nuovo stato. Stato
degli
ebrei, per l'appunto, ma non Stato ebraico. In buona sostanza:
la maggioranza dei giuristi ha preferito respingere l'idea della ricezione [...] per timore dell'ingerenza religiosa, sostenendo che i giuristi israeliani non dispongono degli strumenti per comprendere e applicare i testi del diritto ebraico. In pratica, quest'ultima è stata la posizione dominante, fatta eccezione per la parte del diritto ebraico riguardante lo status personale. [Alfredo Mordechai Rabello] Parte che concerne il diritto del matrimonio, affidato alle corti rabbiniche, o di singole norme, comunque recepite dal diritto israeliano in forma di legge. In altre parole ancora, l'applicazione di aspetti del diritto ebraico può avvenire solo ed unicamente se essi sono recepiti e sanciti formalmente dalle leggi discusse e votate dalla Knesseth. Nel sistema delle fonti del diritto, la supremazia delle leggi dello Stato è quindi assoluta. La Corte Suprema, organismo di rilevanza strategica nella determinazione dell'accettabilità delle decisioni di natura giuridica, esercitando un sindacato di verifica a posteriori, si è assunta poi la funzione di controllo di legalità delle decisioni emesse dai tribunali rabbinici.
Un elemento potenzialmente conflittuale è invece dato dalla disposizione
contenuta nell'articolo 1 della legge sui fondamenti del
diritto del 1980, la quale afferma che «quando un tribunale deve risolvere una
questione giuridica, che non trova risposta nella legge,
o in precedenti o per analogia, deciderà in base ai principi di libertà, equità
e pace della eredità d'Israele». Ma di fatto, malgrado sussistano quelli che per
certuni sono dei possibili varchi all'interno della normativa laica (e liberale)
che accompagna Israele, si può dire, a ragion veduta, che l'influenza del
diritto ebraico «è essenzialmente culturale».
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