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| << | < | > | >> |Pagina 9Luigi VeronelliPablo, perché noi trascuriamo l'agricoltura? [...] Contadino, nato a sostenere la fatica. Dura tutto l'anno tanta pena a lavorare d'inverno, d'estate, tanti sudori, tanti caldi, tanti freddi. Faticante sinonimo di contadino. La fatica è la sua misura quotidiana. Scrisse bene, Nuto Revelli, anni '50: «Le leggi sono state fatte contro i protagonisti; è il controllo delle masse contadine la grande risorsa della restaurazione». Il rispetto di sé e degli altri, l'impegno costante, la pazienza - dei contadini, dico - hanno radici millenarie. Penso che possano essere "usati" con una continua, aspra, lotta all'interno delle istituzioni. Con questi concetti e nel preciso ricordo delle parole di Brunetto Latini - scrittore italiano del Duecento, definito da Dante maestro - «Tre sole autorità meritano rispetto: la madre, il padre e il comune», ho promosso, con l'accordo dell'associazione nazionale dei Comuni d'Italia, una legge di iniziativa popolare proprio sulle denominazioni comunali. Le 50.000 firme necessarie non sono state raggiunte per il pressoché totale disinteresse - poi - delle autorità. I sindaci - visti come amministratori e non come politici - avrebbero potuto controllare e garantire ciascun prodotto dell'agricoltura e della manifattura alimentare nell'ambito territoriale del proprio Comune. Grazie - guarda un po' - alle possibilità globali (Internet) la loro vendita sarebbe avvenuta attraverso un'agenzia non privata, bensì comunale. Approvata la legge, non passano 20 (venti) anni e i supermercati delle multinazionali, da noi, chiudono.
Perché, Pablo, trascuriamo l'agricoltura? I centri sociali, da me
sollecitati - sollecitati forte - hanno disdegnato di occuparsene.
Pablo Echaurren Capisco cosa vuoi dire, contadini, campesini, sem terra, paesani, crofter, farmer, fattori, villani, la dignità della comunità, il rifiuto dell'urbano troppo urbano, del meccanismo disumano che tutto appiattisce, avvilisce, infrollocchisce, la negazione dell'organizzazione tentacocacolare che recide le radici dell'appartenenza per renderci mobili, malleabili, intercambiabili, programmati come automi, atomi scoppiati di un universo a senso unico obbligato, non più abitanti di un pluriverso sfaccettato. Lavorare, faticare, sudare per mangiare sono le maledizioni bibliche degne d'un dio pantocratore e persecutore che non riconosco, ma che almeno tutto ciò sia per dare voce a un proprio sapere profondo, antico, territoriale, non per servire un potere centrale, industriale, che impone regole sue. Imitare la patata che germoglia in ogni parte del suo corpo, che sfugge a una concezione verticale, verticalista, ma funziona in orizzontale, quasi un frattale vegetale che si espande in ogni direzione senza ordini dall'alto. Coltivare invece che cacciare, progredire, essere agricoltori, allevatori e non predatori; lavorate la terra con amore, non fate la guerra. Più fourieristi, più idealisti che marxisti, più magmatici che dogmatici, si tratta di scegliere un profilo libertario, elastico, furastico, enoico, orto-frutticolo, non orto-dosso, umilmente eroico nel giornaliero confronto con la natura che, si sa, può essere oltremodo dura, matrigna. L'incazzatura per la siccità, per la grandinata, per la gelata, per gli alti e bassi del raccolto, viene temperata dal tripudio per un grappolo ben riuscito, gravido di aspettative degustative, di odori da mazzolino di fiori che vien dalla campagna, da un'esultanza olfattiva che ripaga di cotanto lavoro, mai svolto con la mira del facile oro. Nella contadinità avverti il senso di una lotta aspra, sanguigna, terragna, uno schianto non una lagna, per dirla con le parole dello zio Ezra (Pound), le cui teorie antieconomiche sono tenute alla stregua di battute comiche per paura di verificarne la attuabilità. Il piacere al posto del dovere sarebbe il programma massimo, ma possiamo cercare di realizzare quello minimo, ovvero il piacere nel dovere. Seminagioni, raccolti, feste, banchetti, libagioni, accompagnano da sempre il travaglio di chi confida nella terra senza tema di far quadrare i conti del dare con l'avere essendo sempre maggiore il dare, di chi si affida all'andamento delle stagioni, di chi segue le fasi lunari, non quelle aziendali fatte di aride quotazioni o la borsa o la vita, o l'una o l'altra, aut-aut. Meglio un giorno da squacquerone che cento da galbanino! È ovvio che da vecchio cicorione ex-indiano e neo-artigiano metropolitano sono totalmente d'accordo, ti seguo, mi accodo, ma in questo sono anche un approssimato, vado a naso, a fiuto, perciò necessito del tuo aiuto teorico pratico perché tu, solo tu, puoi dare un significato a queste nostre tensioni campagnole affinché non si rivelino delle pure evasioni, delle fughe, semplici beghe di chi non riesce più ad accettare il ritmo della città, di chi è deluso dallo scemario generale e vuole cambiare canale, anzi spegnere del tutto l'apparecchio e sintonizzarsi sul brusio dei prati, sul ronzio delle api, sullo sciacquio della risacca. | << | < | > | >> |Pagina 20Luigi Veronelli[...] Cucinare d'istinto con conoscenze abborracciate anche quando geniali - Gianfranco Vissani, a mio parere, non passerebbe gli esami finali di un corso di cucina - comporta degli azzardi (per il cliente). Lui non sa che la maggior stabilità in frittura dell'olio d'oliva rispetto agli altri oli (di semi) è dovuta, oltre che al suo più basso punto di fumo, soprattutto al basso contenuto di acido linoleico e alla minima, quasi nulla, presenza di acido linolenico. Questi due acidi, presenti in dosi ben superiori negli altri oli, sono fortemente insaturi, il secondo più del primo, e reagiscono facilmente con l'ossigeno atmosferico formando prodotti di degradazione quali: l'acroleina e la crotonaldeide.
In Francia - ove anche vi sono grandi cuochi, e creativi - l'uso dell'olio
di soia in cucina è proibito, proprio per la salvaguardia della salute
dei consumatori.
Pablo Echaurren Quando ti leggo veggo nitidamente la cucina del Pascoli su a Barga, in Garfagnana, un'orchestra ormai silente che ne ha suonate di sinfonie e che, al solo contemplarla, ti fa palpitare, ti teletrasporta indietro nel tempo, nel campo avito, con gli uccellini cip-cip e telterel-telterel e tac-tac e sii-sii e uid-uid e le amorevoli cure della sorellina Mariù, e il cane Gulì, ti fa sentire lo schioppettare del focolare, l'aroma mattutino della cenere spenta, ti fa accarezzare con gli occhi il legno degno d'un grande tavolo intorno al quale ci si racconta della giornata ormai passata, ci si ritrova nell'affettare una onesta soppressata. Se non ci sei mai stato vacci. Gli spiedi, il pentolame in rame, i bollitori per il cotechino, il macinino, il camino muto col paiolo sospeso, gli alari, le griglie, il lume a petrolio spento, la madia, il cotto del pavimento sbreccato, le pareti a calce, il fiasco impagliato, il bricco, il coccio, il ciocco, sono in perenne attesa d'una scintilla che li risvegli dal letargo. Il tegame amplifica la fantasia d'un reame irrimediabilmente disperso, arcaico e carico di profumi, un mondo che parlava con la lingua di fumo lasciata sul muro annerito, con la melodia dodecafonica dello stovigliare, dello spignattare, dell'imbandire. Le onomatopee sono l'irruzione del reale nella pagina, sono vita materiale che si fa scrittura, rimatura che riproduce la natura con meticolosità d'archivio. È noto il fatto che ti è caro definirti semplice notaro dei liquori, dei sapori, degli umori, perché dici di non esserne artefice diretto, cioè né bottaro né casaro. Ma i tuoi racconti sono più che una registrazione di degustazione avvenuta, sono in grado di tradurre, indurre, produrre ex novo, ex vino, ex tino, sono enzimi vivificanti, vinificanti. Assieme possiamo estrarre buone vibrazioni e anche essenze di dissidenze rispetto a due fenomeni perversi, la produzione delle multiNAZIonali alimentari e il rimbambimento modaiolo di molti nostri gourmet d'accatto che riflettono nelle loro recensioni incensazioni una mancanza di gusto in senso lato, una carenza di estetica rurale, una grossolanità cittadina, e di conseguenza un'incapacità di giudicare senza farsi abbindolare dalla pompa, dalla millanteria, dalla burineria dei merletti, dei cristalli, dei furbetti dai piatti elaborati. La tua affabulazione invece prolunga la gloriosa linea lombarda Dossi Lucini Gadda e la porta a Radda (in Chianti). Ci sento dentro l'istinto di chi è ancorato al podere contadino e non al potere parolaio, di chi non si fa prendere per il sedere, per il naso, per i fondelli, per i corbelli, che ci tiene ai fornelli, una cosa che non posso dire di riscontrare in tanti critici di Guide Rosse, Tangheri in Ghingheri, Gamberi Rubizzi e altri ghiribizzi editoriali in circolazione che hanno la prerogativa di fare andare fuori dai gangheri chi è alla ricerca del cibo sparito. | << | < | > | >> |Pagina 101Pablo EchaurrenAddirittura è il Vaticano ora, in occasione del summit di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile (da chi?), che invoca la necessità di fomentare e incoraggiare una generale "conversione ecologica". Noi, laicamente, contro lo strapotere del grano inteso come pecunia non olente - così dicono quelli che lo maneggiano in quantità - ma che invece si intrufola in ogni interstizio dell'esistente (la natura, la salute, il lavoro, il cibo, la politica, perfino l'amore, il tempo, l'arte), noi, dico, possiamo perseguire la via del grana, nell'accezione di quella forma perfettissima di formaggio semigrasso a pasta dura, cotto, così nomato per i minutissimi grumi di coagulo, unico, impareggiabile, imperturbabile di fonte ai goffi tentativi imitativi del Parmesan germanico, del Reggano (senza la "i") americano e del Reggianito argentino. Nella regione del grana la gente si sbrana per attribuirsi la palma del migliore, in lui sembrano ritrovare le scaturigini di una vita per nulla grama, piena, integra, in armonia col tutto, senza cedimenti verso la simonia che è il peccato di chi si mette a mercanteggiare sulle cose più sacre, giacché la salvezza non ha prezzo, neanche quando si parla non dell'anima ma dello stomaco. «In me e nella mia categoria / che ha perduto contatto persino con la fabbrica del latte / e del formaggio, che in ogni Arcadia gode prestigio (...)»: così il lamento di Andrea Zanzotto che canta con lancinante nostalgia il galateo del bosco, la lingua della linfa, il bisbiglio del cespuglio, così Zanzotto manifesta il suo disagio per l'amputazione di una parte importante di sé inflittagli dalla meccanizzazione spersonalizzata, quella parte che invece dovrebbe mantenere attiva la comunicazione con la sapienza materiale e parlare con le bacche, con i rovi delle macchie, e - perché no? - con le mucche. A proposito di queste ultime ti pongo un quesito: come mai se uno compra del parmigiano reggiano, al di là del marchio inciso a puntini sulla crosta, non viene informato da un'apposita etichetta su chi ne sia stato l'autore materiale, visto oltretutto che lo slogan del consorzio è "Non si fabbrica, si fa"? Viene da chiedersi: chi è, in definitiva, che davvero lo fa? Perché non ci offrono gli strumenti idonei per andare a ritroso nella catena produttiva e distributiva, per risalire alla fattoria, alla stalla, al tipo di bestiame? Poter appurare per esempio se per quella certa forma di grana sia stato utilizzato il latte della mitica vacca rossa come ci hanno tramandato i vecchi e, testardamente, si continua a fare a Coviolo e da qualche altro eroico casaro restio a svendere il proprio patrimonio genetico alle lusinghe delle banche e della convenienza. Infatti il latte generalmente impiegato proviene dalle mammelle della mucca bianca (così si dice da queste bande), ovvero della fisona, della pezzata, dell'olandese, il quale, essendo il doppio come quantità prodotta per capo, è certamente meno potente, più confacente all'incremento dell'investimento, all'allevamento su vasta scala ma con un effetto fotocopia rispetto all'originale. Nel reggiano c'è gente che non dimentica, che battezzava i propri figli col lambrusco per contestare le usanze pretesche, gente fiera, che conserva la memoria della cucina rosso nera (nel senso dell'anarchia), delle osterie senz'oste (prendi secondo necessità, paghi secondo possibilità, con onestà), dei liquori proletari. Anche la vacca rossa (di nome e di fatto) farebbe la sua porca figura in apertura del nostro corteo. | << | < | > | >> |Pagina 127Pablo EchaurrenAssunzione di responsabilità. Ti ricordi nel Gargantua e Pantagruel cosa Rabelais mette in bocca al nobile pontefice Bacbuc dopo che Panurge se inginocchiato riverente di fronte alla Diva Bottiglia? Ti ricordi quale balzano etimo escogita a proposito del vino? Giocando sull'assonanza in greco tra "o noos" (mente) e "oinos" (vino), Bacbuc si lancia in una spericolata interpretazione della parola sostenendo che vino significhi forza, potenza, sapienza, «perché egli riempie l'anima d'ogni verità, d'ogni sapere e d'ogni filosofia. (...) nel vino è celata la verità. La Diva Bottiglia vi ci manda: siate voi stessi interpreti della vostra scoperta». I mezzi di produzione, di distribuzione, di selezione preventiva, sempre la stessa solfa, da che tempo è tempo. Teniamoceli stretti i nostri prodotti, impediamo che altri ci mettano sopra le loro sgrinfie e decidano quale fine debbano fare, se sono validi oppure no, non lasciamoli ammuffire o deperire a causa delle logiche aziendali, dei parametri vigenti, per loro intrinseca natura paralizzanti, disarmanti, demolenti ogni proposta non in linea. Affidarsi a un altro-mercato, a una contro-economia, a una autonomia decisionale che sia autono-mia, autono-tua, autono-nostra, mai autono-loro. È allora che saremo tutti Paperoni, ma non Paperoni arpagoni, non papponi alle spalle del prossimo, saremo dei Paperoni spendaccioni dalle tasche sfondate, dalle mani bucate, dalle menti acuminate. Come ripeteva Primo Moroni, il fondatore della libreria Calusca di Milano, archivista estremista, biblio-faro, guru della nostra sinistra, "socializzare i saperi senza fondare poteri". Bello slogan, facciamolo nostro. | << | < | > | >> |Pagina 133Luigi VeronelliCiascuno dei libri religiosi ha il suo esodo. Luomo in fuga, perseguitato, provvede alla stesura di comandamenti che lo conducano a un porto. Nel corso della storia i fedeli di due religioni, diverse ma affini, hanno appesantito i propri precetti così che il controllo di chi era divenuto soggetto, fosse più rapido ed efficace: messa festiva, astinenza e digiuno nei giorni prescritti, confessione annuale e comunione pasquale, contribuzioni per le necessità delle Chiese, periodi di tempo proibiti per il matrimonio solenne. Libero dalla paura - con una conoscenza migliore dei fatti della natura - l'uomo si sarebbe dato un unico imperativo: onora la vita. I comandamenti d'ogni religione nel mondo sono carichi di avvilimenti e violenze. Da ciò, senza la benché minima possibilità di reale smentita, conseguono non solo i guai che ci affliggono, guerre in primis, addirittura la schiavitù per la maggior parte del genere umano e la "diabolica" costrizione a generare il maggior numero possibile di figli, perché siano a base dello sfruttamento industriale, in un continuo andare. L'uomo che ha, quale unico imperativo, di onorare la vita è un anarchico. Rifugge da ogni tipo di violenza, propria ed altrui. | << | < | > | >> |Pagina 143Luigi VeronelliOggi ti propongo - godute pressoché sempre con un formaggio e con un vino rosso dei luoghi - l'ampia famiglia delle pere ("al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere", non è un proverbio della saggezza rurale bensì un comandamento dei signori). Il lettore e noi le troveremo, fresche o in conserva (secche, sotto sciroppo e sotto alcool) nei seguenti paesi del privilegio: in Agerola di Napoli le cosiddette Pennate; in Barghe di Brescia le pere tardive dette curàcc; a Barletta di Bari le pere favazza; in Bosia di Cuneo le pere passagrassana; in Campobasso e a Castel Madama di Roma le pere spadone; in Finale Ligure le pere agostane calvisio; in quella benedetta "striscia" che corre da Asti a Roero le pere madernassa di Govone, di Magliano Alfieri e di Vezza d'Alba; a Palata di Campobasso le pere moscarelle; in Alto Adige, Termeno le Kaiser e le Alexander. | << | < | > | >> |Pagina 149Luigi VeronelliTutto da rifare, insomma, come quei revisionisti che vorrebbero riscrivere i testi scolastici affinché si mostrasse maggior benevolenza verso Salò, i marò della X Mas, i kapò, e che farebbero dei bei falò, dei roghi, degli autodafè, con i libri dei colleghi non allineati alle nuove direttive ministeriali. Si deve imparare a mangiare e bere bene, non per diventare dei gurmé o dei sommelié, ma in un quadro più generale che include il saper interpretare, criticare, valutare un quadro, una scultura, una lettura, per non farsi mettere i piedi in testa da chi apre bocca e gli dà fiato, da chi vuole cambiare le carte in tavola e barare a tutt'andare. | << | < | > | >> |Pagina 157Pablo EchaurrenAttualmente, per esempio, mi trovo in una amena e ridente località toscana dove, se non si viene travolti e spiaccicati sull'asfalto da qualche automobilista incosciente, mediamente si arriva a superare gli ottanta. Allora perché ci ostiniamo a respirare veleni e a consumare bevande e cibi alieni? Se una mela al giorno leva il medico di torno, è altrettanto vero che il cavolfiore tiene a bada il tumore, l'acciuga mette in fuga il colesterolo, l'aglio agisce come un maglio contro i radicali liberi, il vino è per antonomasia lo spazzino delle arterie, specie se è rosso riduce il rischio di collasso.
Noi, che negli anni Settanta volevamo realizzare l'assalto al cielo e
volavamo alto strillando "Riprendiamoci la città", oggi possiamo decisamente
voltare pagina e gridare "Riprendiamoci la campagna". Scappiamo dai giardinetti,
dai parchi attrezzati, dai verdi surrogati. Via, via, lontano il più possibile
dagli abusi edilizi, dai mostri architettonici, dai cementi dementi.
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