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| << | < | > | >> |Pagina 2| << | < | > | >> |Pagina 7Nell'anno 1892, la casa recante il numero 7 di Savile Row, Burlington Garden - casa in cui morì Sheridan nel 1814 - era abitata da Phileas Fogg, esq., uno dei membri più singolari e più segnalati del Reform Club di Londra, quantunque sembrasse studiarsi di non far nulla che potesse attirare l'attenzione. A uno dei più grandi oratori che onorano l'Inghilterra succedeva dunque in quella casa questo Phileas Fogg, personaggio enigmatico, di cui nessuno sapeva niente, salvo che fosse un fior di galantuomo e uno dei più bei gentlemen dell'alta società inglese. Si diceva che rassomigliasse a Byron - nella testa, poiché era senza difetti ai piedi, - ma un Byron con mustacchi e favoriti, impassibile, da poter vivere mille anni senza invecchiare. Inglese, senz'alcun dubbio, Phileas Fogg non era forse londinese. Non lo si era mai visto né alla Borsa, né alla Banca, né in alcuno degli uffici della City. Né i bacini né i docks di Londra avevano mai ricevuto una nave avente per armatore Phileas Fogg. Non figurava in alcun comitato d'amministrazione. Il suo nome non era mai risuonato in un collegio di avvocati, né al tempio, né a Lincoln's Inn, né a Grays' Inn. Non litigò mai né alla Corte del Cancelliere, né alle Banche della Regina, né allo Scacchiere, né in Corte ecclesiastica. Non era industriale, né negoziante, né mercante, né agricoltore. Non faceva parte né dell'Istituto Reale della Gran Bretagna, né dell'Istituto di Londra, né dell'Istituto degli Artigiani, né dell'Istituto Russel, né dell'Istituto letterario dell'Ovest, né dell'Istituto delle Arti e delle Scienze riunite, che è posto sotto il patronato di Sua Grazia la Regina. Insomma non apparteneva ad alcuna delle numerose società che pullulano nella capitale dell'Inghilterra, dalla Società dell'Armonica sino alla Società entomologica, fondata principalmente allo scopo di distruggere gli insetti nocivi. Phileas Fogg era membro del Reform Club: ed ecco tutto. A chi si stupisse che un gentleman tanto misterioso si annoverasse fra i membri di questa onorevole associazione, sarà risposto che egli vi fu ammesso dietro raccomandazione dei signori fratelli Baring, presso i quali aveva un credito aperto. La regolarità posta da essi nel pagamento a vista degli assegni appoggiati sul suo conto corrente, in cui egli era invariabilmente creditore, gli aveva procacciato una certa stima. Era ricco questo Phileas Fogg? Incontestabilmente. Ma in che modo si fosse arricchito, ecco ciò che i meglio informati non potevano dire, e il signor Fogg era l'ultimo a cui convenisse rivolgersi per saperlo. Comunque, egli non era prodigo di nulla, ma non avaro, così, ogni volta che gli venisse richiesto del denaro per un'opera nobile, utile e generosa, egli lo portava silenziosamente e anonimamente. Insomma, nulla di meno comunicativo di quel gentleman. Parlava il meno possibile, e appariva perciò tanto più misterioso. Eppure, la sua vita era palese; ma era tanto matematicamente uniforme che l'immaginazione, insoddisfatta, cercava al di là. Aveva viaggiato? Probabile, poiché nessuno conosceva meglio di lui la carta del mondo. Non c'era luogo remoto che egli non mostrasse di conoscere approfonditamente. Qualche volta, ma in poche parole, brevi e chiare, rettificava le mille dicerie che circolavano nel club circa i viaggiatori perduti o smarriti; indicava le vere probabilità, e le sue parole erano spesso considerate come ispirate da una capacità profetica, poiché venivano sempre confermate dai fatti. Era un uomo che aveva dovuto viaggiare dappertutto, per lo meno con la mente. Peraltro, era sicuro che da alcuni anni Phileas Fogg non aveva lasciato Londra. Le persone che avevano l'onore di conoscerlo più da vicino attestavano che nessuno poteva pretendere d'averlo mai visto altrove che in quella strada diretta che egli percorreva ogni giorno per recarsi da casa sua al club. Il suo unico passatempo era leggere i giornali e giocare a whist. A questo gioco del silenzio, tanto adatto al suo temperamento, egli vinceva spesso, ma i suoi guadagni non entravano mai nella sua borsa e figuravano come una somma importante nel suo bilancio di carità. E poi, è bene notarlo, il signor Fogg giocava per giocare, non per vincere; il gioco era per lui un combattimento, una lotta contro una difficoltà, ma una lotta senza moto, senza spostamento, senza fatica: e ciò si confaceva al suo carattere. Nessuno conosceva né moglie, né figli (cosa che può accadere alle più brave persone), né parenti, né amici (cosa più rara in verità). Phileas Fogg viveva solo nella sua casa di Savile Row, dove nessuno penetrava. Del suo interno non si era parlato mai. Un solo cameriere bastava a servirlo. Faceva colazione e desinava al club, a ore cronometricamente determinate, nella medesima sala, alla stessa tavola, senza la compagnia di colleghi, senza invitare mai un estraneo. Rincasava soltanto per coricarsi a mezzanotte precisa, senza far mai uso di quelle stanze ben addobbate che il Reform Club tiene a disposizione dei membri del circolo. Su ventiquattr'ore, ne passava dieci al suo domicilio, sia che dormisse, sia che s'occupasse della sua toeletta. Se passeggiava, lo faceva invariabilmente, con passo uguale, nella sala d'accesso dal pavimento intarsiato, o sulla galleria circolare del club, al di sopra della quale sorge una cupola con i vetri azzurri, sorretta da venti colonne ioniche in porfido rosso. A colazione e a pranzo erano le cucine, la dispensa, la peschiera, la latteria del club che fornivano alla sua tavola le loro succulenti riserve; erano i camerieri del club - gravi personaggi in abito nero, calzati con scarpe a suole di mollettone - che lo servivano in porcellana speciale e sopra stupende tovaglie in tela di Sassonia; erano i bicchieri di purissimo cristallo del club che contenevano il suo sherry, il suo porto o il suo chiaretto corretto con cannella, capelvenere, cinnamomo: era infine il ghiaccio del club - ghiaccio venuto con forti spese dai laghi d'America - che manteneva le sue bevande in un soddisfacente stato di freschezza. Se vivere in tali condizioni si chiama eccentricità, bisogna confessare che l'eccentricità ha del buono! La casa di Savile Row, senza essere sontuosa, si segnalava per un comfort davvero superlativo. D'altronde, con le abitudini invariabili del suo abitatore, il servizio si riduceva a ben poco. Però, Phileas Fogg esigeva, dal suo unico domestico, una puntualità, una regolarità straordinaria. Quel giorno appunto - 2 ottobre - Phileas Fogg aveva licenziato James Forster, il servitore, perché colpevole di avergli portato per radere la barba dell'acqua a ottantaquattro gradi Farenheit, invece che ottantasei, e aspettava il suo successore, che doveva presentarsi tra le undici e le undici e mezzo. Phileas Fogg, ben adagiato nel suo seggiolone, coi piedi ravvicinati come quelli di un soldato alla parata, le palme delle mani sulle ginocchia, il corpo ritto, la testa alta, guardava avanzare la sfera della pendola, macchina complicata che indicava le ore, i minuti, i secondi, i giorni, i mesi e l'anno. Allo scoccare delle undici e mezzo il signor Fogg doveva, secondo la sua abitudine quotidiana, lasciare la casa e recarsi al Reform Club. In quel punto, s'udì picchiare all'uscio del salotto in cui se ne stava Phileas Fogg. James Forster, il cameriere licenziato, apparve. - Il nuovo domestico - disse. Un giovinotto di una trentina d'anni si mostrò e salutò. - Siete francese e vi chiamate John? - gli chiese Phileas Fogg. - Jean, se così piace al signore. - rispose il nuovo venuto - Jean Passepartout: soprannome che mi è rimasto grazie alla mia attitudine naturale a trarmi d'impaccio. Credo di essere un onesto figliolo, signore, ma, per essere schietto, ho fatto parecchi mestieri. Sono stato cantante girovago, poi cavallerizzo in un circo, ho emulato Léotard nei voli aerei e Blondin danzando sulla corda; poi sono diventato professore di ginnastica per utilizzare meglio i miei talenti; e in ultimo ero sergente dei pompieri, a Parigi. Ho anzi nel mio stato di servizio diversi incendi notevoli. Ma ora son già cinque anni che ho lasciato la Francia, e che, bramoso di gustare la vita di famiglia, faccio il cameriere in Inghilterra. Trovandomi senza posto, e saputo che il signor Phileas Fogg è l'uomo più preciso e più sedentario del Regno Unito, mi presento in casa del signore con la speranza di vivervi tranquillo e di dimenticare persino questo nome di Passepartout... - Passepartout mi sta bene. - rispose il gentleman - Mi siete stato raccomandato. Ho buone informazioni sul vostro conto. Conoscete le mie condizioni? - Sì, signore. - Bene. Che ora fate? - Le undici e ventidue minuti - rispose Passepartout estraendo dalle profondità del suo taschino un enorme orologio d'argento. - Il vostro orologio è in ritardo - disse Fogg. - Chiedo perdono al signore, ma è impossibile. - Sì, è in ritardo di quattro minuti. Non importa. Basta tenere conto della differenza. Dunque, da questo momento in avanti, undici ore e ventinove minuti del mattino, mercoledì, 2 ottobre 1872, voi siete al mio servizio. Ciò detto, Phileas Fogg s'alzò, prese il cappello con la mano sinistra, se lo pose in testa con un movimento da automa e scomparve senza aggiungere parola. Passepartout udì l'uscio di strada chiudersi una prima volta: era il suo nuovo padrone che usciva; quindi una seconda volta: era il suo predecessore, James Forster, che, a sua volta, se ne andava. Passepartout rimase solo nella casa di Savile Row. | << | < | > | >> |Pagina 18Phileas Fogg aveva lasciato la sua casa di Savile Row alle undici e mezzo; e dopo avere posto cinquecentosettantacinque volte il piede destro davanti al piede sinistro, e cinquecentosettantasei volte il piede sinistro davanti al piede destro, giunse al Reform Club, vasto edificio eretto in Pall Mall, la cui costruzione era costata non meno di tre milioni. Phileas Fogg si recò subito nella sala da pranzo, le cui nove finestre si aprivano sopra un bel giardino dagli alberi già indorati dal sole d'autunno. Lì egli prese posto alla tavola abituale, dove già l'aspettava la sua posata; la sua colazione si componeva di un antipasto, di un pesce lessato condito con una readingsauce di prima qualità, di un roastbeef scarlatto acidulato da condimenti di mushrooms, di un pasticcio farcito di cime di rabarbaro e di lamponi verdi, di un pezzo di chester, il tutto innaffiato da qualche tazza di un tè appositamente raccolto per il consumo del Reform Club. A mezzogiorno e quarantasette, il nostro gentleman si alzò e si avviò verso la sontuosa e grande sala, adorna di dipinti riccamente incorniciati. Lì un domestico gli diede il Times non tagliato, di cui Phileas Fogg operò il laborioso spiegamento con una sicurezza di mano che denotava una grande abitudine in tale difficile operazione. La lettura di quel giornale occupò Phileas Fogg sino alle tre e quarantacinque, e quella dello Stendard, che gli succedette, durò sino al pranzo. Questo pasto si compì nelle stesse condizioni della colazione. Alle sei meno venti, il gentleman ricomparve nel grande salone e vi rimase assorto nella lettura del Morning Chronicle. Da lì a mezz'ora, diversi frequentatori del Reform Club facevano il loro ingresso e si avvicinavano ai camini in cui ardeva un fuoco di carbon fossile. Erano i compagni abituali del signor Phileas Fogg, al par di lui arrabbiati giocatori di whist: l'ingegnere Andrew Stuart, i banchieri John Sullivan e Samuel Fallentin, il birraio Thomas Flanagan, Gauthier Ralph, uno degli amministratori della Banca d'Inghilterra, personaggi ricchi e apprezzati anche in quel club, che conta fra i suoi membri le più alte cariche dell'industria e della finanza. - Ebbene, signor Ralph, avete notizie sul furto? - domandò il birraio Thomas Flanagan. - Eh, la banca - rispose Andrew Stuart - ci rimetterà anche stavolta il suo danaro. - Io spero invece - disse Gauthier Ralph - che porremo le mani addosso al ladro. Diversi ispettori di polizia, persone abilissime, sono stati mandati in America e in Europa, in tutti i principali porti d'imbarco e di sbarco, e sarà difficile a quel galantuomo sfuggirgli. - Si hanno dunque i connotati del ladro? - chiese Andrew Stuart. - Anzitutto, non è un ladro - rispose seriamente Gauthier Ralph. - Come? Non è un ladro l'individuo che ha sottratto cinquantacinquemila sterline in banconote? - No - rispose Ralph. - È dunque un industriale? - chiese John Sullivan. - Il Morning Chronicle assicura che è un gentleman. Colui che diede questa risposta non era altri che Phileas Fogg, la cui testa emergeva allora dall'onda di carta che si era ammassata intorno a lui. In pari tempo, Phileas Fogg salutò i suoi colleghi, che gli restituirono il saluto. Il fatto di cui si parlava, che i diversi giornali del Regno Unito discutevano con ardore, era accaduto tre giorni prima, il 29 settembre. Un fascio di banconote, formante l'enorme somma di cinquantacinquemila sterline, era stato preso dal tavolino del cassiere principale della Banca d'Inghilterra. A chi si stupiva che un tale furto avesse potuto effettuarsi tanto facilmente, il vice-governatore Gauthier Ralph si limitava a rispondere che in quello stesso momento il cassiere era occupato a registrare un incasso di tre scellini e sei pence, e che non si può aver gli occhi dappertutto. Conviene far osservare qui - il che rende il fatto più comprensibile - che quell'ammirabile stabilimento della Bank of England pare darsi anche troppo da fare per la dignità del pubblico. Nessuna guardia, nessun custode, nessun cancello! L'oro, l'argento i biglietti sono esposti liberamente e per così dire in balia del primo che capita. Non si oserebbe mettere in dubbio l'onorabilità di un passante qualunque. Uno dei migliori osservatori degli usi inglesi narra perfino questo: in una delle sale della banca, in cui egli si trovava un giorno, ebbe la curiosità di vedere più da vicino un lingotto d'oro del peso di sette-otto libbre, che si trovava esposto sopra il tavolo del cassiere: egli prese quel lingotto, lo esaminò, lo porse al suo vicino, questi a un altro, dimodoché il lingotto, di mano in mano, se ne andò sino al fondo di un corridoio oscuro, e non ritornò che mezz'ora dopo a ripigliare il suo posto, senza che il cassiere avesse nemmeno alzato la testa. Ma il 29 settembre le cose non andarono precisamente così: il fascio di banconote non ritornò, e quando il magnifico orologio, collocato al di sopra del drawing office, suonò alle cinque la chiusura degli uffici, la Banca d'Inghilterra doveva annotare sul conto «Profitti e perdite» la bagatella di cinquantacinquemila sterline. Appena il furto fu debitamente constatato, degli agenti, dei detective scelti fra i più abili, vennero inviati nei principali porti, a Liverpool, a Glasgow, a Le Havre, a Suez, a Brindisi, a New York eccetera, con promessa, in caso di riuscita, di un premio di duemila sterline e il cinque per cento della somma che sarebbe stata recuperata. In attesa delle informazioni che doveva fornire l'inchiesta immediatamente incominciata, quegli ispettori avevano per missione di osservare scrupolosamente tutti i viaggiatori in arrivo e in partenza. Ora appunto, come diceva il Morning Chronicle, c'era motivo di supporre che l'autore del furto non facesse parte di nessuna delle associazioni di ladri dell'Inghilterra. Durante quella giornata del 29 settembre, un gentleman ben vestito, di bei modi, di aspetto distinto, era stato visto andare avanti e indietro nella sala dei pagamenti, teatro del furto. L'inchiesta era riuscita a raccogliere tutti i connotati di quel gentleman, che furono subito comunicati a tutti i detective del Regno Unito e del continente. Alcune anime intelligenti - e Gauthier Ralph era tra queste - credevano di poter sperare con fondamento che il ladro non sarebbe riuscito a fuggire. Come ognuno può immaginarsi, questo fatto era all'ordine del giorno a Londra e in tutta l'Inghilterra. Si discuteva, si scommetteva pro o contro le probabilità di successo della polizia metropolitana. Nessuna meraviglia dunque che i membri del Reform Club trattassero la stessa questione, tanto più che uno dei vice-governatori della banca si trovava fra loro. L'onorevole Gauthier Ralph non voleva dubitare del risultato delle indagini, ritenendo che il premio offerto dovesse aguzzare singolarmente lo zelo e l'intelligenza degli agenti. Ma il suo collega, Andrew Stuart, era ben lungi dal condividere tanta fiducia. La discussione continuò dunque fra i due gentlemen che si erano seduti alla tavola del whist: Stuart dirimpetto a Flanagan, Fallentin di fronte a Phileas Fogg. Durante il gioco, i giocatori non parlavano, ma tra i rubbers la conversazione interrotta riprendeva sempre più animata. - Io sostengo - disse Andrew Stuart - che le probabilità sono in favore del ladro, che deve essere certamente un uomo molto abile! - Evvia! - rispose Ralph - Oramai non c'è più un paese in cui possa rifugiarsi. - Questo poi... - Dove volete che vada? - Non ne so nulla - rispose Andrew Stuart - ma alla fin fine, il mondo è grande. - Lo era una volta... - disse a mezza voce Phileas Fogg. Quindi - Sta a voi ad alzare - soggiunse presentando le carte a Thomas Flanagan. La discussione venne sospesa durante il rubber. Ma ben presto Andrew Stuart la riprese dicendo: - Come, una volta! È forse diminuita la Terra? - Senza dubbio. - rispose Gauthier Ralph - Io sono del parere del signor Fogg. La Terra è diminuita, poiché ora la si percorre dieci volte più velocemente di cento anni fa. Ed ecco ciò che, nel caso attuale, renderà le ricerche più rapide. - E renderà anche più facile la fuga del ladro! - Tocca a voi a giocare, signor Stuart! - disse Phileas Fogg. Ma l'incredulo Stuart non era convinto e, finita la partita, continuò: - Bisogna confessare, signor Ralph, che avete trovato un modo curioso di dire che la Terra è diminuita! Così, perché adesso se ne fa il giro in tre mesi... - In ottanta giorni soltanto - disse Phileas Fogg.
- Difatti, signori, - soggiunse John Sullivan - in ottanta giorni
dopo l'apertura della linea fra Rothal e Allahabad sulla Great Indian Peninsular
Railway. Ecco il calcolo stabilito dal
Morning Chronicle:
- Sì, ottanta giorni! - esclamò Andrew Stuart, che per disattenzione tagliò una carta reale - Questo se non contiamo il cattivo tempo, i venti contrari, i naufragi, gli sviamenti eccetera. - Tutto compreso - rispose Phileas Fogg, continuando a giocare, perché stavolta la discussione non rispettava più il whist. - Anche se gli indù o gli indiani, come li vorrete chiamare, portano via le rotaie? - esclamò Andrew Stuart - Se fermano i treni, saccheggiano i furgoni e pelano il cranio ai viaggiatori? - Tutto compreso - rispose Phileas Fogg, che scoprì le sue carte, avendo vinto. Andrew Stuart, cui era venuto il turno di fare il mazzo, raccolse le carte dicendo: - Teoricamente, voi avete ragione, signor Fogg, ma nella pratica... - Nella pratica pure, signor Stuart. - Vorrei proprio vedervici. - Non dipende che da voi. Partiamo insieme. - Il cielo me ne guardi! - esclamò Stuart - Ma scommetterei volentieri quattromila sterline che un tale viaggio, in tali condizioni, è impossibile. - Possibilissimo, invece - rispose il signor Fogg. - Ebbene, fatelo, allora! - Il giro del mondo in ottanta giorni? - Sì. - Lo farò volentieri. - Quando? - Subito. Soltanto vi avverto che lo farò a vostre spese. - Che pazzia! - esclamò Andrew Stuart, che incominciava a spazientirsi dell'insistenza del suo compagno di gioco, e aggiunse - Via, è meglio giocare. - Rimischiate allora, - rispose Fogg - giacché avete dato male. Andrew Stuart riprese le carte con mano febbrile; quindi, tutto a un tratto, deponendole sulla tavola, disse: - Ebbene, sì, signor Fogg, sì, scommetto quattromila sterline! - Mio caro Stuart, - disse Fallentin - calmatevi. Ciò non è serio. - Quando io dico scommetto, - rispose Stuart - è sempre sul serio. - E sia! - disse il signor Fogg. Poi, volgendosi verso i suoi colleghi: - Ho ventimila sterline depositati presso i Fratelli Baring. Li rischierò volentieri! - Ventimila sterline! - esclamò John Sullivan. Ventimila sterline che un ritardo imprevisto può farvi perdere! - L'imprevisto non esiste - rispose semplicemente Phileas Fogg. - Ma, signor Fogg, questo lasso di ottanta giorni è calcolato come un minimo di tempo! - Un minimo ben impiegato basta a tutto. - Ma per non oltrepassarlo bisogna saltare matematicamente dalle ferrovie nei battelli a vapore, e dai battelli nelle ferrovie! - Salterò matematicamente. - È uno scherzo! - Un buon inglese non scherza mai quando si tratta d'una cosa seria qual è una scommessa. - rispose Phileas Fogg - Io scommetto ventimila sterline contro chicchessia, che farò il giro della Terra in ottanta giorni o meno, cioè in millenovecentoventi ore ossia centoquindicimila e duecento minuti. Accettate? - Accettiamo -- risposero i signori Stuart, Vallentin, Sullivan, Flanagan e Ralph, dopo essersi messi d'accordo. - Bene. - disse Fogg - Il treno per Dover parte alle otto e quarantacinque. Lo prenderò. - Stasera stessa? - domandò Stuart. - Stasera stessa. Dunque, - rispose il signor Fogg consultando un calendario tascabile - giacché oggi è mercoledì, 2 ottobre, dovrò essere di ritorno a Londra in questo stesso salotto del Reform Club sabato 21 dicembre, alle otto e quarantacinque di sera; in mancanza di che le ventimila sterline depositate attualmente a mio credito presso i Fratelli Baring vi apparterranno di fatto e di diritto, signori. Ecco un buono per tale somma. Fu steso il processo verbale della scommessa, e venne sottoscritto immediatamente dai sei interessati. Phileas Fogg era rimasto freddo. Egli non aveva certamente scommesso per guadagnare, e aveva impegnato soltanto quelle ventimila sterline - metà della sua sostanza - perché prevedeva che forse gli sarebbe stato necessario prendere l'altra metà per condurre a buon termine quel difficile, per non dire ineseguibile progetto. Quanto ai suoi avversari, sembravano commossi, non già a cagione del valore della posta, ma perché avevano un certo scrupolo a lottare in quelle condizioni. In quel momento suonavano le sette. Si offrì al signor Fogg di sospendere il whist, affinché potesse fare i suoi preparativi di partenza. - Io sono sempre pronto! - rispose l'impassibile gentleman; e, dando le carte, aggiunse: - Volto quadri; tocca a voi giocare, signor Stuart. | << | < | > | >> |Pagina 57Nessuno ignora che l'India - un gran triangolo capovolto con la base a nord e il vertice a sud - comprende una superficie di un milione e quattrocentomila miglia quadrate, sulla quale è inegualmente sparsa una popolazione di centottanta milioni di abitanti. Su una certa parte di quell'immenso paese il governo britannico esercita un dominio effettivo: mantiene un governatore generale a Calcutta, altri governatori a Madras, a Bombay, nel Bengala, e un sottogovernatore ad Agra. Ma l'India inglese propriamente detta comprende soltanto una superficie di settecentomila miglia quadrate, e conta una popolazione da cento a centodieci milioni di abitanti. Ciò significa che una notevole porzione del territorio sfugge tuttora all'autorità della regina; e, difatti, presso alcuni rajà dell'interno, feroci e terribili, l'indipendenza indù è ancora assoluta. Dal 1756 - epoca in cui fu fondato il primo insediamento inglese sulla spianata oggigiorno occupata dalla città di Madras - sino all'anno in cui scoppiò la grande insurrezione dei cipayes, la celebre Compagnia delle Indie fu onnipotente. Essa si annetteva a poco a poco le diverse province, comperate dai rajà al prezzo delle rendite che pagava poco o niente; nominava il suo governatore generale e tutti i suoi impiegati civili e militari: ma ora non esiste più, e i possedimenti inglesi dell'India dipendono direttamente dalla Corona. Perciò, l'aspetto, i costumi, le divisioni etnografiche della penisola tendono a modificarsi di giorno in giorno. | << | < | > | >> |Pagina 125,gra 3Hong Kong non è che un isolotto di cui il trattato di Nanchino, dopo la guerra del 1842, assicurò il possesso all'Inghilterra. In pochi anni il genio colonizzatore della Gran Bretagna vi aveva fondato una città importante e creato un porto, il porto Vittoria. Quest'isola è situata alla foce del fiume Canton, e sessanta miglia soltanto la separano dalla città portoghese di Macao, fabbricata sull'altra riva. Hong Kong doveva necessariamente vincere Macao in una lotta commerciale, e ora la maggior parte del transito cinese si fa inglese. Docks, ospedali, wharfs (scali), magazzini di deposito, una cattedrale gotica, una government house, vie alla Macadam, tutto farebbe credere che una delle città commerciali delle contee di Kent o di Surrey, attraversando lo sferoide terrestre, sia venuta a sbucare in questo punto della Cina, quasi ai suoi antipodi. Passepartout con le mani in tasca si recò dunque verso il porto Vittoria, guardando i palanchini, le carriole a vela, ancora in uso nel Celeste Impero, e tutta quella folla di cinesi, di giapponesi e di europei che si accalcava nelle vie. Suppergiù era ancora Bombay, Calcutta e Singapore che il buon giovane ritrovava sulla sua strada. Tutt'intorno al mondo c'è come una striscia di città inglesi. Passepartout giunse al porto Vittoria. Lì, alla foce del fiume Canton, era un formicolio di navi di tutte le nazioni, inglesi, francesi, americane, olandesi, navi da guerra e da commercio, barche giapponesi o cinesi, giunche, sempas, taukas, e persino delle barchette a fiori che formavano tante aiuole galleggianti sulle acque. Passeggiando, Passepartout osservò un certo numero di indigeni vestiti di giallo, tutti avanzatissimi in età. Essendo entrato da un barbiere cinese per farsi radere «alla cinese», riseppe dal figaro del luogo, il quale parlava un discreto inglese, che quei vecchioni avevano tutti ottant'anni almeno, e che a quell'età avevano il privilegio di portare il color giallo, che è il colore imperiale. Passepartout trovò la cosa molto carina, senza saperne bene il perché. Rasa la barba, egli si recò al molo d'imbarco del Carnatic, e là scorse Fix che passeggiava avanti e indietro: il che non lo sorprese affatto. Ma l'ispettore di polizia lasciava scorgere sulla sua faccia i segni di un vivo dispetto. «In fede mia!» disse tra sé Passepartout «Va male per i gentleman del Reform Club. Tutto ci riesce». E si avvicinò a Fix con il suo giocondo sorriso, senza badare affatto all'aria di malumore del suo compagno. Ora, l'agente aveva fior di ragioni per indispettirsi contro la sorte infernale che lo perseguitava. Niente mandato! Era evidente che il mandato gli correva dietro, e non avrebbe potuto raggiungerlo se non si fosse fermato qualche giorno in quella città. Ora, essendo Hong Kong l'ultima terra inglese dell'itinerario, il signor Fogg stava per sfuggirgli se non fosse riuscito a trattenervelo. - Ebbene, signor Fix, siete deciso a venire con noi sino in America? - chiese Passepartout. - Sì - rispose Fix a denti stretti. - Evviva! - esclamò Passepartout prorompendo in una fragorosa risata. - Lo sapevo che non potevate separarvi da noi. Venite a fermare il vostro posto. Venite! Ed entrambi entrarono nell'ufficio dei trasporti marittimi e noleggiarono dei camerini per quattro persone. Ma l'impiegato fece loro osservare che siccome le riparazioni del Carnatic erano terminate, il piroscafo sarebbe partito la sera stessa alle otto, e non il mattino seguente, com'era stato detto. - Benissimo! - disse Passepartout. - Meglio per il mio padrone. Vado ad avvertirlo. In quella, Fix prese una decisione estrema. Si decise a dir tutto a Passepartout. Era forse il solo mezzo che gli restasse per trattenere Phileas Fogg durante qualche giorno a Hong Kong. Lasciando l'ufficio, Fix offrì al suo compagno di prendere un rinfresco in una tabaccheria. Passepartout aveva tempo e accettò l'invito di Fix. Sul molo c'era una tabaccheria con un aspetto attraente. Entrambi vi entrarono. Era una vasta sala, ben arredata, in fondo alla quale si stendeva un letto da campo guarnito di guanciali. Su quel letto erano adagiati parecchi dormienti. Una trentina di avventori occupava dei tavolini di giunco intrecciato nella grande sala, alcuni vuotavano pinte di birra inglese, ale o porter; altri, boccali di liquori alcolici, gin, brandy; inoltre, quasi tutti fumavano lunghe pipe di creta rossa, cariche di pallottoline di oppio miste di essenza di rose. Quindi, di quando in quando, qualche fumatore snervato scivolava sotto la tavola, e i camerieri dello stabilimento, pigliandolo per i piedi e per la testa, lo portavano sul letto da campo vicino a un confratello. Circa venti di questi ubriachi erano così disposti l'uno accanto all'altro, all'ultimo grado d'abbrutimento. Fix e Passepartout si accorsero di essere entrati in una tabaccheria frequentata da quei miserabili, inebetiti, macilenti, idioti, a cui la mercantile Inghilterra vende annualmente per duecentosessanta milioni di franchi di quella droga funesta che si chiama oppio! Tristi milioni, questi, prelevati sopra uno dei più funesti vizi della natura umana! Il Governo cinese ha pur tentato di rimediare a tale abuso con leggi severe, ma invano. Dalla classe ricca, cui l'uso dell'oppio era dapprima formalmente riservato, quest'uso scese sino alle classi inferiori, e il male non poté più essere arrestato. Si fuma l'oppio dovunque e sempre, nell'Impero di Mezzo. Uomini e donne si abbandonano a questa passione deplorevole, e allorché sono abituati a questa inalazione non possono più astenersene, a meno di risentire orribili contrazioni di stomaco. Un gran fumatore può fumare sino a otto pipe al giorno, ma muore in cinque anni. Ora, appunto in una delle numerose tabaccherie di questo genere, che pullulavano anche a Hong Kong, erano entrati Fix e Passepartout, con l'intenzione di prendere un rinfresco. Passepartout non aveva denaro addosso, ma accettò volentieri la «gentilezza» del suo compagno, salvo restituirgliela a tempo e luogo. Fecero portare due bottiglie di porto, e il francese si fece largamente onore, mentre Fix, più riservato, lo osservava con somma attenzione. Si ciarlò di questo e quello, e sopra tutto dell'eccellente idea che aveva avuto Fix di prendere un passaggio sul Carnatic. E a proposito di questo steamer, la cui partenza era stata anticipata di alcune ore, Passepartout, poiché le bottiglie furono vuotate, s'alzò per andare ad avvertire il suo padrone. Fix lo trattenne. - Un istante - disse. - Che volete, signor Fix? - Ho da parlarvi di cose serie. - Di cose serie! - esclamò Passepartout tracannando alcune gocce di vino rimaste nel fondo del bicchiere. - Ebbene, ne parleremo domani. Non ho tempo oggi. - Rimanete - rispose Fix. - Si tratta del vostro padrone!» A queste parole, Passepartout guardò attentamente l'interlocutore. L'espressione del volto di Fix gli parve singolare: si ripose a sedere. - Che avete a dirmi? Fix poggiò la mano sul braccio del suo compagno, e abbassando la voce gli domandò: - Voi avete indovinato chi ero? - Altro che! - disse Passepartout sorridendo. - Allora vi confesserò tutto... - Adesso che so tutto, compare bello! Ah, che talentone! Basta, dite su. Ma prima lasciate che vi dica che quei gentleman spendono i loro denari molto inutilmente! - Inutilmente! - disse Fix -- Avete un bel parlare. Si vede bene che non conoscete l'importanza della somma. - Ma sì. - rispose Passepartout - Ventimila sterline! - Cinquantacinquemila! - rispose Fix stringendogli la mano. - Che! - esclamò Passepartout. - Il signor Fogg avrebbe osato! Cinquantacinquemila sterline! Ebbene! Ragione di più per non perdere un istante - aggiunse rialzandosi di nuovo. - Cinquantacinquemila sterline! - riprese Fix, che lo sforzò a risedere, dopo aver fatto portare una bottiglia di brandy - E se riesco, guadagno un premio di duemila sterline. Ne volete cinquecento voi, a condizione di aiutarmi? - Aiutarvi! - esclamò Passepartout, i cui occhi erano smisuratamente aperti. - Sì, aiutarmi a trattenere il signor Fogg per qualche giorno a Hong Kong. - Eh! - fece Passepartout - Cosa dite! Come! Non contento di far seguire il mio padrone, di sospettare della sua lealtà, quei gentleman vogliono anche suscitargli ostacoli? Arrossisco per loro! - Ma via, che volete dire? - domandò Fix. - Voglio dire che è una vera indelicatezza. Tanto vale lo spogliare il signor Fogg, pigliargli i denari dalle tasche! - Ma a questo appunto vogliamo arrivare. | << | < | > | >> |Pagina 180Ocean to Ocean: così dicono gli americani, e queste tre parole dovrebbero essere la denominazione generale del gran trunk, ossia della ferrovia che attraversa gli Stati Uniti d'America nella loro massima larghezza. Ma, in realtà, la Pacific Railroad si divide in due parti distinte: Central Pacific tra San Francisco e Ogden, Union Pacific tra Ogden e Omaha. Qui si riuniscono in cinque linee distinte che mettono Omaha in comunicazione frequente con New York. New York e San Francisco sono dunque attualmente unite da un nastro di metallo interrotto che misura non meno di 3786 miglia. Tra Omaha e il Pacifico la strada ferrata valica una contrada tuttora frequentata dagli indiani e dalle bestie feroci, vasta estensione di territorio che i mormoni incominciarono a colonizzare verso il 1845, dopo che furono scacciati dall'Illinois. In passato, nelle circostanze più favorevoli, occorrevano sei mesi per andare da New York a San Francisco. Ora vi si mettono sette giorni. Fu nel 1862 che, nonostante l'opposizione dei deputati del Sud, che volevano una via più meridionale, il tracciato della railroad fu stabilito fra il quarantunesimo e il quarantaduesimo parallelo. Il presidente Lincoln, di sì compianta memoria, fissò egli stesso, nello Stato del Nebraska, alla città di Omaha, la testa di linea della nuova rete. I lavori furono subito incominciati e proseguiti con quell'attività americana che non ama gli incartamenti né la burocrazia. La rapidità della mano d'opera non doveva nuocere per nulla alla buona esecuzione della strada. Nella prateria si procedeva in ragione di un miglio e mezzo al giorno. Una locomotiva, correndo sui binari del giorno prima, portava i binari del giorno dopo, e correva sulla loro superficie a mano a mano che venivano collocati. | << | < | > | >> |Pagina 192Il signor Fogg e i suoi compagni non trovarono la città molto popolata: le strade erano quasi deserte, a eccezione della parte del Tempio, dove non giunsero se non dopo aver attraversato parecchi quartieri circondati da palizzate. Le donne erano in buon numero, il che dipende dalla composizione singolare delle famiglie mormone. Non bisogna credere, però, che tutti i mormoni siano poligami. Non c'è obbligo, ma sono le cittadine dello Utah che desiderano essere sposate, poiché, secondo la religione del paese, il cielo mormone non ammette al possedimento delle sue beatitudini i celibi del sesso femminile. Quelle povere creature non parevano né agiate né felici. Talune, le più ricche senza dubbio, portavano una giacchetta di seta nera aperta alla vita, sotto un cappuccio o uno scialle molto modesto. Le altre erano vestite semplicemente di tela.Passepartout, lui, nella qualità di giovane di convinzioni, non guardava senza un certo spavento quelle mormone incaricate di fare in molte la felicità di un solo mormone. Nel suo buon senso, egli compiangeva soprattutto il marito. Gli pareva terribile cosa avere a guidare tante signore alla volta nelle vicissitudini della vita, condurle così in frotta sino al paradiso mormone, con la prospettiva di ritrovarvele per l'eternità in compagnia del glorioso Smith, che doveva formare l'ornamento di quel luogo di delizie. Decisamente, egli non si sentiva la vocazione, e trovava - forse con un po' d'illusione - che le cittadine di Salt Lake City lanciavano sulla sua persona degli sguardi un po' inquietanti. Fortunatamente, il suo soggiorno nella città dei Santi non doveva prolungarsi. Alle quattro meno qualche minuto i viaggiatori si ritrovarono alla stazione e pigliarono posto nei loro vagoni. Il fischio si fece udire, ma al momento in cui le ruote motrici della locomotiva, pattinando sulle rotaie, cominciavano a imprimere al treno una certa velocità, si udirono grida di «Fermate! Fermate!». Non si ferma un treno avviato. Il gentleman che proferiva queste grida era evidentemente un mormone in ritardo. Egli correva a precipizio. Fortunatamente per lui, la stazione non aveva né porte né barriere. Egli si slanciò dunque sulla via, saltò sulla predella dell'ultima carrozza e cadde anelante sopra un sedile del vagone. Passepartout, che aveva seguito con emozione gli incidenti di quella ginnastica, venne a vedere il ritardatario, al quale s'interessò vivamente, quando venne a sapere che quel cittadino dello Utah si era così dato alla fuga per mettere fine a una scenetta di famiglia. Allorché il mormone ebbe ripreso fiato, Passepartout si rischiò a chiedergli garbatamente quante mogli avesse: dal modo in cui aveva preso il largo, gliene supponeva una ventina almeno. - Una, signore! - rispose il mormone alzando le braccia al cielo - Una, ed era abbastanza! | << | < | > | >> |Pagina 261Il primo fiume le cui acque schiumeggiarono sotto le ruote di un battello a vapore fu il Clyde. Era il 1812. Quel battello si chiamava Comète e faceva servizio regolare tra Glasgow e Greenock, con una velocità di sei miglia all'ora. Da quel giorno, più di un milione di steamers o di packet-boats ha risalito o disceso la corrente del fiume scozzese, e gli abitanti della grande città commerciale devono essere diventati particolarmente familiari coi portenti della navigazione a vapore. Tuttavia, il 9 dicembre 1862, una folla enorme composta di armatori, negozianti, manifatturieri, operai, donne e fanciulli ingombrava le vie fangose di Glasgow e si dirigeva verso Kelvindock, un grande cantiere navale appartenente ai signori Tod e MacGregor. Quest'ultimo nome spiega fin troppo che i famosi discendenti degli highlanders erano diventati industriali, e che di tutti quei vassalli dei vecchi clan avevano fatto tanti operai d'officina. Kelvindock è posta a qualche minuto dalla città, sulla riva destra del Clyde; presto i suoi immensi cantieri furono invasi dai curiosi; non un angolo delle rive, non un muro di wharf, non un tetto di magazzino offriva un posto vuoto; lo stesso fiume era gremito di scialuppe, e sulla riva sinistra le alture di Govan formicolavano di spettatori. Non si trattava tuttavia di una cerimonia straordinaria, ma semplicemente di varare un bastimento. Il pubblico di Glasgow non poteva non essere stufo degli incidenti di simili operazioni. Ma dunque il Delfino - questo era il nome della nave costruita dai signori Tod e MacGregor - offriva qualche particolarità? Veramente, no. Era un grande bastimento di millecinquecento tonnellate, in lamina d'acciaio, nel quale tutto pareva combinato per ottenere una velocità straordinaria. La sua macchina, uscita dalle officine di Lancefield, era ad alta pressione e possedeva una forza effettiva di cinquecento cavalli. Essa metteva in moto due eliche gemelle, situate ai due lati della ruota di poppa nelle parti fisse della medesima, del tutto indipendenti l'una dall'altra, applicazione assolutamente nuova del sistema dei signori Dudgeon di Millwall, che dà una grande velocità alle navi e permette loro di fare le evoluzioni in un cerchio molto ristretto. Quanto alla profondità cui il Delfino avrebbe pescato, doveva essere poco considerevole, e chi se ne intendeva non sbagliava dicendo che quel naviglio era destinato a frequentare passi di media altezza. Ma, infine, tutti questi particolari non potevano dare in alcun modo ragione di quell'accorrere di gente, poiché il Delfino non aveva niente di più e niente di meno degli altri bastimenti. Forse non si poteva vararlo senza superare qualche difficoltà meccanica? Neppure. Il Clyde aveva già ricevuto nelle sue acque molti bastimenti di tonnellaggio maggiore, e il varo del Delfino doveva avvenire in modi del tutto ordinari. Infatti, quando il mare fu stabile, al momento in cui il riflusso si faceva sentire, le manovre incominciarono; i colpi di martello risuonarono all'unisono sui cunei destinati a sollevare la chiglia della nave. Presto corse per tutta quella massiccia costruzione una specie di tremito; si sentiva che barcollava per quanto poco fosse sollevata; il movimento si precisò, si accelerò, e in pochi istanti il Delfino, abbandonando la cala accuratamente spalmata di grasso, si tuffò nel Clyde, in mezzo a vaste volute di bianco vapore. La sua poppa toccò contro il fondo di melma del fiume, poi si rialzò sulla vetta di un'onda gigantesca, e il magnifico steamer, trascinato dallo stesso suo slancio, si sarebbe frantumato contro le rive del cantiere di Govan se tutte le sue ancore, affondandosi nello stesso tempo con formidabile rumore, non ne avessero frenato la corsa. Il varo era riuscito a meraviglia, e il Delfino ondeggiava tranquillamente sulle acque del Clyde. Tutti gli spettatori batterono le mani quando prese possesso del proprio naturale elemento, e immensi evviva si levarono dalle due rive. Ma perché tutti quegli applausi e quelle grida? Senza dubbio lo spettatore più appassionato sarebbe stato in un bell'impiccio per spiegare tanto entusiasmo. Da che proveniva tutta la premura particolare eccitata da quel naviglio? Semplicemente dal mistero da cui era avvolta la sua destinazione. Non si sapeva a quale genere di commercio avrebbe servito; e interrogando i diversi capannelli di curiosi c'era tanto da meravigliarsi per la diversità delle opinioni emesse su un argomento tanto grave. Tuttavia i meglio informati, o coloro che pretendevano di esserlo, si accordavano nel dire che quello steamer doveva avere una parte nella guerra terribile che infieriva allora negli Stati Uniti. Ma non ne sapevano di più, e nessuno avrebbe potuto dire se il Delfino sarebbe stato un corsaro, un trasporto, una nave confederata o un bastimento della marina federale. - Evviva! - esclamava uno affermando che il Delfino era stato costruito per conto degli Stati del Sud. - Hip! Hip! Hip! - vociava l'altro giurando che un più rapido bastimento non avrebbe incrociato sulle coste americane. Era dunque un'incognita e, per sapere esattamente che pensarne, si sarebbe dovuto essere o il socio o l'intimo amico di Vincent Playfair & Co. di Glasgow. Era una ricca, potente e accorta casa di commercio quella che portava per ragione sociale tale nome, un'antica e onorata famiglia discendente da quei lord Tobacco che costruirono i quartieri più belli della città. Quegli abili negozianti, subito dopo l'atto dell'Unione, avevano fondato i primi magazzini di Glasgow, facendo traffico dei tabacchi della Virginia e del Maryland. Era stato creato un nuovo centro di commercio e si fecero immense fortune. In poco tempo Glasgow divenne industriale e manifatturiera; le filature e le fonderie sorsero per ogni dove, e in qualche anno la sua prosperità fu portata al massimo grado. La casa Playfair si tenne sempre fedele allo spirito intraprendente dei suoi antenati, avventurandosi nelle operazioni più ardite e sostenendo l'onore del commercio inglese. Il suo capo odierno, Vincent Playfair, un uomo sulla cinquantina, di carattere essenzialmente pratico e positivo, per quanto audace, era un armatore purosangue. Nulla importava a lui fuori delle questioni commerciali, nemmeno il lato politico delle transazioni; del resto, era uomo perfettamente onesto e leale. Tuttavia, non già a lui apparteneva l'idea di aver costruito e armato il Delfino. Essa era interamente dovuta a James Playfair, suo nipote, un bel giovane di trent'anni, il più ardito skipper della marina mercantile del Regno Unito. Un giorno, nella Tontine Coffee Room, sotto le arcate del municipio, James Playfair, dopo aver letto con rabbia i giornali americani, comunicò a suo zio un disegno molto rischioso. - Zio Vincent, - disse a bruciapelo - vi sono due milioni da guadagnare in meno di un mese. - E che cosa si rischia? - domandò lo zio Vincent. - Una nave e un carico. - Nient'altro? - Sì, la pelle dell'equipaggio e del capitano; ma questo non entra in conto. - Bisogna vedere - rispose lo zio Vincent, che amava molto questo modo di dire. - È tutto visto. -- aggiunse James - Avete letto la Tribune, il New York Herald, il Times, l' Enquirer de Richmond, l' American Review? - Venti volte, nipote. - E credete, come io credo, che la guerra degli Stati Uniti dovrà durare ancor molto? - Moltissimo. - E sapete quanto questa lotta danneggi gli interessi dell'Inghilterra, e particolarmente quelli di Glasgow? - E più specialmente quelli della casa Playfair & Co - rispose lo zio Vincent. - Sicuro. - Io me ne affliggo tutti i giorni, James, e non penso senza terrore ai disastri commerciali che questa guerra può causare. Non già che la casa Playfair non sia solida, nipote mio, ma essa ha corrispondenti che possono mancare ai loro impegni. Ah! Quegli americani, fautori della schiavitù o abolizionisti, io li mando tutti al diavolo! Se rispetto ai grandi principi di umanità, sempre e ovunque superiori agli interessi privati, Vincent Playfair aveva torto a parlare in tal modo, considerando la cosa dal lato puramente commerciale aveva ragione. La materia più importante dell'esportazione americana mancava nel mercato di Glasgow. La carestia di cotone, per usare l'energica espressione inglese, diveniva di giorno in giorno più minacciosa, e migliaia di operai erano ridotti a vivere della carità pubblica. Glasgow possiede venticinquemila macchine, che prima della guerra degli Stati Uniti producevano seicentoventicinquemila metri di cotone filato al giorno, ossia cinquanta milioni di sterline all'anno. Da queste cifre si può giudicare quali perturbazioni fossero apportate nella vita industriale della città quando la materia tessile venne quasi totalmente a mancare. I fallimenti accadevano a ogni ora, e in tutte le officine si sospendevano i lavori: gli operai morivano di fame. Ed era appunto lo spettacolo di tanta miseria che aveva dato a James Playfair l'idea del suo ardito disegno. - Andrò a cercare del cotone e ne importerò, costi quel che costi. Ma siccome era tanto «negoziante» quanto lo zio Vincent, così risolvette di procedere attraverso degli scambi e di proporre l'operazione sotto forma di un negozio commerciale. - Zio Vincent, ecco la mia idea. - Bisogna vedere, James. - È molto semplice. Faremo costruire una nave straordinariamente veloce e di grande capacità. - Questo è possibile. - La caricheremo di munizioni da guerra, di viveri e di abiti. - Tutta questa roba si può trovare. - Io assumerò il comando dello steamer, sfiderò alla corsa tutti i bastimenti della marina federale, e violerò il blocco di uno dei porti del Sud. - Venderai a caro prezzo il tuo carico ai confederati che ne hanno bisogno - disse lo zio. - E ritornerò con un carico di cotone. - Che ti daranno per niente. - Sicuro, zio Vincent. Siamo d'accordo? - Benissimo. Ma passerai? - Passerò se avrò una buona nave. - Se ne farà una apposta. Ma l'equipaggio? - Oh! Lo troverò. Non ho bisogno di molti uomini, purché ve ne siano per le manovre, e basta. Non si tratta di combattere i federali, ma di passar loro davanti. - Passerai loro davanti. - rispose lo zio Vincent in modo perentorio - Intanto dimmi, su quale punto della costa americana fai conto di dirigerti? - Fino a oggi, zio, alcuni bastimenti hanno già rotto il blocco di New Orleans, di Willmington e di Savannah. Ma io voglio entrare direttamente a Charleston. Nessun bastimento inglese, se si eccettua il Bermuda, poté ancora penetrare. Io farò come quello, e se il mio naviglio pesca poco, andrò là dove i bastimenti federali non potranno seguirmi. - Charleston rigurgita di cotone. Lo si brucia per sbarazzarsene. - Sì, - rispose James - senza dire che la città è quasi presa. Beauregard difetta di munizioni e pagherà il mio carico a prezzo d'oro. - Bene, nipote, e quando vuoi partire? - Fra sei mesi. Ho bisogno di notti lunghe, notti d'inverno per passare più facilmente. - Verranno, nipote. - Siamo intesi, zio? - Siamo intesi. - E acqua in bocca. - Acqua in bocca! Ecco perché nessuno conosceva la vera destinazione del Delfino quando, cinque mesi più tardi, lo steamer fu varato dai cantieri di Kelvindock. | << | < | > | >> |Pagina 323Frritt!... è il vento che si scatena. Flacc!... è la pioggia che cade a torrenti. Questa muggente bufera curva gli alberi della spiaggia volsiniana e va a frangersi contro le montagne di Crimma. Lungo il litorale, le alte scogliere sono logorate dalle onde del vasto mare della Megalocride. Frritt!.. Flacc!... In fondo al porto si nasconde la cittadella di Luktrop. Poche centinaia venti di mare. Quattro o cinque vie in salita, più burroni che strade, malamente acciottolate, e ingombre di scorie che provengono dai coni eruttivi dello sfondo. Il vulcano è poco lontano, il Vanglor. Durante il giorno, escono vapori sulfurei. Durante la notte, di minuto in minuto, prorompono fiamme. Quasi faro, della portata di centocinquanta kertse, il Vanglor segnala il porto di Luktrop alle barche di cabotaggio, felzane, verliche o balanze, che solcano le acque della Megalocride. Dall'altra parte della città si ammucchiano poche rovine dell'epoca crimmeriana. Al di là, un sobborgo di stile arabo, una casbah dai muri bianchi, tende di forma conica, terrazze bruciate dal sole. Ammasso di cubi di pietra sparsi a caso. Si direbbe un mucchio di dadi da gioco, le cui punte si siano smussate sotto l'azione del tempo. Tra le altre costruzioni si nota il Sei-Quattro, edificio bizzarro, tetto quadro, sei finestre da una parte, quattro dall'altra. Domina la città il campanile quadro di Santa Filfilene, con campane sospese nelle fenditure dei muri scosse spesso dall'uragano. Cattivo segno. Allora si ha paura in paese. Ecco Luktrop.
Aggiungi case qualunque, capanne miserabili, sparse nella campagna,
in mezzo a ginestre e a brughiere, qua e là, come in Bretagna. Ma non si
è in Bretagna. Si è in Francia? Non lo so. In Europa? Lo ignoro. In ogni
caso non cercate Luktrop sulla carta. Nemmeno nell'atlante dello Stieler.
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