|
|
| << | < | > | >> |Pagina 15Luigi VeronelliPablo ha scritto: «C'è una curiosa espressione inglese, di derivazione latina usata in Oxford ... tipica di un luogo in cui si riproduce il pensiero dominante... La parola è rusticated e si traduce con espulso, scacciato, allontanato dal consesso scolastico, umano e civile, insomma buttato fuori dall'istituto con ignominia. Viene dal verbo to rusticate che a sua volta risale all'antico reductio in rurem ovvero ridotto allo stato di campagnolo, di villico, di ruspante, insomma il negativo del cittadino». Rustichiamoci, ragazzi! Opponiamo le parole di Antonio Onorati: «Il protagonismo contadino, diretto, fatto di donne e uomini in carne ed ossa, radicato tra cielo e terra [questo è lo spazio che si occupa quando si pianta, si semina, si pesca o si alleva con le proprie mani] è il valore più 'alternativo' e radicale». Rustichiamoci non più solo con le parole, coi fatti. Annuncio, ed è superba la gioia, che il Movimento dei movimenti avrà la possibilità di un importantissimo momento di riflessione e azione. A Verona, 11-12-13 aprile 2003, in coincidenza con il Vinitaly, al Centro sociale autogestito La Chimica, si svolgerà "Terra e libertà/Critical Wine". Si affronteranno nodi culturali ed economici fondamentali. Discuteremo, infatti, di vino, terra, agricoltura, ambiente, multinazionali, acqua, cibo, ogm, lavoro, economia, sviluppo sostenibile, altro ancora. Un vero e proprio appello rivolto a ogni essere pensante che abbia il desiderio di un futuro di gioia, di creatività, di intelligenza. In questa mia rubrica sollecito tutte le realtà di movimento a comunicare questa iniziativa e ad inviarci le proprie riflessioni, idee, adesioni, proposte, critiche [per contatti: Muro, tel. 335/700 20 47; Marc 339 / 366 74 70; enopsichedelica@tin.it; red.ev@luigiveronelli.it]. Spero che tu abbia capito. Avremo da divertirci, quei giorni: convegni, dibattiti, stands con vini, oli e prodotti dell'agricoltura e dell'artigianato contadini, editoria ribelle, contatti, contaminazioni, musiche [anche dal Sud del Mondo], incontri con produttori, assaggi enoici e gastronomici. Sarà dedicato particolare spazio alle comunicazioni sui gruppi d'acquisto solidali, all'agricoltura ecocompatibile/biologica, all'importanza del consumo critico, all'olio d'oliva [un caso esemplare di mistificazione e imbroglio legislativo mondiale]; all'ultima trasformazione sostanziale [pensa te, secondo la Wto sarebbe sostanziale non la terra, bensì l'impacchettamento, la confezione], all'agricoltura industriale delle multinazionali contro l'agricoltura contadina planetaria. Infine, per me il massimo, il dibattito: «Lavorare con la Terra: contadini, braccianti, migranti. La moltiplicazione delle mani». Gli stands. Per un'agricoltura dal basso, eccelsa. Una serie di buoni vignaioli/contadini che per mancanza di visibilità non sono conosciuti o sono troppo poco conosciuti dal mercato. Proporranno vini – di mia esasperata selezione sulla base della qualità e del prezzo – con assaggio e successiva possibilità di acquisto e consegna immediata. Una bella risposta – ammettilo – al presidente della Confagricoltura Augusto Bocchini. Ricordi? Aveva affermato ["Corriere della Sera", domenica 24 novembre 2002]: «Siamo prigionieri di un quadro normativo che penalizza la crescita delle aziende... su un campione di 50.000 aziende vinicole italiane, le prime 25 controllano soltanto il 17 per cento della produzione, mentre negli Usa lo stesso numero di imprese ha in mano il 90 per cento del mercato». Altro che moltiplicarle, tagliarle, le mani. Ettore Mancini – il massimo tra gli esperti di agricoltura, a mio parere – commenta su "Veronelli Ev" n. 69: «È così dispiaciuto, Augusto Bocchini, presidente degli agricoltori, che afferma: "Invece la nostra agricoltura soffre inesorabilmente del nanismo dimensionale"».
Nani, siamo dei nani, amici miei. Se questa è l'opinione di
un'organizzazione che dice di parlare a nome e per conto di qualche decina di
migliaia di viticoltori italiani, bisogna concludere che questa miriade di nani,
come li chiama il loro presidente, dovrebbero suicidarsi, per lasciare il posto
a 25 giganti che saprebbero fare i vignaioli meglio di loro».
Pablo Echaurren Suppone tu sappia che esiste un Fronte di Liberazione Nani da Giardino – Front de Libération des Nains de Jardins - che si occupa di rapire e liberare, riportandoli al loro ambiente naturale - cioè i boschi - quelle delizione statuine colorate in gesso o cemento tenute prigioniere da sadiche famigliole, all'apparenza innocue, ma che si ostinano a ergastolizzare i poveri gnometti nei loro terrificanti giardinetti tutti arsenico e furti vecchi vasetti in plastica-simil-coccio. Non sto scherzando. I primi fuochi di insurrezione contro i buonisti-villettisti a schiera si sono registrati in Francia e in Belgio per propagarsi indi in Svizzera, Olanda, Germania, Inghilterra. A Rennes il subcomandante Alphonsine intende non solo liberare fisicamente i nani in cattività con rapimenti e restituzioni dei liberandi agli habitat forestali ancestrali, ma anche denunciare la violenza repressiva praticata dalla società nei confronti dei loro millenari comportamenti trasgressivi essendo notoriamente usi a pratiche allucinogeno-fungive e dediti a allegri costumi lascivi. Tale mortificazione è ottenuta grazie agli ingenti sforzi della più brutale multinazionale dell'immaginario collettivo repressivo, vale a dire la Walt Disney Corporation, la quale ha ridotto Cucciolo, Dotto e gli altri piccoletti in altrettante statuette macchiette che l'ideologia del lavoro sottomette all'imperativo produttivo. L'incendio ha dilagato anche di qua dall'Alpe: nel vogherese hanno fatto capolino le Brigate Nane, nel pavese opera la colonna Amintore Fanfani. Giungono frammentarie notizie di formazioni inneggianti alle basse stature e intitolate a Renato Rascel, altre operanti a La Spezia, a Barga. Sull'altipiano di Asiago è invece insediata una comunità di gnomi di cui io conosco pure nomi e co-gnomi. Non sono balle. Quindi i nani si stanno svegliando e i loro paladini si stanno muovendo. Ora tocca a noi, nani enopsichedelici, trovare la forza per ribellarci, coalizzarci, strapparci alla sonnolenza postprandiale, stapparci, sollevarci contro l'oligopolio dei 25 giganti dominanti. Noi che abbiamo capito una cosa fondamentale e cioè che era sbagliato gridare «L'immaginazione al potere» perché l'una è la negazione dell'altro e viceversa, anarchicamente. O l'immaginazione, dunque, o il potere, tertium non datur. Noi che spesso non affidiamo il nostro impegno al voto perché non ci crediamo più alla delega, noi che le nostre battaglie non le demandiamo alle urne, noi che preferiamo vuotare le bottiglie giuste piuttosto che votare, noi – sì, proprio noi – siamo il partito di maggioranza relativa. Perché non facciamo sentire la nostra voce? Siamo tanti, più di quanto pensiamo, eppure apparentemente non pesiamo, non contiamo, non siamo considerati come interlocutori validi da giornali, tv, politicanti altezzosi. Ma abbiamo un'arma potentissima, possiamo indicarli uno per uno quegli schifosi 25 giganti spocchiosi, metterli all'indice, al pollice verso, che Pollicino gli mandi gli affari di traverso. Possiamo boicottarli, non comprarli. Costruiamo questo Critical wine cominciando a indivisuare chi sono. | << | < | > | >> |Pagina 112Luigi VeronelliLi abbiam visti marciare assieme – 19 marzo, per una pace non pace – i due cambiati in culla: Giovanni Alemanno, ministro Agricolo, e Leonardo Domenici, Presidente ANCI e Sindaco pidiessino. Nulla — quasi nulla — caro Pablo, è stato così malvagio per gli uomini liberi, che il rinnovato connubio – ricordi Burlesconi e D'Alema? – tra chi odia la libertà e chi dice di apprezzarla. Non mi era mai successo, in un percorso giornalistico lungo cinquant'anni, di dover usare il termine malvagità, nel senso più esatto: perversione dell'animo, disposizione al male, a recare danni, a procurare sofferenze, a creare guai e difficoltà agli altri; colpevolezza di pensieri, di azioni, di discorsi, contraria alla legge morale. Bastano la notizia di una marcia concordataria e la lettura di una semplice circolare ministeriale a provocare tanta irrequietezza e così pesanti considerazioni? Temo di non potere andare avanti. La vita, con una morte docile, è sempre stata nella mia speranza. Il Ministero che dovrebbe occuparsi dei prodotti agricoli e forestali e il Direttivo dell'Associazione Nazionale dei Comuni d'Italia, sembrano composti da una serqua di malvagi. Non vi è un solo atto, uno solo, che non sia stato compiuto contro ciò che avrebbero dovuto proteggere. La nostra patria è famosa nel mondo, per i prodotti delle sue terre e dei suoi mari. Dovrebbe trarne ricchezza estrema – sì, estrema – anche per l'aiuto ad un turismo differenziato e più gioioso. Le ciliegie durone di Vignola, il tartufo di Alba, di Acqualagna, di San Gimignano e di altri luoghi privilegiati, le lumache di Borgo San Dalmazzo, gli asparagi di Aldeno, la mozzarella di bufala di Caserta, i pomodori di Pachino, le anguille di Bolsena, la salama di Ferrara, il pandoro di Verona, il panettone di Milano, il pesto di Genova, la cubbàita di Agrigento, la mostarda di Voghera o di Cremona, il parrozzo di Pescara, la bottarga di Cabras, il marmo rosso di Villa Collemandina, i fagioli pievarini di Pieve Fosciana, le mele casciane e i fagioli mascherini di Camporgiano, gli zuccarini di Castelnuovo Garfagnana, il tombea di Magasa, continua continua (potrei riempire pagine e pagine), sono prodotti della terra e della manifattura, di origine certa. La Comunità Europea, incatenata da interessi multinazionali, ha tentato, con una serie malvagia di regole, di annullare il concetto stesso di origine (ma ora ci ripensa con la Direttiva Europea n. 13/2000 e il Decreto Legislativo attuativo del 23.06.03). Una serqua di nostri politici e funzionari, corrotti o ignoranti, in malvagia solidarietà, anziché opporsi, hanno accettato le imposizioni dei ricchi più ricchi, stranieri, soprattutto americani e svizzeri, e no. Se confrontati al danno economico e finanziario, giorno via giorno, portato a ciascuno dei cittadini italiani, in particolare dalle quote latte e dagli oli "chimici", sono nulla gli scandali della Parmalat e della Cirio, che tanta gente ha mandato in malora. Nel pieno rispetto delle leggi etiche e naturali e tuttavia senza strappo alcuno ai malvagi regolamenti comunitari, ho tentato con la proposta delle De.Co., Denominazioni Comunali, di salvare – sì, salvare – l'economia e la finanza della mia patria. La Denominazione Comunale – che avrebbe dovuto avere il pieno appoggio governativo (anche in considerazione della Legge Costituzionale n. 3, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, il 24 ottobre 2001) – non è un marchio di qualità, bensì un semplice certificato notarile contrassegnato dal Sindaco che ne ha la piena potestà.
Che speranza abbiamo Pablo? Vi sarà qualche "parte" onesta e intelligente,
pronta a ricevere il testimone e a portarlo avanti? Leggo il tuo scritto, quello
della scorsa settimana, e temo proprio di no.
Pablo Echaurren Caro Luigi, ti stupisci del connubio di opposti che in definitiva sono solo supposti tali. Io no. Ogni alleanza, ogni matrimonio politico lascia supporre un mercimonio, uno scambio di favori, di ori, di incensi, di intensi traffici sottobancor (bancor era la moneta internazionale sognata da Keynes per impedire e di fatto proibire, i flussi internazionali di attività di portafoglio in modo da non lasciare il mercato in balia degli speculatori senza scrupoli). A lorsignori interessano le fibrillazioni delle supervalutazioni, gli investimenti a breve, non sanno ragionare a lungo e largo raggio. Ritengono più proficuo strozzinare i compratori che agevolare i produttori. Le pagine dei nostri giornali traboccano di informazioni su Piazza Affari, aggiornamenti sul Mibtel, sul fixing di Tokio, su Wall Street, sulle azioni, sui titoli, sui bond, sui gold. Ci si sbellica dalle risate quando si racconta di come i popoli cosiddetti primitivi, i precolombiani, i tahitiani, gli africani, pagassero le loro transazioni con semi di cacao, con conchiglie, con grosse pietre bucate, e noi, paraculi, gli rifilavamo le collanine di vetro, gli specchietti, le sveglie al collo. Ci vantiamo delle nostre economie, delle banche, delle palanche, delle leggi che organizzano lo scambio delle valute, le quotazioni, le certificazioni pagabili al portatore, eppure l'origine stessa della borsa, intesa in quanto luogo di contrattazioni, è molto più idiota di qualunque chicco di cacao usato come moneta corrente. Che alla peggio lo si potrebbe tostare e mangiare. La borsa, come la intendiamo oggi, regolamentata, emulsionata, anabolizzata, è nata a Amsterdam e da subito ha preso una brutta piega, ha mostrato quale magagna, quale piaga nascondesse, insomma è stata travolta dal crack più colossale della storia. E sai perché? Perché avevano fondato tutta la sua autorevolezza sulla bellezza e sulla delicatezza dei tulipani. Gli olandesi andavano pazzi per le varietà screziate, dilapidavano le loro ricchezze per un solo singolo bulbo. Tra tutti il Semper Augustus era il più ricercato, il più pagato, un singolo esemplare fu scambiato con il più prestigioso palazzo cittadino. Nessuno scienziato all'epoca (si parla della prima metà del 1600) sapeva spiegarsi come mai un fiore sostanzialmente monocromo producesse delle varietà tanto bizzarre, imprevedibili, irriproducibili in serra e per questo altamente concupibili. In realtà era il comune pidocchio la ragione di tale alterazione, di cotanta rarità. All'improvviso, raggiunto l'apice della valutazione floreale, tutta la costruzione commerciale crollò miseramente, da un giorno all'altro, plof. Madre natura aveva prodotto la più grossa crisi finanziaria del mondo, il mercato era bacato, non per modo di dire ma letteralmente, da un difettino, un insettino piccolino picciò. Ma questo disastro annunciato non vaccinò del tutto la borsa olandese che, meno di un secolo dopo, si rimise in corsa, ripresa dagli spasmi tetanici di una nuova febbre di investimenti botanici. Questa volta però si trattò di giacinti. Non diversamente da allora noi continuiamo a percorrere la medesima strada sconocchiata, lastricata di convenzioni fallaci e convinzioni deliranti secondo cui l'economia di un paese, di un'azienda, di un popolo, dipende da voci di corridoio, soffiate, ammiccamenti, ammanicamenti. È inaccettabile che le sorti dell'umanità siano rette da un manipolo di teste d'uovo che comprano e vendono secondo gusti e umori mutevoli, bizzosi, pericolosi, ombre impenetrabili che si scambiano impulsi elettronici, moneta dematerializzata, maneggiano capitali virtuali ordinati in sequele di numeretti luminosi che appaiono e scompaiono sui display ridisegnando continuamente i confini dell'impero. Il potere della finanza svuota le democrazie. Nomini i fagioli pievarini, quelli mascherini, gli zuccarini, per loro sono moscerini da schiacciare, al massimo da far fruttare come marchio da industrializzare e svuotare di senso in una pallida imitazione dell'originale. La terra e la serra intensiva, invasiva, lesiva. Tutto sta nell'occhio di chi guarda. Noi guardiamo al futuro, loro ai "future". | << | < | > | >> |Pagina 150Luigi VeronelliPablo, il tavolo di concertazione romano che vogliamo – in pochi – sui problemi agricoli e alimentari è proprio un banco di prova. Una craniata contro il muro: o lui, o la nostra testa. «È conviene che se tu poni la mano in sulla spada che io te la ficchi in culo che ti faccia stare dritto». Frase di un bel libro, poco conosciuto: Ingiurie, improperi, contumelie, ecc. Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai libri criminali di Lucca, a cura di Bongi, edito dal Propugnatore, 1983. I primi effetti col ministro Giovanni Alemanno non sono stati del tutto negativi, viste le provvidenze sull'etichettature, finalmente portate avanti e sia pur con qualche timidezza. Qualche timidezza? Sai qual è stata la reazione del conte Luigi Rossi di Montelera? "La Stampa" di Torino, lunedì 2 agosto: «FEDERALIMENTARE CONTRO LA LEGGE SULLE ETICHETTE. L'industria alimentare dichiara "formale battaglia" alla nuova legge sull'etichettatura dei prodotti alimentari. Per il presidente di Federalimentare, Luigi Rossi di Montelera, la qualità dei prodotti dipende anche dalla capacità degli imprenditori di selezionare, miscelare e lavorare sapientemente le materie prime, nazionali ed estere. E annuncia che verrà presentata alla Commissione europea la denuncia per violazione, da parte dell'Italia, delle procedure e delle regole stabilite dalla Ue». Te capì? Anche per lui dovremo porre la mano in sulla spada (si fa per ridere), ficcargliela in culo così che impari a stare dritto. Chiaro, non gli sono bastati la CIRIO e la PARMALAT. Aumentiamo il contento del signor conte – Luigi Rossi di Montelera, pensa tè – con l'annuncio della costituzione di Bottega.Okkupata, Magazine on-line di resistenza bottegaia, www.parlacomemangi.com, responsabile Guido Porrati. Gli ho scritto: «Caro Guido, Massimo Angelini mi aveva fatto cenno della tua iniziativa. Tu, ora, la confermi. Sii benedetto. / Nipote di un fornaio, Luigi Veronelli, che ha lavorato tutta la sua vita di notte per garantire ai clienti buon pane, credo di aver pensato alle Denominazioni Comunali (De.Co), soprattutto per il ricordo del suo impegno. / Assistere alla scomparsa delle botteghe per colpe multinazionali, era troppo. / Le industrie alimentari – Nestlè, Unilever, Monsanto, Federalimentare, continua continua – non dovrebbero esistere, da che qualsiasi alimento, prodotto fuori dai luoghi di produzione degli ingredienti, è destinato ad immediata decadenza sul piano del gusto. Le multinazionali possono combattere quanto vogliono, anche coi mezzi più repugnanti, contro il "fenomeno" husserliano dei prodotti dei luoghi bene dichiarati, riconoscibili e protetti, che diviene, di giorno in giorno sempre più esigenza. / Quando pubblicai il mio progetto per le De.Co. – Fiera Agricola di Verona, 1999 – il critico economico del "Corriere della Sera", Bruno Caizzi, affermò, testuale "se passa questa proposta entro 20 anni i supermercati chiudono". Subito si sono messi contro i malfattori, millanta che tutta notte canta. Chiuderannp tuttavia. / Oggi c'è la Legge Costituzionale n. 3, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, il 24 ottobre 2001, che passa la legislatura e la possibilità di modifica della legislazione, in agricoltura, dritto dritto al Comune. I politici fingono di ignorarla. Ma è nella coscienza popolare. Certa la sua realizzazione». Propositi puntuali delle Botteghe Occupate è il contatto diretto dell'esercente con il pubblico, così da poter proporre i prodotti della terra, sia naturali, sia manufatti, al meglio. Ossia quei prodotti che nella grande distribuzione non possono avere reale accesso. Come ho scritto c'entra Massimo Angelini, professore genovese che ha messo la sua intelligenza e il genio a favore degli altri. Con una precisa scelta: gli altri sono i contadini che, anche nella sua terra, tra le più ricche d'Italia, la Liguria, hanno necessità di prendere coscienza e di rivendicare – sia per i prodotti naturali, sia per quelli manufatti – una prosperità troppo a lungo sottratta.
Last. Il mio missionario, Angelo Pagliaro – che vive e combatte in una terra
tra le più belle e più difficili d'Italia tutta, la Calabria – mi comunica che i
seguenti comuni: Belmonte Calabro, Fuscaldo, Cetraro, Acquappesa, Guardia
Perticara, San Lucido, hanno deliberato la De.Co. per la protezione dei propri
giacimenti colturali e culturali. Avanti, Angelo, ad majora.
Pablo Echaurren Anche le etichette più chiare, fresche e trasparenti possono contenere idee oscure. Follie d'estate. Dice: la matematica non è un'opinione. A seconda. Frequento abitualmente uno di quei luoghi ameni che il ministro Sirchia d'estate vuole destinare a ospitare i soggetti a rischio di collasso, d'infarto, di colpo di calore: il supermercato. C'è l'aria condizionata, sostiene. L'ambiente (assieme alle caserme dei pompieri) è l'ideale per chi resta in città, per chi non va al mare o in montagna, per chi vivacchia nella micragna e non si può permettere le vacanze alle Maldive. Fa sempre bene alla salute farsi un giretto col carrello, snebbia il cervello, così come fare la pennica sdraiati sul banco dei surgelati oppure prendere una boccata d'aria confezionata nel settore spray e deodoranti. Ma mi sa che a volte manco questa terapia basta a mettersi al riparo dalla follia da insolazione. Che insomma il colpo fatale lo si può beccare pure all'interno di uno di questi paradisi climatizzati. Altrimenti non si spiega ciò che mi accingo a narrare. Il 3 agosto (2004), mentalmente refrigerato dai forti climatizzatori della mia Coop di riferimento, sto valutando con intento spendereccio la metà di un cocomero quando un tizio mi guarda fisso come fossi matto da legare. Gli sto per fare il tipico gesto del braccio che serve a indicare agli sprovveduti dove portava l'ombrello mio nonno quando egli mi fa cortesemente notare che il prezzo di quel mezzo che sono lì lì per comprare è di 0,54 euro al chilo. Embè? gli rispondo, non ci vedo niente di male, mi pare onesto, comunque non ho termini di paragone, non sono ancora in grado di gareggiare con la casalinga oculata e informata che si aggiorna prima di acquistare l'insalata, quella prefigurata dal Cavaliere Cavoliere, dal Premier Contadino & Ortolano. Ma il signore mi consiglia di osservare meglio il costo del popone: 0,19 euro per quello intero. Ho un sobbalzo, non è un'offerta speciale, un errore di battuta, una liquidazione di inizio stagione invernale, no, è la normale tariffa riportata sull'etichetta che varia se uno si prende l'intero o solo la parte. Quasi triplicato. Dunque viene premiato l'acquirente palestrato, quello che tutta la settimana si è gonfiato coi manubri, si è pompato con gli anabolizzanti, si è dedicato al sollevamento pesi. Lui, solo lui, gagliardo e forte, può tranquillamente ingropparsi e sobbarcarsi i 6-7 chili di un'anguria, non certo la vecchina che già fa fatica a sollevare la bottigliona di varechina... lei al massimo può concedersi una fettina piccolina picciò, un trancio da rancio ospedaliero, una porzione assottigliata da dieta bilanciata. Mica pole incollarsi tutta la cucurbitacea col pericolo di schiacciarsi l'ultima vertebra sana, di lussarsi la spina dorsale, di fregarsi la cervicale, e sai con quale aggravio sul bilancio sanitario nazionale. Dunque è per aiutare i soggetti più deboli, per evitare traumi ai ceti più fragili, per dargli una mano a sostenere il peso della loro sfortunata condizione che glielo si dimezza, il peso. Se di conseguenza il prezzo lievita questo è il costo dello Stato sociale, del welfare, dell'assistenzialismo, dell'altruismo disinteressato. E poi vaglielo a dire a Berlusconi che vuole ridurre le spese del settore. Bhè, certo se gli si permettesse di tagliare i rami secchi, di segare le pensioni, di capitozzare le invalidità, di azzerare le indennità, le sovvenzioni alla sanità, potremmo tranquillamente ripristinare l'equo costo del cocomero.
E chi se ne frega se le vecchine schiattano sotto il peso esorbitante.
Luigi Veronelli Ciascuna persona civile che abbia letto – nelle ultime "Le Parole della Terra" - della tua vecchina al supermerato, dovrebbe aver capito gli infiniti marchingegni che i ricchi più ricchi adottano nei confronti dei cittadini, siano vecchi o no, per diventare ancora più ricchi. Avevo sospeso la lettura dei giornali perché ti trovo, Pablo, più interessante e nel futuro. Batti e ribatti, qualcosa otteniamo. Ne riprendo la lettura – dei tanti "fogli", dico – e mi accorgo che il 15 agosto (scrivo queste mie note 1'8) è preannunciato il pellegrinaggio del Santo Padre (le maiuscole sono dovute al rispetto delle credenze altrui) a Lourdes. Ci va per motivi millanta che tutta notte canta. Chissà che non mediti anche, a tanti secoli di distanza, di chiedere scusa a nome delle Chiese Abramiche (ormai tendono a fare tutt'uno) per il peccato originale. Navigo poco la storia delle religioni. Qualche riga e subito mi trovo in meandri, i cui protagonisti sono dei Mandrake. Fanfole e non fatti. Vedi un po' Paolo Apostolo. Ci aveva indicato conseguenza del peccato (?) di Adamo la morte, la miseria, la sofferenza. Una seconda volta illuminato sulla via, alla Mandrake, Paolo precisa la colpa di Adamo quale origine del peccato di tutti gli uomini e della loro nativa condizione di peccatori. Top là, Mandrake. Ogni legge civile riconosce i figli non colpevoli dei misfatti dei padri. No che la mia Benedetta, Chiara e Lucia, alla nascita, erano già peccatrici. Ciascun bimbo, di ogni luogo del mondo, qualsiasi le religioni, lo è per la più orrida delle colpe: quel peccato originale. Certo, a noi che atei siamo, viene in mente l'aforisma di Cesare Pavese: «Se il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì». A noi che atei siamo – e quindi persone di buon costume – ci è difficile pensare ad una fornicazione a 2 (uso le minuscole), il padre eterno e lo spirito santo sulla ignara Maria. A noi che atei siamo è incomprensibile ed ormai insopportabile la corrività o peggio la credulità di tante brave e intelligenti persone, per millenni. Un peccato originale, voluto da un iddio. Causa di tutti i mali, le catastrofi, le guerre, i terrorismi, via via a diminuire sino alla masturbazione di un gioioso ragazzino. L'alzheimer mi ha tolto quel pezzullo – di Husserl? di Freud? – su cui si dovrà pur meditare. Vi si accenna al peccato originale quale possibile motivo primo delle più tristi delle malattie, depressione e follia. Ma no, quel papa polacco, ammirevole per la forza e i sacrifici che compie per fanfole creduli e corrive, non chiederà scusa. Esalterà Maria, unica madre vergine. Quanto ti ho scritto è serio serissimo. Se la società vorrà uscire da millenni d'orrore e ritrovare la pace (altro che le preghiere), dovrà costringere le "intelligenze" ad occuparsene. A me non andò giù, una ventina d'anni fa – scrivevo per "l'Espresso" – la mancata presa di posizione di Eugenio Scalfari sul puntuale rinnovo, settembrino, del decreto sullo zuccheraggio (miliardi di lire passavano / passano, dalle tasche dei contadini a quelle di alcuni ricchi più ricchi). Ritenne trattarsi di questioni dappoco. Meglio parlare di ripresa congiunturale, reddito nazionale, domanda interna, esportazioni, plusvalenze delle Borse, tassi d'interesse, altro ancora. Lo fa ancora oggi, puntuale puntuale su "La Repubblica". I problemi agricoli? Che sono i problemi agricoli?
Avverto i tanti Eugenio Scalfari della stampa: solo la presa in
considerazione delle parole della terra può portare, per il nostro paese,
all'uscita dalle difficoltà economiche. Per cui li invito – a vent'anni di
distanza, con qualche speranza – a prendere parte al tavolo di concertazione che
i Centri Sociali e i Movimenti organizzano durante il mese di ottobre, in Roma.
Saranno discussi proprio i problemi dell'agricoltura, dell'artigianato e
dell'ospitalità, con insistenza su due proposte due: la De.Co., Denominazione
Comunale, così da sottrarre alle multinazionali e alle industrie alimentari ciò
che è dei Comuni (la possibilità del benessere) e il Prezzo Sorgente; indichi su
ogni confezione il costo a cui è venduta "alla sorgente"; compresa quindi la
giusta remunerazione del produttore.
Pablo Echaurren Più che con Eugenio Scalfari sarebbe meglio parlarne con un contro economista di formazione patafisica, la scienza che studia le soluzioni immaginarie delle scienze arbitrarie. Solo con lui, con un anti pauperologo laureato alla Orbona, potremo trovare le risposte adeguate per avviare una soddisfacente ripresa nazionale. Solo un brillante allievo del dottor Faustroll potrebbe indicare quale sia il modo più efficace per abbandonare il calcolo del reddito frazionale (inteso come frantumazione e erosione progressiva della busta paga), come si possa risolvere il deficit di domanda interna per mezzo di una ricca quaterna al gratta-e-vinci, come implementare efficacemente le e/sport/azioni (che è quell'attività olimpionica consistente nel lancio del bilancio oltre l'estratto conto e/o nel sollevamento del proprio capitale azionario senza beccarsi una distorsione del reddito e una dispersione di valuta), come investire efficacemente le plusvalenze delle Borse del Forse (forse un dì toccheranno anche a noi miscredenti i sublimi dividendi), come ottimizzzare gli scassi d'interesse (solo coll'effrazione è possibile far quadrare le entrate con le spese a fine mese). Noi ci rivolgiamo a un altro mercato, un mercato che si è smarcato dalla tenaglia dei bisogni indotti, che si è liberato del consumo sfrenato, che è gioiosamente sbracato. | << | < | > | >> |Pagina 176Pablo EchaurrenTi ringrazio del fatto che mi chiami 'figlio': Io mi ci sento. Da sempre privo di un padre che non si limiti al puro dato biologico ma sia presente, in grado di infiammare l'entusiasmo, carezzare l'ingenuità, attizzare la curiosità. In cerca perenne di un padre suscitatore di stupore, che non permetta che svanisca il candore. E lo sdegno. Un padre educatore. Ma padre non lo sei solo mio. Ti reclamano in tanti. Forse troppi. La violenza — dici — l'esempio del gesto estremo, non l'ho mai condiviso, manco quando ero un guagliuncello scavezzacollo. Perfino nella bufera di rabbia più trascinante e tracimante non mi auguro mai la morte del mio nemico. La sua disdetta, la sua sconfitta, una fine derelitta, quella sì. Vederlo ridotto in braghe di tela, senza potere, col sedere sul selciato. Allontanato forzatamente dal palco, privato del talco sul culetto, orbato della platea, della piaggeria, della nomea: sprofondato nell'anonimato. Senza più pennacchi, stucchi barocchi, cocchi, preda di fragorosi pernacchi. Ma mai mettersi al suo stesso livello di brutalità, di meschinità, di volgarità. Mai lasciarsi contagiare, fuorviare, fagocitare, mai assecondare il suo basso livello. La dannazione risiede nella tentazione dell'imitazione. O l'immaginazione o il potere. Qualunque crudeltà o stupidità non deve mai essere ripagata con la sua istessa moneta. Non si può rispondere con un solo singolo sgozzamento a un bombardamento, per quanto cruento, indiscriminato e bestiale esso sia. Non si pole praticare una condotta similare a quella di colui che si vole sradicare. Vorrebbe dire sostituire malfattori con altri sopraffattori, pur se di segno diverso. Il sangue non chiama sangue, l'occhio non deve pretendere il tributo dell'occhio altrui: il dente che si predispone a azzannare il proprio simile per ripicca è un dente perdente. Qui deve stare la differenza tra noi e loro. Basta guardarli in faccia, leggere i lineamenti contratti dei loro visi, gli sguardi biechi, i tagli obliqui dei loro sorrisi, il rictus, l'ictus aggressivo, la fissità della pupilla, la smania che li assilla. Il vuoto che li assedia. Il deserto che li incalza. Io non li invidio certo, non mi ci scambierei, mai e poi mai. Preferisco auscultare con tigo le parole della terra. La terra, Gaia o Gea, è un organismo vivente, senziente, si nutre, ha caldo o freddo, suda, trema, scagazza, sputazza, scatarra, quando si ammala, sviluppa anticorpi, debella i virus, si gratta le pulci, pugna contro la rogna che l'assale. Cioè noi. Ma pure gioisce. In ogni filo d'erba, in ogni acino d'uva che si impregna di sole, in ogni piuma che si libra nell'aria cadendo da un'ala. In una rana che scompare in un gong d'acqua, direbbe il maestro di haiku Matsuo Basho. E lorsignori? Sanno gioire? Forse sanno godere, voracemente, rapacemente. Ma gioire? Questo segna il vallo tra noi e loro. Tra chi apprezza le sfumature e chi schiaccia, minaccia, va a caccia di teste da tagliare per non dover sentire la loro voce. Perché teme le domande che potrebbero porgli. E le risposte che dovrebbe dare, darsi. Magari una mattina guardandosi allo specchio. Dato che guardare non è la stessa cosa di vedere. E ciò non vale solo per destra e sinistra, per reazione e rivoluzione, per chi pratica la ragione e chi si lascia dominare dal pregiudizio. Ma è trasversale, attraversa tutti i campi, invade le differenti appartenenze, definisce chi evade le coscienze. E chi invece no. Vedo che mi sono lasciato prendere un po' la mano, che ho dato sfogo al pistolotto, che ho spisciolato fuori dal vasetto. Mi scuso dell'abuso e prometto che non lo faccio più. Lascio che le parole della terra tornino alla terra, polvere alla polvere, cenere alla cenere. Lei è loquace, ma in silenzio.
E tu sai decrittarlo alla lettera il linguaggio del paesaggio.
P.S. In chiusa di questo lungo dialogo faccio la mia immodesta proposta. Dico, vabbene le De.Co, vabbene proteggere le peculiarità del territorio, vabbene presidiare, come dicono con un termine sospetto di militarismo, di militantismo neocatecumenale, le sentinelle di Slow Food. Vabbene fomentare il consumo mirato, informato, ma perché i singoli comuni — specie i piccoli comuni — non istituiscono delle osterie zonali? Pensa te se ogni comune - ogni piccolo comune soprattutto - potesse, volesse fornire un servizio di ristorazione basato esclusivamente, testardamente, intelligentemente, sui prodotti locali. Non la solita Fiera delle Tipicità o la Sagra Sindrome da scampagnata. Un centro di raccolta delle ricette perdute, della convivialità negata, dell'asdora (o resdora che dir si voglia) ahimè giubilata. Dove possano rivivere le pietanze estinte, le tinte forti ormai scomparse dalle mense, accantonate dalla prescia del break, demonizzate dalla furia dietetica, estetica, del crudo, del molecolare, del destrutturato, del sifonato, del finger food, del new mood, del rivisitato a tutti i costi. Immolate sull'altare del sofisticato arzigogolato e svuotato di senso. È un classico: quando ti trovi in un nuovo paese cerchi sempre il posto giusto dove inforcare il cibo peculiare, perciò chiedi all'amico, invochi la dritta dal giuda di passaggio, compulsi la guida, scegli, entri e quasi mai ti imbatti in quell'atmosfera che avresti sperato di imbroccare. Chi cavolo se lo ricorda il sapore del colore? Magari credendo di trovarlo sei disposto a sganciare, a spostarti di regione in regione, a trasmigrare, a pellegrinare al Salone del Gusto, a mendicare dal gioielliere-salumiere di via Montenapoleone, a sbirciare al Centro di Degustazione della Televisione, tutti posti in cui lo propongono in forma lievemente alienata. Perché invece nessuno ha pensato di introdurre l'uso del Desco Comunale, della Fucina del Gusto, della Cucina del Popolo di antigua e non ambigua memoria? Immagino sale accoglienti, sobrie apparecchiature, semplici bicchierature, robuste cotture, assenza di elaboratore à la page, delle astruserie in voga, viceversa sogno artuserie, servizio informale, leccarde, pietanze maliarde, calde compagnerie. Mi ricordo, caro Gino, quando tu, Christiane e io andammo in Lunigiana accolti da Gian Battista Martinelli (autore con Maria Marchetti de La cucina del mezzadro, Edizioni Il Corriere Apuano, Pontremoli, 1999) che ci approntò un pranzo da romanzo di cappa e piada. Tutto a base di testaroli. Al pesto e/o col pecorino, unici protagonisti di un desinare da sovrani. E noi seduti al desco a rimirarci i cocci soprani e sottani che si arroventavano nel grande camino collodiano. Fu uno spettacolo seguire l'anziana signora che con gesti eterni sfornava, scolava e condiva. Sacerdotale. Atemporale. Muta. Non c'era bisogno di spiegare alcunché, la cerimonia si commentava da sé. Fu un'esperienza plateale, palatale, totale, che mi s'è impressa nella cucurbita assai di più di una apponziata puntata all'Enoteca Pinchiorri, Chez Vissani, alla Locanda dello Gnorri. Ogni borgo, ogni località, ogni frazione, potrebbe concepire un proprio ritrovo dove mangiare, parlare e bere con la certificazione e la benedizione del Comune di ascendenza. Dove trovino lavoro full & part-time, sfogo creativo e narrativo, tanto i giovani, i disoccupati, le casalinghe, quanto le nonne, i nonni. E ancora, vignaioli, casari, panettieri, salumieri, artigiani, poeti. Uniti nella volontà di emanciparsi, autogestirsi e raccontarsi. Dare insomma voce alle parole della terra da cui provengono, aprire i tinelli, far ruotare il personale ai fornelli, introdurre le mense sane in corpore sano. Imbastire una rete di indirizzi ben infissi nel territorio in cui poter incontrare nuovi amici, in cui condividere i cibi e le loro radici. Potremmo chiamarli "I Veronelli". Sarebbe bello, sarebbe giusto.
Sarebbe dovuto.
Luigi Veronelli L'isolotto di Santo Stefano è il "resto" di una antica eruzione sottomarina, una successione di basalti e di tufi. Il più orientale e piccolo dell'arcipelago Pontino, ha forma ellittica con un diametro massimo di 750 metri da est ad ovest, minimo 500 da nord a sud; la circonferenza è di 2 chilometri, l'altezza di 68 metri. Gli è stato dato il nome in onore di Santo Stefano, martire del 35 d.C. Un suo discorso ripercorreva la storia di Israele, da Abramo a Gesù e metteva in evidenza il disegno di Dio e l'infedeltà del popolo. Gran scandalo. Gli oppositori, furibondi, lo condussero fuori città e lo lapidarono. All'esecuzione era presente Saulo, il futuro Paolo apostolo che: «approvava e stava a guardia dei mantelli dei lapidatori». Sì, alla bellezza e alla serenità sconvolgenti dei panorami, lugubre la storia. Già dagli imperatori romani, fu luogo di deportazione. Augusto vi relegò la figlia Giulia, Tiberio Agrippina Nerone, la moglie Ottavia e qui la fece uccidere. Qualche secolo dopo, Ferdinando IV eresse l'Ergastolo (la E, maiuscola, è voluta: millanta i santi e i martiri che vi furono rinchiusi). Penitenziario eretto nel 1794-95 a tre piani, 99 celle e un cortile per l'aria dei carcerati. L'isolotto era stato acquistato, anni Sessanta, da un vignaiolo mitico, Mario D'Ambra (meditava d'impiantarvi vigne di forrastera e di perèpalummo). Un suo contadino abitava quello che era stato – fuori dalle mura del carcere – una avanguardia. Grande sala con un camino e vari vani per gli ospiti, cacciatori, soprattutto da che l'isolotto ha fama per il passaggio di beccacce e beccaccini (il contadino, un genio, aveva provvisto ad una minima conigliera; ad ogni sacrificio ubriacava le bestiole di alcol, così che non avessero il rigor mortis). Fui il solo ospite con le mie quattro donne: Maria Teresa, moglie, Bedi, Chiara e Lucia, figlie. Dedicavo le ore familiari al mare (luogo migliore: una buca basaltica, prediletta, anni annorum, da Agrippina); le ore notturne, solo mie, all'Ergastolo, per "ricerche" sul santo martire, Gaetano Bresci. Ho camminato i lunghi corridoi e le celle; ho sostato – si arrovesciava il cuore – nelle "gabbie" di rigore, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo, sottosuolo. Chi v'era rinchiuso non poteva stare eretto. Sapevo della lunga detenzione, in quelle celle, cui era stato costretto il giovane atleta, giunto di lontano, per attentare e uccidere, 29 luglio 1900, re Umberto I. Lo aveva fatto. Ed oggi ci si rende ben conto: aveva sbagliato. Oggi. Era venuto dagli States ove collaborava a "La questione sociale", inferocito, per le repressioni vili e sanguinarie, di Bava Beccaris, fine 1800. Si era convinti, allora, che uccidere un re, colpevole verso l'umanità, fosse un atto risolutivo. Fu rinchiuso in una delle gabbie, sottosuolo, in Santo Stefano. Se la cammini, l'isola, anche nei luoghi più incantati per l'ardire senza uguali della bellezza, appena appena ti estranei, senti voci, non solo del vento. Ti raccontano le persecuzioni di cui fu oggetto, in quelle gabbie, un metro e mezzo, per un metro e mezzo, per un metro e mezzo. Visse da uomo libero. Non rinnegò la sua idea. Non ottenne un metro, per un metro, per un metro, di più. Non ergastolo. Fu condanna alla morte. Morì pesto e battuto nella carne (la sua anima non poteva essere battuta, pestata, offesa; era l'Anima), dieci mesi dopo la reclusione, 22 maggio 1901. Maria Teresa e le figlie – in quel periodo tra i più belli della nostra vita – una volta sola si accorsero del mio turbamento. Quando entrammo nel minimo cimitero, infoibato tra le rocce (ti voltavi ed era un paradiso: il mare e, un po' decentrata, l'Isola di Ventotène). Una frase all'ingresso: «Qui finisce la giustizia degli uomini. Qui comincia la giustizia di Dio», minime croci di ferro arrugginito e dei cartigli ai piedi. Là, proprio là, il cartiglio di Gaetano Bresci. Piangevo, va da sé; Maria Teresa mi guardava commossa. Mi prese la mano. Ammutolite le bimbe. L'Anima è il rispetto dell'altro. La giustizia di Dio una palla. Quella degli uomini dovrebbe perseguire i criminali tipo Bush e Bin Laden. Dovrebbe colpire tutti coloro che schiavizzano l'umanità per diventare, giorno via giorno, più ricchi. Leggi il documento emesso dall'ARCI Comitato Regionale Toscano sulle ignominie della famiglia Bacardi (www.arcitoscana.org/ internazionali /inibac.htm). Abbi il minimo, civile coraggio di sbattere in faccia il loro rhum che ti fosse offerto.
Avete capito, giovani lettori: questo è un testamento. Entro in clinica oggi
pomeriggio per una operazione da cui, di solito, non si esce. Per la prima volta
ho la gioia di essere stato il vostro Maestro.
|