Copertina
Autore Paul Verlaine
Titolo I poeti maledetti
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2012, Fiabesca Benedetti Meledetti 4 , pag. 112, cop.fle., dim. 12x16,7x1 cm , Isbn 978-88-6222-307-2
OriginaleLes poètes maudits [1884]
CuratoreTommaso Gurrieri
TraduttoreTommaso Gurrieri
LettoreMargherita Cena, 2012
Classe classici francesi , poesia francese
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Indice


I "maledetti" di Verlaine TOMMASO GURRIERI        5


I poeti maledetti                                11

I   – Tristan Corbière                           15

II  — Arthur Rimbaud                             26

III — Stéphane Mallarmé                          49

IV  — Marceline Desbordes-Valmore                64

V   — Villiers de l'Isle-Adam                    85

VI  — Pauvre Lelian                             100


Nota biografica                                 109


 

 

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Pagina 5

I "maledetti" di Verlaine



Ho sempre avuto una grande simpatia per Paul Verlaine. Pur adorando in modo quasi irrazionale il genio e i percorsi di Rimbaud, confesso anche di non aver mai considerato Verlaine una figura minore, una specie di 'secondo' innamorato del genio, come spesso si è voluto dipingerlo.

Θ abbastanza ovvio che questa straordinaria raccolta, questa antologia che anche riletta oggi si dimostra un capolavoro di semplicità, di chiarezza, di sincerità, sia una dichiarazione d'amore, una sorta di chiamata, di invocazione al "signor Arthur Rimbaud", come Verlaine definisce qui la maledizione e benedizione della sua intera vita, perché in qualche modo lo perdoni, lo tenga o lo rimetta nei suoi pensieri ormai vaganti soltanto in quella perdita di sé infinita e finale.

[...]

Paul Verlaine, il "Pauvre Lelian" (anagramma del suo nome) che chiude questa antologia di Poeti maledetti, fu sempre e comunque un uomo che cercò gli altri, disperatamente, scompostamente, a volte in modo forse irritante, ma sempre e comunque con l'esigenza vera e profonda di avere accanto e intorno un respiro altro, un sudore diverso, uno sguardo anche difficile ma che non fosse quello che poteva vedere guardandosi allo specchio.

[...]

Sembrerà irriverente, forse forzato, ma Paul Verlaine mi viene d'associarlo a un altro grandissimo poeta che ebbe un ruolo simile e altrettanto indispensabile per la cultura e la bellezza della storia dell'uomo, Lawrence Ferlinghetti , il fondatore della City Lights di San Francisco, il poeta che come Verlaine si sentì in un modo o in un altro quasi investito da una specie di 'missione' di fronte a un movimento, quello della "Beat generation", che rivoluzionò tutto, proprio come le parole di quei poeti francesi di ottanta anni prima.

Come a Verlaine si devono Rimbaud e Mallarmé (e quindi Apollinaire, Eluard, e poi Prévert e tanti altri), a Ferlinghetti si devono Allen Ginsberg e Gregory Corso (e Jack Kerouac, Peter Orlovski, John Giorno, e di conseguenza, poi, Bob Dylan e i Doors e tutto quello che di bello e sublime ancora oggi possiamo leggere, ascoltare, scoprire).

Ferlinghetti è stato il Verlaine del Nuovo Mondo, del sostituirsi degli Stati Uniti alla Francia come motore del mondo e del pensiero. E come Verlaine, anche Ferlinghetti ha (l'ho conosciuto, posso dirlo) un modo insieme forte e modesto, profondissimo e leggero, incredibilmente fermo e insieme aperto, perché come Verlaine ha capito e ha dentro la certezza che la poesia è il rosso e il nero del dolore dell'uomo e la musica stonata dell'entrare dentro di noi trovando le parole per guardare in faccia il cuore sanguinante della verità.


Ma è anche una piccola miniera di cose e di storie, questa ormai leggendaria antologia che, col suo titolo di Poeti maledetti, ha creato anche un'etichetta valida almeno quanto quella di "Gioventù perduta" che Gertrude Stein diede alla generazione di mezzo degli Hemingway e dei Fitzgerald (forse la più grande di tutte, posso dirlo?).

Scorrendone le righe si può incontrare un poeta anomalo e immenso come Tristan Corbière, si può esplorare, tenendo la mano del 'maestro di cerimonie' Verlaine, la inconsueta e inquietante bellezza poetica di Stéphane Mallarmé, si può assaggiare la bizzarramente snobistica e originale prosa di Villiers de l'Isle-Adam, si può soprattutto scoprire la dolce morbidezza dei versi di Marceline Desbordes-Valmore (un'introduzione che venne ferocemente contestata a Verlaine all'epoca della stampa dell'antologia), una voce purtroppo misconosciuta ma che ha la grandezza e lo spessore di Emily Dickinson, anticipandola di qualche anno tra l'altro.


Si può, ovviamente, e qui sta senza alcun dubbio il più grande valore dell'antologia di Verlaine, provare ad affacciarsi sull'abisso di Rimbaud, l'immenso poeta di sempre, il ragazzo toccato dalla grazia che cambiò tutto, spezzò tutto, inventò tutto e rese possibile tutto quanto è venuto dopo di lui.

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Pagina 15

I
Tristan Corbière



Tristan Corbière è stato un Bretone, un marinaio, e lo sdegnoso per eccellenza, aes triplex.

Bretone, senza nessuna pratica cattolica, credeva però nel diavolo; marinaio non militare né tantomeno mercante, ma pazzamente innamorato del mare sul quale andava soltanto durante le tempeste, troppo focoso per questo che è il più focoso dei cavalli. (Di lui si raccontano prodigi di folle imprudenza).

Sdegnoso del Successo e della Gloria, sembrava volesse sfidare questi due imbecilli a muoverlo a pietà per loro.


Ma sorvoliamo sull'uomo, pure così nobile, e parliamo del Poeta.

Come rimatore e come scrittore in prosa non ha niente di impeccabile, cioè di noioso. Nessuno, tra i Grandi come lui, è impeccabile, a cominciare da Omero che a volte sonnecchia, per finire con Goethe, così umano nonostante quel che se ne dica, e arrivando a Shakespeare, il più irregolare di tutti.

Gli autori impeccabili sono altri... sono questo e quello. Sono di legno, legno e ancora legno. Corbière era semplicemente di carne e ossa.


Il suo verso vive, ride, piange pochissimo, se ne infischia altamente, e sfotte ancora meglio. Amaro d'altronde e salato come il suo caro Oceano, niente affatto consolatorio come a volte avviene a quel suo turbolento amico, ma tambureggiante come lui di raggi di sole, di luna e di stelle nella fosforescenza di un'ondata e di onde rabbiose!

Θ diventato parigino per un momento, ma senza la sporca, meschina mentalità: singhiozzi, vomito, l'ironia feroce e brillante, bile e febbre che si esasperano fino alla genialità, e tanta allegria!

Esempio:


Riscossa

Se la mia chitarra
Che accordo,
Tre volte barbara,
Kriss indiano,

Strumento di supplizio,
Forca,
Scatola con la sorpresa,
Non funziona bene...

Se la mia peggior voce
Non può dirti
Il mio dolce martirio...
— Mestiere da cani! —

Se il mio sigaro,
Viatico e faro,
Non ti sconvolge affatto;
— Defunto dal bruciare...

Se la mia minaccia,
Uragano di passaggio,
Manca di grazia;
— Urlare muto!...

Se della mia anima
Il mare in fiamme
Non ha spinta;
— Cotto dal gelare...

Me ne vado subito!



Prima di passare al Corbière che preferiamo, anche se impazziamo molto per l'altro, bisogna insistere sul Corbière parigino, sullo Sdegnoso e il Beffardo di tutto e di tutti, compreso se stesso.

Leggete anche questo


Epitaffio

Si uccise per l'ardore, o morì di pigrizia.
Se visse, è per oblio; ecco cosa lascia dietro di sé:
Il suo solo rimpianto fu di non essere
la propria amante.

Non nacque per uno scopo,
Fu sempre spinto dal vento alle spalle
E fu un arlecchino-ragù
Miscuglio adultero di tutto.

Un non so che – Ma che sapeva tutto;
D'oro – Ma senza un soldo;
Di nervi – senza polso. Vigore senza forza;
Di slancio — con una storta;
Di anima – e niente violini;
D'amore—ma pessimo stallone;
— Troppi nomi per avere un nome. —
...

Passando a versi ancora più divertenti:

Non posatore — posando per l'unica;
Troppo ingenuo essendo troppo cinico;
Senza credere in niente, credendo a tutto.
– Il suo gusto era nel disgusto.

...

Troppo in sé per poter soffrire,
L'anima asciutta e la testa ebbra,
Finito, senza saper finire,
Morì aspettando di vivere
E visse aspettando di morire.

Qui giace, cuore senza cuore, piantato male,
Troppo riuscito come fallito.

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Pagina 26

II
Arthur Rimbaud



Abbiamo avuto l'onore di conoscere Rimbaud. Oggi alcune cose ci separano da lui senza che, beninteso, sia mai venuta meno la nostra profonda ammirazione per il suo genio e il suo carattere.

Nel periodo relativamente lontano del nostro sodalizio, il signor Arthur Rimbaud era un ragazzo tra i sedici e i diciassette anni, già ricco di tutto il bagaglio poetico che il vero pubblico dovrebbe ormai conoscere e che proveremo a prendere in esame citando tutto ciò che potremo.


Era un uomo alto, ben costruito, quasi atletico, il volto perfettamente ovale da angelo in esilio, capelli castano chiaro in disordine e occhi di un azzurro pallido inquietante.

Originario delle Ardenne, possedeva oltre a un bell'accento di campagna troppo presto perduto, il dono di assimilare tutto subito tipico della gente di quei posti – il che può spiegare il rapido inaridirsi, sotto il debole sole di Parigi, della sua vena, per parlare come i nostri avi, il cui linguaggio semplice e diretto non era, alla fine dei conti, sbagliato!

Per iniziare, ci occuperemo della prima parte dell'opera del signor Arthur Rimbaud, opera della sua prima adolescenza – sublime crosta lattea, miracolosa pubertà! – per poi esaminare le diverse evoluzioni di questa mente impetuosa, fino al suo silenzio letterario.

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Pagina 30

Il poema I seduti ha una storiella che bisognerebbe forse ricordare per essere ben compresa.

Il signor Arthur Rimbaud, che all'epoca frequentava la seconda classe come esterno al liceo di ***, faceva forca alla grande e quando si sentiva – finalmente! – stanco di arrampicarsi per monti, boschi e pianure per notti e per giorni, e che camminatore!, andava alla biblioteca di quella città e chiedeva opere sconvenienti per l'orecchio del bibliotecario-capo il cui nome, poco adatto alla posterità, balla sulla punta della nostra penna – ma che importa il nome di quel buonuomo in questo lavoro da piccolo maledetto?

L'eccellente burocrate, per le sue funzioni costretto a consegnare al signor Arthur Rimbaud, dietro sua richiesta, numerosi Racconti Orientali e libretti di Favart, il tutto mescolato con vaghi libri scientifici molto antichi e molto rari, malediceva di doversi alzare per quel ragazzetto e, a voce alta, lo rispediva volentieri ai suoi poco amati studi, a Cicerone, a Orazio, e anche a non sappiamo più quali Greci.

Il ragazzetto, che d'altronde conosceva e soprattutto apprezzava infinitamente i suoi classici più di quel vecchiaccio, finì per irritarsi e scrisse il capolavoro in questione.


I Seduti

Neri di cisti, butterati, gli occhi cerchiati
Di verde, le dita nodose aggrappate ai femori,
L'occipite placcato di chiazze schifose,
Come le infiorescenze lebbrose di vecchi muri,

Hanno trapiantato in amori epilettici
La loro strana ossatura sui grandi scheletri neri
Delle loro sedie; i loro piedi alle sbarre rachitiche
Si allacciano dal mattino alla sera.

Quei vecchi si sono sempre intrecciati alle sedie,
Sentendo i soli vivi lucidargli la pelle,
O gli occhi fissi ai vetri dove fondono le nevi,
Tremando del tremito doloroso dei rospi.

E le Sedie sono buone con loro: rivestita
Di scuro, la paglia cede agli angoli delle loro reni.
L'anima dei vecchi soli s'illumina, rinchiusa
In quelle trecce di spighe in cui fermentava il grano.

E i Seduti, con le ginocchia tra i denti, verdi pianisti,
Le dieci dita sotto la sedia con rumore di tamburo,
Si ascoltano vagare come barchette tristi
E le loro capocce vanno nei dondolii d'amore.

Oh! Non li fate alzare! Θ il naufragio.
Sorgono, ringhiando come gatti malmenati,
Aprendo lentamente le scapole, che rabbia!
Gli interi loro pantaloni sbuffano sulle reni gonfie.

E li ascoltate che sbattono le teste calve
Ai muri scuri, strusciando e strusciando i piedi storti,
E i bottoni dei vestiti sono pupille fulve
Che vi catturano lo sguardo dal fondo dei corridoi.

Poi hanno una mano invisibile che uccide:
Al ritorno, il loro sguardo filtra quel veleno nero
Che riempie l'occhio sofferente della cagna bastonata,
E voi sudate, presi in un atroce imbuto.

Seduti di nuovo, i pugni stretti nei polsini sporchi,
Pensano a quelli che li hanno fatti alzare
E dall'alba al tramonto grappoli di amigdale
Sotto i menti sparuti si agitano da morire.

Quando l'austero sonno ha abbassato quelle visiere,
Sognano appoggiandosi sui braccioli di seggi fecondati,
Veri piccoli amori di sedie di confine
Che orlano i bordi di fiere scrivanie.

Fiori d'inchiostro, sputando pollini a virgola,
Li cullano lungo calici accovacciati
Come sull'orlo dei gladioli il volo delle libellule,
– E il loro membro si irrita con le barbe delle spighe!

Ci tenevamo a riportare per intero questa poesia così sapientemente e freddamente insolente, fino all'ultimo verso assai logico e di una tale felice audacia. Il lettore può allora rendersi conto della potenza d'ironia, della verve terribile del poeta, di cui ci restano da considerare i doni più elevati, doni supremi, magnifica testimonianza dell'Intelligenza, prova fiera e francese, molto francese, insistiamo in questi giorni di vile internazionalismo, di una superiorità naturale e mistica di razza e di casta, affermazione senza contesto possibile di quell'immortale regalità dello Spirito, dell'Anima e del Cuore umani.

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Pagina 36

C'è ancora Goya nelle Cercatrici di pidocchi, questa volta un Goya luminoso, bianco su bianco con gli effetti rosa e blu e quel tocco singolare fino al fantastico. Ma quanto superiore è sempre il poeta al pittore e per l'emozione alta e per il canto delle buone rime!

Siatene testimoni:


Le cercatrici di pidocchi

Quando la fronte del bambino, piena di rossi tormenti,
Implora lo sciame bianco dei sogni indistinti,
Vengono vicino al suo letto due grandi sorelle incantevoli
Con fragili dita dalle unghie argentate.

Fanno sedere il bambino davanti a una finestra
Spalancata in cui l'aria avvolge un groviglio di fiori,
E nei suoi pesanti capelli su cui cade la rugiada
Fanno passeggiare le loro dita sottili, terribili e incantate.

Lui ascolta cantare i loro respiri timorosi
Che profumano di lunghi mieli vegetali e rosati
E che a volte un sibilo interrompe, salive
Riprese sul labbro o desideri di baci.

Sente le loro ciglia nere battere sotto i silenzi
Profumati; e le dita elettriche e dolci
Fanno scricchiolare tra le sue grigie indolenze
Sotto le unghie regali la morte dei piccoli pidocchi.

Ecco che sale in lui il vino della Pigrizia,
Sospiro d'armonica che potrebbe delirare;
Il bambino si sente, secondo la lentezza delle carezze,
Nascere e morire senza posa un desiderio di piangere.

Non c'è niente, fino all'irregolarità della rima dell'ultima strofa, fino all'ultima frase che resta, tra la sua mancanza di congiunzione e il punto finale, come sospesa e a strapiombo, che non aggiunga in leggerezza di schizzo, in tremolio di costruzione, al fascino fragile del pezzo. E il bel movimento, il bell'ondeggiare lamartiniano, non è così? In questi pochi versi che sembrano prolungarsi nel sogno e nella musica! Anche raciniano, oseremmo aggiungere, – e perché non arrivare in fondo a questa precisa confessione? – virgiliano.

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Pagina 100

VI
Pauvre Lelian



Questo maledetto avrà proprio avuto il destino più malinconico, perché tale dolce parola può, alla fine, caratterizzare le sfortune della sua esistenza, a causa del candore del carattere e della mollezza — irrimediabile? — del cuore che hanno fatto dire a lui di se stesso, nel suo libro Sapientia,

E poi, soprattutto, non dimenticare te stesso,
Trascinando la tua debolezza e la tua semplicità
Ovunque si combatte e ovunque si ama,
In un modo così triste e folle, in verità!

...

Θ stata punita abbastanza questa pesante innocenza?

E nel suo volume Carità, da poco uscito:

Ho il furore d'amore, il mio cuore così debole è folle.
...
Non riesco più a contare le cadute del mio cuore.

e che furono gli elementi unici, ascoltate bene, di quel temporale, la sua vita!


La sua infanzia era stata felice. Genitori eccezionali, un padre squisito, una madre incantevole, morti, ahimè!

Lo viziavano come il figlio unico che era. L'avevano messo tuttavia in collegio presto e lì cominciò la rovina. Lo vediamo ancora nel suo lungo grembiule nero, la testa rasata, le dita in bocca, il gomito poggiato allo steccato divisorio dei due muri di ricreazione, quasi in lacrime in mezzo agli altri ragazzi, già induriti, che giocavano!

La sera stessa fuggì e fu ricondotto 'in clausura' a forza di dolci e di promesse, dove in seguito, a sua volta, si 'depravò' e divenne un ragazzaccio non troppo cattivo ma con la testa piena di fantasie.

Studiava senza interesse e in un modo o in un altro si diplomò dopo qualche vago successo, nonostante la sua pigrizia che, ripetiamo, era causata dalle sue fantasie.

I posteri sapranno, se mai si occuperanno di lui, che il liceo Bonaparte, poi Condorcet, poi Fontanes, poi di nuovo Condorcet, fu l'istituto in cui consumò il fondo dei suoi pantaloni di ragazzino e poi di adolescente.

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